Quei fatti di Segno

Negli anni appena successivi alla fine della Prima guerra mondiale la situazione politica del Trentino era assai delicata. Il rientro dei profughi (circa 100.000 persone) dai campi di internamento in Austria, incontrò non poche difficoltà e disagi per i rimpatriati che dovettero fare i conti con le case distrutte; il cambio della corona con la lira fissato dapprima al 40% e successivamente al 60%; la perdita del valore del risparmio di molti trentini, fecero insorgere tra la popolazione molti dubbi e perplessità nell’essere passati all’Italia.

Il nuovo Trentino, il giornale cattolico diretto da Alcide Degasperi, dopo la pausa forzata dovuta all'imperversare della guerra, riprese le pubblicazioni. Nel mezzo di quel periodo di transizione dall’epoca asburgica a quella italiana il giornale svolse un ruolo di mediazione come ben si può notare da questi articoli riguardanti un fatto accaduto a Segno nel 1920.
Il 20 giugno di quell'anno ancora non era stata promulgata la legge d’annessione del Trentino al Regno d’Italia (che sarebbe entrata in vigore il 26 settembre) e a Segno si teneva un’adunanza riparatrice per un atto teppistico avvenuto nel paese che aveva offeso la bandiera italiana e un’immagine di Cesare Battisti.
Riportiamo la cronaca pubblicata sullo stesso giornale del 18 giugno 1920 e altri interventi dei giorni successivi.

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Il nuovo Trentino - 18 giugno 1920
UNA PAROLA SULLA RESISTENZA D’UN VILLAGGIO

Nella Libertà sono comparsi due articoli su «i fatti abbominevoli di Segno» e noi stessi avevamo ricevuto una corrispondenza assai forte in riguardo. Per avere cognizione esatta dell’accaduto, abbiamo inviato sul luogo un redattore, il quale, dopo una severa inchiesta ci scrive:
La relazione comparsa martedì [ndr 15 giugno 1920] nella Libertà contiene anzitutto varie inesattezze nelle premesse di fatto che lasciano vedere che l’autore non è di Segno né delle vicinanze immediate. Non è vero, per esempio, che a Segno esista una rappresentanza comunale, ma c’è un sindaco nominato con una piccola consulta. Non è vero che sieno state sequestrate armi e munizioni: i carabinieri fecero un’inchiesta ma non procedettero a perquisizioni di sorta e quindi nemmeno a sequestri di armi. È poi estremamente esagerato lo scrivere che nei dintorni l’esasperazione per il fatto è giunta al punto che se l’autorità non punirà esemplarmente i colpevoli, si devono temere violente rappresaglie.
L’incidente è deplorato ovunque, Segno compreso, ma tra la deplorazione e il proposito di una vendetta a mano armata ci corre un bel po’. Rettifichiamo poi subito un’insinuazione molto «gesuitica» della Libertà, la quale parla «benedettina», volendo indicare con ciò che questa faccenda sia stata ispirata dal P. Vanini, un benedettino che ha la cura d’anime di Segno e che durante la guerra fu internato dall’Austria. La nostra inchiesta, condotta anche presso persone punto clericali, ha assodato con tutta certezza che P. Vanini non c’entra affatto, né nella prima né nella seconda fase. Ed ora veniamo alla cronaca, come si può ricostruire in base all’inchiesta.

La cronaca
Alcuni mesi fa, la Legione Trentina inviò a tutte le dirigenze scolastiche dei paeselli del Trentino un ritratto di Cesare Battisti, pel tramite dei Commissariali di civili. La popolazione di Segno, conosciuta la cosa, si mostrò contraria a far figurare l’immagine di Battisti nella propria scuola, e il sindaco dovette, per ciò, avvertire il Commissariato civile di Mezolombardo che non si riteneva autorizzato a stanziare la spesa per l’inquadratura del ritratto di Battisti.
Pareva che tutto fosse finito, allorché il 4 corr. le scuole di Segno furono avvertite di prepararsi per la festa dello statuto quando si sarebbe fatta l’inaugurazione del quadro di Cesare Battisti.
Gl’insegnanti apparecchiarono le scolaresche facendo loro provare degli inni patriotici, e insegnando a qualcuno discorsetti e poesie d’occasione. Al Municipio la cosa fu comunicata soltanto nel pomeriggio del giorno seguente, sabato vigilia dello Statuto, da un messo del Commissariato civile di Mezolombardo. Domenica 6 corr. prima che principiasse la messa mattutina molto affollata in questi tempi quando la gente ha fretta di portarsi a compiere il lavoro dei bozzoli, il sindaco pregò don Giuseppe Vanini che si compiacesse di avvisare la popolazione di fermarsi un momento sulla piazza, dopo messa. Così avvenne e il popolo di Segno tenne parlamento al sol di giugno. Qui il sindaco partecipò la comunicazione pervenutagli dal Commissariato, aggiungendo che alla cerimonia dell’apposizione del quadro di Battisti nell’edificio scolastico avrebbe presenziato direttamente il Commissario civile, Cav. Trinchera col capitano dei carabinieri, e si desiderava che alla cerimonia intervenisse, oltre alle autorità e alle scolaresche, la stessa popolazione. Questa, invece, dopo le comunicazioni sindacali, mostrò unanime il dissenso per la cerimonia.

Una votazione
Si disse che quella del Commissariato era una vera e propria imposizione dopo che già precedentemente era stato fatto conoscere al commissario civile di Mezolombardo il pensiero della popolazione riguardo al quadro di Battisti nelle scuole. Si disse ancora che si riteneva sconveniente la glorificazione perenne di Battisti al cospetto dei fanciulli, dati i precedenti anticlericali, antireligiosi, socialisti del Martire Trentino, e perché non si riteneva di poter approvare la propaganda per la guerra fatta dal Battisti dopo la sua fuga in Italia. Fatto sta, che quando il sindaco mise ai voti la proposta di accogliere il quadro di Battisti nell’edificio scolatico, non si levò neppure una mano.
Di tutto fu esteso regolare protocollo e questo fu consegnato al Commissario civile quando nel dopopranzo si recò a Segno. Il Commissario avrebbe risposto che non poteva tenerne conto, e che avrebbe fatto lo stesso ciò che aveva deciso di fare. Infatti, l’inaugurazione del quadro di Battisti, collocato tra festoni di edera e drappi fra i quadri dei Reali, ebbe subito luogo alla presenza, oltre che del capitano dei carabinieri, del sindaco, di un paio di delegati comunali, degli insegnanti e di poco più che una mezza dozzina di scolari.

La profanazione
Poco prima di mezzanotte la tranquillità consueta del paese fu interrotta dall’echeggiare di alcuni spari, non si sa se di pistola o di rivoltella. Che succedeva? Uno o più ignoti, penetrati nell’edificio scolastico, fracassando una finestra, avevano asportato il quadro di Cesare Battisti e se lo erano tirato dietro fino in campagna, facendolo poi bersaglio di alcuni proiettili. I frantumi del quadro furono rinvenuti la mattina appresso vicino all’edificio scolastico, ma l’autore o gli autori del deplorevole gesto, biasimato subito da tutti i ben pensanti del paese, anche ostili al Battisti non furono identificati nonostante le indagini dei carabinieri.
Un altro fatto grave succedeva la notte seguente, tra il lunedì e il martedì. Non si sa perché, la bandiera nazionale esposta dall’edificio scolastico il giorno dello statuto, era rimasta lì. Martedì mattina, 8 giugno, si trovarono invece soltanto l’asta e i nastri della bandiera al loro posto: vi mancava il drappo tricolore.

Uno sfregio alla bandiera?
Uno sfregio alla bandiera nazionale? Non sappiamo. Certo è però che a Segno sono pressochè unanimi nel sospettare che il tricolore sia stato asportato ad arte da qualcuno interessato a dare all’autorità l’occasione e il mezzo di agire in linea penale, essendo mancati nei fatti fin allora verificatisi, anche con lo sfregio al quadro di Battisti, gli estremi di un reato politico. Si fa notare, prima di tutto, che nell’aula scolastica non solo i quadri del Re e della Regina ma anche i festoni collocati per l’occasione erano rimasti intatti; che se si fosse voluta offendere la bandiera, il gesto temerario sarebbe stato compiuto la notte precedente, quando fu strappato il quadro di Battisti; che non si spiega la ragione per cui la bandiera rimase ancora esposta; che, in fine, se si fosse trattato di uno sfregio, la bandiera nazionale sarebbe stata strappata violentemente, portando magari via non solo il drappo ma anche l’asta e tutti gli accessori; invece, si è potuto notare che il drappo fu tolto levando ad uno ad uno, con delicata cura, i chiodini che lo fermavano all’asta; questa quindi, deve essere stata prima tolta e poi, dopo rimessile i chiodini, ricollocata al suo posto.
Questi i fatti, nella loro semplice essenza. Per la cronaca aggiungeremo che presso il Giudizio di Mezolombardo si è iniziata l’istruttoria contro alcuni di Segno per reato ex § 305.

Siamo lieti anzitutto che anche a Segno si deplori generalmente e sinceramente lo sfregio fatto al ritratto di Cesare Battisti. L’atto villano e biasimevolissimo dev’essere opera di qualche anima rozza e cattiva, con cui la popolazione non vuole aver nulla di comune. Molto meno poi c’è chi possa scusare la scomparsa della bandiera nazionale. L’ipotesi messa innanzi dai rappresentanti della popolazione ci pare davvero arrischiata assai, ed inverosimile; è stato bene però prenderne notizia, perché essa denota che la popolazione di Segno non vorrebbe nemmeno ammettere la possibilità che uno dei propri abbia levato le mani contro la bandiera della nostra patria. Del resto si sta ora avviando un’azione penale ex § 305 (famigerato paragrafo!) e possiamo quindi rimetterci ai risultati dell’inchiesta ufficiale.
Ma diciamo ora una parola sulla causa prossima che ha provocato un incidente tanto biasimevole. Si vuole esporre il ritratto di Cesare Battisti in una scuola elementare di campagna. Il sindaco avverte il Commissario civile che la popolazione del villaggio non lo crede opportuno. Il commissario non tiene in nessun conto le obiezioni, ma impone e dirige egli stesso la cerimonia. Ora noi, lasciando da parte ogni altra considerazione, vogliamo lumeggiare la questione dell’opportunità politica.

Non omaggio, ma atto pedagogico
Per quali ragioni gli abitanti di Segno si oppongono all’affissione del ritratto in scuola? Le hanno espresse in un memoriale e in contradittorio verbale col commissario stesso. Sotto di due specie. Mettendo, dicono, il ritratto di Battisti, accanto al Crocefisso ed al ritratto del Re, noi proponiamo il Battisti ai nostri figliuoli come modello. Ma egli prima della guerra e per tutta la sua vita fi anticlericale, socialista, rivoluzionario. Noi non vogliamo che i nostri figliuoli credano che per divenire valentuomini, bisogni abbracciare tali idee e svolgere siffatta attività. Ossia gli alpigiani di Segno hanno detto: Battisti fu per tutta la vita uomo di parte che combatté aspramente le nostre idee e come tale era ben noto, prima della guerra, nella nostra regione. Dobbiamo noi sconfessare le nostre idee, col proporre il Battisti all’imitazione dei figliuoli?
Ebbene, queste obiezioni non contengo proprio nulla di fondato? Se domani si trattase di erigere un monumento a Battisti, martire della causa nazionale, per celebrare il suo eroico combattere ed il suo eroico morire, chi volesse riferirsi alla attività prebellica di Lui per rifiutare un omaggio o un contributo più che doveroso, avrebbe torto palese. Ma se invece si tratta di esporre stabilmente la sua effige innanzi agli scolaretti di una classe rurale, la questione è perlomeno complessa. Vorremmo vedere in quale imbarazzo verrebbe messo quell’insegnante, a cui uno scolaretto domandasse a bruciapelo, se le idee socialiste e repubblicane di Cesare Battisti s’accordassero coll’omaggio dovuto all’altro ritratto posto accanto, che è quello del Re; ovvero se le sue opinioni, fissate in articoli polemici di giornale, contro la fede cristiana e la Chiesa cattolica, si potessero conciliare col Crocefisso che è ancora appeso nelle scuole. Certo che l’insegnante, se avrà fior di senno, potrà rispondere distinguendo: rilevando cioè che l’omaggio va a Battisti soldato per l’indipendenza del suo paese, a Battisti: eroica vittima della tirannide, e che non riguarda la sua attività prebellica. Ma intanto bisogna forzare l’anima semplice del contadinello ad un discernimento realistico della vita, discernimento a cui di solito induce solo più tardi l’esperienza, mentre il fanciullo ha bisogno dell’ideali intiero, perfetto, indiscutibile.
Noi non vogliamo aver fatto questo ragionamento per tutte le scuole e per tutti i casi, ché non intendiamo rubare il mestiere ai pedagoghi di professione, ma, messi innanzi ad un caso concreto, ci chiediamo se una volta che tale questione venga posta, com’è accaduto a Segno, essa debba proprio venir trascurata con una scrollatina di spalle o se invece il commissario non avrebbe fatto bene a tenerne conto.

Ragioni politiche, Deplorevole mancanza del concetto nazionale
Ma i nonesi di Segno, come risulta dall’inchiesta, si opposero anche per una seconda categoria di ragioni, per ragioni cioè di carattere politico. Battisti ha esaltata e promossa la guerra, dicono, anzi la guerra contro lo stato cui apparteneva, e quindi non possiamo proporlo a modello delle generazioni venture. Qui il ragionamento ha una ispirazione dolorosa. Badate però che, pedagogicamente parlando, questi nonesi non hanno tutti i torti. Battisti, passando la frontiera e ritornandovi poi come tanti altri volontari, a combattere contro l’Austria, è contravvenuto alle leggi positive dello Stato, di cui era cittadino. Ora non vi sembra che il suo ritratto in una scuola possa offrire più facile argomento di una lezione… patriottica se la scuola fosse quella, mettiamo, di Bolzano e il maestro fosse un pangermanista di lassù che sé scuola e maestro si trovassero sul territorio nazionale? Nessuno vi sia che ritenga con ciò che il problema per chi segue l’etica cristiana sia rimasto insoluto. Le leggi obbligano in tanto in quanto sono giuste e nessuno ha insegnato che la tirannide non possa venir combattuta; sicché non v’ha dubbio che un italiano che aveva piena coscienza dei torti patiti dalla sua nazione, e delle ingiustizie perpetrate contro i propri fratelli, un italiano che sovrattutto aveva coscienza dell’iniquità della guerra, scatenata dagli Asburgo, e del fatto che durante la guerra erano state emanate leggi ingiuste che calpestavano i diritti naturali più sacrosanti sia dagl’individui che della stirpe, quest’italiano agendo con tale coscienza contro lo Stato austriaco, non ne offendeva la legittima autorità, ma difendeva il diritto suo e della nazione. È vero tuttavia che questa coscienza è soggettiva, è vero che è difficile in termini oggettivi tirar netta la linea tra quella che è trasgressione colpevole di una legge e quello che diventa ribellione giustificata o doverosa; è vero quindi che tale materia difficilmente si presta per una lezione di pedagogia elementare. La lezione non farà effetto sovratutto in ambienti conservativi, ove il rispetto delle leggi è inculcato da secoli in forma assoluta, poiché la mancanza di sentimento nazionale (che non poteva nascere se non da un conflitto di aspirazioni ideali) ha impedito che si affacciasse il problema della legittima eccezione. Deploriamo quindi la mancanza di tale sentimento, cerchiamo di alimentarlo, ma rispettiamo il principio e non facciamo nulla per scuoterlo, perché, se oggi l’Italia vacilla, è perché manca la salda base del senso del dovere e se l’Italia, come fermamente crediamo, si rifarà più forte, sarà solo perché il programma dell’attuale governo: «rispettare la legge» verrà attuato.
Da questo punto di vista andava considerata, specie dagli organo governativi, l’opposizione di Segno. Comprendiamo benissimo che può riuscire sconfortante per un funzionario italiano trovare ancora chi ha una concezione così feudale del cambiamento di regime e l’incontrarsi di chi vi ha assistito passivamente com’è per il colono il passaggio da un padrone all’altro; ma bisogna aver pazienza: i secoli hanno lasciata la loro impronta, e del resto non c’è da vergognarsi: l’hanno lasciata ancor più in tante altre parti d’Italia.

Gettare le basi dell’avvenire
Devesi infine considerare che oggi quello che importa non è quello di farci giudici del passato, ma di gettare le basi di un sicuro avvenire della nazione. Fra queste basi, attendendo che vi si aggiunga, per l’opera educativa del tempo, un più approfondito sentimento di patriottismo ideale, vediamo intanto di non intaccare quella che fortunatamente è ancor ferma nel nostro popolo della campagna: il rispetto per l’autorità e l’obbedienza alle leggi.
Né quando ci si trova innanzi a simili casi di coscienza (parliamo naturalmente delle obiezioni dei galantuomini, non degli atti indegni di qualche facinoroso) è giusto o opportuno gridare subito ai «cani idrofobi» agli austriacanti, lazzaroni ecc. Bisogna reagire educando, insegnando, e rispettando il sano fondamento morale del popolo; non ingiuriare, né menar scandalo, si che ne gioisca, come leggiamo nei Tiroler a proposito della Libertà, anche l’opposizione tirolese. La verità si farà strada. Fino a pochi mesi moltissimi credevano ancora che l’Italia, entrando in guerra, avesse rotta l’alleanza; fino a pochi mesi molti credevano che la grande guerra non fosse scoppiata sovratutto per colpa dell’Austria. Ora questi pregiudizi, scolpiti nell’animo da cinque anni di propaganda, vanno scomparendo. Scomparendo, andranno sostituiti da una più equa valutazione della guerra italiana e da un più giusto apprezzamento di chi la fece.
Ma non cerchiamo d’incalzare questo naturale procedimento con attacchi fascisti. Non si farebbe che arrestarlo. Sovratutto non rimestiamo sempre il passato. Questo continuo esaminare al microscopio patriottico il contegno seguito in confronto del vecchio regime irrita le coscienze indipendenti e scoraggia i deboli: l’effetto è l’internazionalismo, quel senso cioè di reazione che si è manifestato contro una predicazione nazionale, mista di stamburonate, di ditirambi e di maledizioni
. Quello che importa oggi è che un galantuomo abbia fede nel risorgimento e nell’avvenire della patria e vi concorra coll’obbedienza alle leggi, col suo lavoro onesto e proficuo e col sentimento di questa nuova solidarietà nazionale che ci porterà innanzi entro la fratellanza umana. Chiunque cammina su questa via, serve l’Italia e, venisse anche di là donde era evaso Jean Valjean, nessuno deve rinfacciarglielo o meno che meno aizzargli addosso Javert.


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Il nuovo Trentino - 19 giugno 1920
UN COLMO DI SPUDORATEZZA

Raramente nelle polemiche giornalistiche trentine o forse mai abbiamo assistito ad una così audace, spudorata, sleale, schifosa, inversione della verità di quella che compie la «Libertà» di stamane riferendosi all’articolo da noi scritto ieri sui fatti di Segno. Staccando dal contesto alcuni periodi in cui era espressa la concezione soggettiva dei contadini di Segno e saltando a piè pari quelle proposizioni in cui invece era affermata la nostra, gli sleali redattori del giornale-guazzabuglio attivano a concludere così:
Per i clericali del N. Trentino Battisti, come tutti gli altri eroici ribelli dell’Austria impiccatrice, contro cui oggi fanno mostra – a volta – di manifestazioni ostili con dipinture di quadri d’insieme a fosche tinte, è un traditore.
Poiché traditore è chi: «passando la frontiera e ritornandovi poi come tanti altri volontari a combattere contro l’Austria è contravvenuto alle leggi positive dello Stato di cui era cittadino».
È la giustificazione legale addotta dagli assassini dell’Austria, in forza della quale si è consumato il delitto nella Fossa del Castello. E il giornale clericale la riesuma e risciacqua per la canizza della scizzeria segnese e per la bellezza di tutto il rigurgito austriaco delle fogne immonde in cui, dopo il tre novembre si erano annidati i vecchi arnesi del passato regime.
Ed insieme alla giustificazione legale asburgica rimessa a nuovo e compiacentemente fatta propria, è tutto il livore settario contro Cesare Battisti che riempie di bava viscida la bocca sacrilega dello scrittore clericale.
I preti non perdonano mai! Battisti è e resta per essi l’avversario implacabile, tenace, che li ha rotti e fugati in caccia mille e mille volte in nome del suo italiano ideale di libertà.»
Ogni uomo onesto che ha letto i due articoli giudichi liberamente.
Ai signori della «Libertà» rispondiamo solo questo: voi mentite vigliaccamente, sapendo di mentire. Il vostro metodo polemico è di quelli, a cui si reagisce solo col disprezzo.
In quanto ad inchiodarci alla sbarra, alla vostra sbarra fascista – repubblicana – socialista – agraria – pescecana, fate pure. Se voi avete preso il nostro acuto senso di responsabilità, il nostro desiderio di tener unito il paese in momenti difficili, per paura dalle vostre accuse o dalle vostre sbarre, vi siete ingannati. Non è al vostro funambolismo e insterismo politico che chiederemo l’attestato di uomini onesti che hanno lavorato e lavorano disinteressatamente per il loro paese e per i l loro popolo.




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Il nuovo Trentino - 21 giugno 1920
LE COSE A POSTO

Ripetiamo agli scrittori della Libertà che sabato, riferendosi al nostro articolo di venerdì, hanno falsato il nostro pensiero e l’hanno falsato coscientemente, scrivendo che noi facevamo propria «la giustificazione legale asburgica» della morte di Battisti, mentre avevamo affermato con tutta chiarezza proprio il contrario. A questo insigne esempio di malafede polemica, non frequente nel nostro paese, siamo scattati, e l’abbiamo qualificata come si meritava, cioè come una sleale e spudorata inversione della verità. Oggi il giornale di via Mantova, mentre in parte è costretto a battere in ritirata, tenta tuttavia di giustificare comecchesia la sua interpretazione e lo fa con tali contorcimenti, che troviamo inutile opporgli un’altra volta la logica lucidità del nostro commento di venerdì.
Abbiamo tuttavia ripreso la parola per togliere ancora un piccolo malinteso che pare sussista tra noi e gli scrittori della Libertà.
Sembra che codesti signori, depositati a Trento nel 1918, promotori ed organizzatori prima del fascismo anticlericale all’Alfredo Degasperi proclamante la guerra aperta ai preti ed al Cristianesimo, fautori e fondatori poi del partito repubblicano ch’era urgente piantare a Trento ancora prima dell’annessione al Regno, infine e contemporaneamente condottieri delle larghe masse che seguono il socialismo indipendente, scrittori di un giornale che oscilla tra la pescecaneria e la Camera del lavoro e fa il pendolo tra i latifondisti e Patrizio Bosetti, sembra, diciamo, che codesti magnifici esemplari di coerenza politica piovutici dal Mezzodì, abbiano potuto ritenere che noi e con noi tutte le persone che portano qualche responsabilità nella vita pubblica del paese, riconosciamo loro la parte che con rara modestia si sono assunta di giudicare e sentenziare inappellabilmente attorno alla condotta, ai sentimenti politici, al passato, al presente e all’avvenire dei trentini. Egregi signori, ci affrettiamo a disingannarvi!
Noi non riconosciamo a voi nessuna qualifica speciale per fare i maestri di patriottismo, non domandiamo a voi nessun passaporto d’italianità, e quando c’ingiuriate come avete fatto sabato e come fate oggi e vi piantate con posa eroicomica sulla vostra trincea fascista e di là rovesciate addosso le eruttazioni del vostro vituperio o quando vi lanciate fuori da codesta trincea di cartapesta per impedire a noi, «vecchi arnesi del servilismo e della genuflessione absburgica» di esercitare «il pieno diritto di cittadinanza» e fate tutto questo per incarico ed investitura del «Paese», noi abbiamo solo un rincrescimento, ed è che il paese debba starsene muto, che il paese non possa andare alle urne, per dimostrarvi coll’eloquenza delle cifre qual miserabile cosa siate voi che oggidì ve ne arrogate la rappresentanza e la tutela, e schiaffarvi così in viso la miglior risposta che meriti la vostra presunzione.
Non è quindi in riguardo delle nostre persone o del nostro partito che nella conclusione di venerdì insistevamo perché più che a rimestare il passato si pensasse a gettare solide basi per l’avvenire. Il partito popolare si fa la propria strada da sé e a voi non chiede né assoluzioni né compatimenti. Saremmo davvero ingenui se attendessimo che chi vuol fare dell’anticlericalismo a qualunque costo, chi trova la sua ragion d’essere nello sforzo di abbattere i preti «per sostituirvi il dominio della camorra e della massoneria, chi muove in battaglia contro un paesello presunto austriacante, mentre non ha che un compiacente silenzio per l’esaltazione anarchica di Bresci fatta a Trento dal fr… Belluta, possa inspirarsi in confronto nostro a criteri di equanimità e di correttezza. Ma c’è al di fuori di noi e di ogni partito organizzato una zona grigia che più spesso si estende a paesi lungo il confine del territorio italiano compatto, una zona che è sommo interesse patriottico guadagnare rapidamente alla compagine nazionale. È con riguardo a questa fascia incolore che noi, consci della nostra responsabilità insistevamo nel nostro appello, onde evitare nuovi afflussi all’internazionalismo; e credevamo che gli scrittori della Libertà se avessero conosciuto il paese e certi stati d’animo avrebbero dovuto capire che con anatemi e maledizioni, ma con un’opera temperata e costante di persuasione si sarebbe potuta diffondere quella coscienza nazionale che deplorano di non trovare.
Ma evidentemente, eravamo vittime del nostro eccessivo ottimismo, quando attribuivamo agli scrittori della Libertà una conoscenza del paese ed un senso di responsabilità che quotidianamente dimostrano di non avere.
Ma che? Codesti democratici per antonomasia, codesti libertari per cui nemmeno la scialba monarchia dei Savoia è sopportabile, codesti socialisti stile liberty hanno una politica molto semplice, molto moderna e molto efficace: la frusta.
Nell’Alto Adige? Lo scudiscio. In qualche paese più o meno retrivo a sentimenti d’italianità? Lo scudiscio. Cogl’impiegati vecchio regime, che non appaiono purissimi innanzi al loro tribunale? La fame e lo scudiscio. E lo scudiscio non lo applicano solo verbalmente, ma lo invocano sovratutto dalle autorità governative.
Che importa loro se la reazione che ne nascerà rinforzerà quelle correnti internazionaliste le quali rinnegano la patria alle sue frontiere? Alla peggio faranno come l’Italia; quando l’acqua è alla gola, si rivolgeranno a un «austriacante» a «un vecchio arnese del servilismo ecc.» a un turpe neutralista come… il Sindaco di Segno, cioè no, come S.E. l’on. Giolitti!

Il pensiero di Segno – Adunanza riparatrice
Segno 20
Solennemente è stata oggi rimessa al suo posto la bandiera tricolore che ne era stata allontanata.
Intervennero il Sindaco, la Consulta, la scolaresca e molta gente di Segno e dei paesi vicini; erano presenti anche il commissario per gli affari autonomi della provincia on. Conci, già per molti anni rappresentante politico del comune.
L’adunanza fu aperta dal Sindaco spiegando il vessillo tricolore. Parlò dei noti recenti fatti, dello sfregio fatto al quadro di Battisti e della scomparsa della bandiera.
Egli deplora vivamente l’atto vandalico compiuto contro il quadro di Battisti e sa di trovarsi in questo pienamente all’unisono coi presenti, mentre certo nessuno fra loro approva simili forme di manifestazioni. (Vive approvazioni).
E come sindaco del comune e personalmente è dolentissimo che persona ignota abbia rimosso il tricolore che egli ricolloca ora solennemente al suo posto.
La popolazione di Segno esprime per mezzo suo ferma fedeltà allo Stato italiano; le sono affatto estranei sensi di ostilità allo stesso o alla Nazione; egli protesta nel modo più fiero contro la taccia di austriacantismo e di tendenza antinazionali.
La popolazione di Segno intende di essere italiana alla pari di qualunque altra e alla bandiera tricolore egli porge il saluto e l’ossequio sincero del suo Comune.
Il discorso del Sindaco da lui pronunciato tenendo sempre in mano spiegata la bandiera tricolore, e in forma semplice ma con quella eloquenza simpatica e persuasiva che deriva dalla sincerità dell’oratore, veniva accolto con grandi approvazioni e coronato da vivissimi e generali applausi.
Finiti i quali, Francesco Chini, che era stato in addietro per molti anni capo del comune di Segno, presenta all’adunanza l’on. Conci di cui ricorda le premurose prestazioni per il Comune e per la popolazione che gliene serba affetto e riconoscenza; oggi, dice, egli è venuto fra noi per tutelare l’onore del nostro comune e noi gliene siamo molto grati; lo prega di prendere la parola.
L’on. Conci, ringraziato il Chini Francesco delle sue benevole e cortesi espressioni, si rallegra delle belle e nobili parole pronunciate dal Sindaco.
Era stato rattristato dei recenti fatti di Segno e come italiano e come anaune, mentre se l’atto teppistico compiuto e la rimozione della bandiera fossero state emanazioni di volere di popolo, ne sarebbe derivato disdoro al comune ed alla Valle che meritatamente ha sempre goduto e gode fama di intelligente e patriottica.
Le dichiarazione del sig. Sindaco separano nettamente, dice, la responsabilità del Comune e dalla popolazione da quella di poche singole persone che sfatano pienamente la leggenda che andava ormai formandosi esistere qui una popolazione adoratrice di idoli pur da tempo e per sempre infranti.
Egli ringrazia commosso il sig. Sindaco del suo omaggio al vessillo tricolore, della sua professione d’italianità, di fede ed attaccamento alla Nazione.
«Noi dobbiamo – aggiunge – amare l’Italia che ci ha guadagnati a prezzo di mezzo milione di morti, di altrettanti mutilati, di enormi sacrifici finanziari.
La terribile guerra europea che ha mietute tante vittime e cagionate tante distruzioni fu, come emerge da atti ufficiali di recente pubblicazione deliberatamente voluta dall’Austria, mentre non si è rifuggito nemmeno da impudenti menzogne per renderla inevitabile.
E già l’enorme delittuosa leggerezza con cui l’Austria aveva provocata la grande catastrofe le aveva tolto il diritto di ulteriormente sussistere.
Quando io durante la guerra ― prosegue ― ebbi occasione di recarmi a Segno lessi qui sulle vostre vie delle scritte che suonavano Graser-Gasse, Muchensengasse e a quell’insulto sanguinoso al nostro sentimento nazionale io fremetti e sentii ancor più ardente ed intenso il desiderio della vicina nostra liberazione.
Se avesse vinto l’Austria quelle scritte sarebbero rimaste, si sarebbe continuata l’opera di violenta snazionalizzazione, e come sono stati maltrattati i internati l’eminentissimo e venerato nostro Principe Vescovo e il nostro ottimo e tanto benemerito Curator d’anime, si sarebbe fra noi ulteriormente perseguitato e cercato anzi di sopprimere l’elemento italiano!
Ma per grande nostra ed altrui ventura l’Austria fi sconfitta, l’Italia riportò una gloriosa vittoria; e noi possiamo qui ora e con noi lo possono gli altri popoli che gemevano sotto il giogo austriaco vivereliberamente e liberamente respirare.
L’Italia ci stende le braccia quale Madre amorosa grondante sangue dalle tante ferite sofferte nell’immane sforzo compiuto per la nostra liberazione: noi dobbiamo e vogliamo esserle figli affezionati e devoti.
Ed io vi invito quindi a gridare con me: Viva Segno italiano, viva l’Italia!
Con un triplice caloroso e generale evviva all’Italia, cui seguiva un evviva all’on. Conci, si chiuse la solenne manifestazione.

Squadracce fasciste a Segno

Così la «comare vècla» di Segno raccontava con grande emozione la terribile storia dell’occupazione del paese da parte di una squadra della «Disperata» di Bologna nel luglio del 1923.
Questa testimonianza, raccolta dal professor Iginio Conci, conferma, tra il serio e il faceto, la reputazione negativa che s’era procurata il paese di Segno, di comunità antifascista in contrapposizione a Taio paese notoriamente seguace del movimento mussoliniano.

Storia vera, come la “comare vècla” da Ségn la gé l’à contada a me mare.


I dis che Segn l’è ‘n paés de revèrsi, ma nó l’è vera.
En paés de laurentóni vè l’è, che gé plas sparagnar, ma ciativi propi nó i è. La domàn da le càter i è zà ‘n pè e cando chéi dei àutri paesòti ìo ‘ntórn i sé desdroménza e i scoménzia a levar, chéi da Segn i è zà nadi con le vacie a menar o a tòr vergót. Fòr per el dì po’, i è sèmper ‘n ciampagna e se i sènt parlar fòrt, clamarse e urlar: “Spességia! Dage dré! Dòrmest? Ma la sera i è straci e nó i g’à segur né tèmp né vòia de nar entorn a far gazèri. Ma sì, l’è bèn vera, che gé n’è arcanti che tègn ancor per l’Austria e gé n’è sta de chéi che nó à volèst nancia cambiar le corone, perché i diseva che le saròss nude a valer de pù de le lire taliane. Ma g’èra ancia chéi che li grignava fòr. E po’ tute che bègie coi fassisti da Tai, i carabinieri petadi ‘n la fontana e le szopetade ‘n chél quadro, che nó sai de cì, che i sentiva sigolar le balòte fin via a Nan. Ma l’era sèmper che càter lòferi, boni da ‘ngót e senza vòia de laorar, che neva ‘ntórn a far che ròbe ìo! E po’ ‘l caporión, nó l’era nancia da Segn! Se sa bén, caròta, che a forza de zinzegiar i fassisti da Tai, g’èra da spetarsela che saròss suzzèss vergót de brut. Di fato, na domengia de lùi, me par, dopo disnàr è arivà ‘n autocaro plen de fassisti. I géva le brage da militare coi giambài, la ciamìsa negra, zenturón ‘ntorn a la panza e de traversón con tacià granate e pistole. I géva tuti ‘n szavèl ‘n man che i gé diseva ‘l mangianèl. Gè n’era dént arcanti de bruti e séci, che ‘l pareva zudéri che g’è su a san Romédi ‘ntorn al Cristo. I géva na banderòta negra a pónta con su la mòrt con i òssi ‘ncrosadi e con su scrìt “Me ne frego”, e da l’àutra la Disperata di Bologna. I è arivadi ciantànt. Ma nó l’era na cianzón alegra. G’éra dént pugnali, bombe a man e mazerén. Aì, aì caròta, èren tuti spaventadi, perché era nà fòr la zàcola che i era nudi a brusarne le ciase e a coparne tutti, perché sen en paes ciatìu de sovversivi rossi, che mì nó sai nancia chél che l’è. Tuti i è córsi a scònderse ‘n le cianve fonde, su per le stradùge, ‘ntéi stabli del fén, dré ai mucli de farlèt o ai barci le legna. I fassisti i è sautàdi zó da l’auto. I à vardà ‘ntorna ‘n bel pezzòt e po’ i à scomenzà a clamar fòra e a domandar ‘ndo che la è la zènt. Che i vègnia fòra, se i g’à coràzo, chéi galliòfi che và ‘ntorna a far desórden e a sbarotar. Ma i à ancia dit che a la “gente per bene” nó i gé faròss ‘ngót! A ‘n zèrto punto s’è riszà a nir fòra trei o càter vècli, e i g’à dit ai fassisti: “Ma vardà che noi sen pòri contadini, zènt pazzifica che laóra da le stéle a le stéle (e chésto l’èra bèn pù che vera). Nó én mai fat mal a ‘nzun e nó gén tèmp noi de nar ‘ntórna a far desórden! Voròssen demò che i né lagias ‘n paze. E i à seità a parlar, ‘n bòt l’un e ‘n bòt l’àuter. Enbòt i “desperati” ‘n bòt i vècli, per ‘n bèl pèz. Po’ se à sentù parlar de “riconciliazione” de “pacificazione” che nó mé recòrdi bèn. Entant à scomenzà a nir fòr àutra zènt, ma i pù tanti nó i s’è fidadi a farse véder e i è restadi dré i scuri de le finestre a vardar fòr. El fato sta, caròta, che a la fin én cognèst portàrge fòra ‘n piazza arcanti ciazzedrèi di vin bòn, che a béverlo è nù ancia i fassisti da Tai! Ah ciazzedrèi vè, i se n’à beù! A ben beù ancia chéi da Segn, però. Ma i era i mén. Aì aì, caròta se nó ‘l mé preméva chél vin! Védersel béver da chéi ìo! Ma, caròta, l’è bèn sta mèio ‘nzì. Perché, morìr ‘l saròss sta ‘ngót. Ma morìr per man de chéi ìo, nó se neva nancia ‘n paradìs!


Storia vera, come la “comare vècla” [vecchia comare] di Segno l’ha raccontata a mia madre.

Dicono che Segno sia un paese di scontrosi, ma non è vero.
È un paese di grandi lavoratori invece, ai quali piace risparmiare, ma cattivi proprio non lo sono. La mattina alle quattro sono già in piedi e quando quelli degli altri paesini nei dintorni si svegliano e cominciano ad alzarsi, quelli di Segno sono già andati con le mucche a portare o a prendere qualcosa. Durante il giorno poi, stanno sempre in campagna e si sentono parlare forte, chiamarsi e urlare: Fai presto! Spicciati! Dormi? Ma la sera sono stanchi e non hanno di sicuro né tempo, né voglia di andar a far chiasso. Ma sì, è ben vero che ce ne sono alcuni che tengono ancora per l’Austria, e ce ne sono stati di quelli che non hanno vuluto cambiare le corone, perché dicevano che avrebbero avuto più valore delle lire italiane. Ma c’erano anche quelli che li deridevano. E poi tutte quelle liti con i fascisti di Taio, i carabinieri gettati nella fontana e le fucilate in quel quadro, che non so di chi, che si sentivano fischiare le pallottole fin via a Nanno. Ma erano sempre quei quattro perdigiorno, buoni a nulla, senza voglia di lavorare, che andavano in giro a fare quelle cose! E poi il caporione non era neanche di Segno! Si sa bene, cara, che a forza di stuzzicare i fascisti di Taio, c’era da aspettarsi che sarebbe successo qualcosa di brutto. Infatti, una domenica di luglio, mi pare, dopo pranzo è arrivato un autocarro pieno di fascisti. Avevano le braghe da militare con i gambali, la camicia nera, cinturone intorno alla vita e di traverso con attaccate granate e pistole. Avevano tutti uno szavèl in mano che chiamavano manganello. Ce n’erano dentro parecchi di brutti e secchi, che sembravano i giudei che sono a san Romedio intorno al Cristo. Avevano una bandieretta nera a punta con su la morte con le ossa incrociate e con su scritto “Me ne frego” e dall’altra la Disperata di Bologna. Sono arrivati cantando. Ma non era una canzone allegra. C’era dentro pugnali, bombe a mano e uccideremo. Sì, sì cara, eravamo tutti spaventati perché era girata voce che eran venuti a bruciare le case e a ucciderci tutti, perché siamo un paese cattivo di sovversivi rossi, che io non so neanche che cosa sia. Tutti sono corsi a nascondersi nelle cantine più profonde, su nelle soffitte, nei fienili, dietro ai mucchi di lettiera o alle cataste di legna. I fascisti sono saltati giù dall’auto. Hanno guardatao in giro per un bel po’ e poi hanno cominciato a chiamare e a domandare dove era la gente. Che vengano fuori se hanno coraggio, quei gaglioffi che vanno in giro a far disordine e a sparacchiare. Ma hanno anche detto che alla gente per bene non avrebbero fatto niente! A un certo punto tre o quattro anziani si sono arrischiati ad uscire e hanno detto ai fascisti: “Guardate che noi siamo poveri contadini, gente pacifica che lavora dalle stelle alle stelle (e questo era ben vero!). Non abbiamo mai fatto del male a nessuno e non abbiamo tempo di andare in giro a combinare disordini! Vorremmo solo che ci lasciassero in pace”. E hanno seguitato a parlare, una volta l’uno e una volta l’altro. Una volta i disperati, una volta i vecchi per un bel pezzo. Poi s’è sentito parlare di riconciliazione, di pacificazione che non mi ricordo bene. Intanto cominciò ad uscire altra gente, ma i più non si sono fidati a farsi vedere e sono rimasti dietro agli scuri delle finestre a guardare fuori. Il fatto è, cara, che alla fine abbiam dovuto portar fuori in piazza parecchi secchi di vino buono, che a berlo son venuti anche i fascisti di Taio! Ah quanti secchi si son bevuti! Però han bevuto anche quelli di Segno. Ma erano i meno. Sì sì, cara, se mi premeva quel vino! Vederselo bere da quelli lì! Ma, cara, è stato meglio così. Perché morire sarebbe stato niente. Ma morire per mano di quelli lì, non si andava nemmeno in paradiso!

Prove d'italianità - Il fascismo prende piede nella Pieve

Una testimonianza dell'avvento del fascismo, la cui cronaca è apparsa su «Il nuovo Trentino» si tenne a Mollaro. È interessante notare come passi sempre dalla scuola la retorica dell’italianità; era infatti molto importante formare le giovani menti, in quanto futuri patrioti italiani.


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Il nuovo Trentino - 16 dicembre 1920
UNA FESTA

Per la terza volta il paesetto di Mollaro festeggia la sua libertà; ma questa di oggi ebbe forse fra tutte le manifestazioni il carattere più simpatico e gentile. Fu il saluto dei bimbi di Mollaro e Tuenetto al tricolore innalzato nella loro classe, il saluto a tutti i piccoli fratelli d’Italia. La sala era addobbata con bandiere e in mezzo ai tre bei colori spiccavano i ritratti dei Sovrani. Ed era bello vedere su quei visetti raggianti di gioia, su quelle bandierine sventolanti, irrompere il sole con la sua calda luce dalle finestre, ad illuminare quella festa di vita rinascente. L’entrata del colonnello Raso cav. Alfredo fu salutata con l’«Inno al Trentino»; poi la signora maestra Parteli esortò i suoi scolaretti all’amor patrio; e dopo recitate dai piccini alcune poesie inneggianti all’Italia, di cui essi si sentono una piccola parte, si alzò lieto e festoso il canto dell’«Inno a Mollaro».
Con affettuose parole adattate alle piccole intelligenze degli uditori il signor curato Don Bond, raccomandò l’amor di Dio, l’amore al buono che è il fondamento dell’amor patrio e il maggiore Bertone Cav. Carlo ringraziò a nome di tutti i bimbi per la gradita emozione fattagli provare ed invitò gentilmente la sig. maestra e le autorità ad una bicchierata. Il Natale porterà forse a voi, bravi bimbi di Mollaro, qualche dolce per compensarvi dei vostri buoni sentimenti: ma voi sopra tutto pregherete Gesù bambino che vi faccia crescere davvero buoni e saggi cittadini della grande patria.


Una dimostrazione del mutato clima politico, si legge ancora nella seguente cronaca anch’essa apparsa su «Il nuovo Trentino» del 18 marzo 1924. Ancora a Mollaro un festa d'italianità: è interessante notare come la retorica si sia più manifestamente conformata al nuovo regime fascista nato soltanto un anno e mezzo prima (28 ottobre 1922); martoriata città del Carnaro, Fiume, istruzione premilitare, saluti romani tutti i miti del regime e un'oratoria rivolta principalmente ai giovani scolari.




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Il nuovo Trentino - 18 marzo 1924
A MOLLARO

18 marzo 1924. – Anche in questa occasione il paesello di Mollaro non vuole essere inferiore agli altri. E per dimostrare il suo giubilo per la annessione all’Italia della martoriata città del Carnaro, raccolse tutta la sua popolazione nella bella piazzetta di S. Marco a prendere parte ad una simpatica manifestazione pro Fiume. L’instancabile maestro dirigente sig. Penasa presenziava con tutti gli scolari ai quali fece fare alcuni esercizi ginnastici, e il sig. Alessandrino si fece molto onore colla sua squadra di giovanotti ai quali impartisce con buon successo l’istruzione premilitare e di cui ce ne ha dato un bel saggio. Notiamo fa i presenti la famiglia del senatore Dott. Enrico Conci, l’ing. della miniera S. Romedio sig. E. Lanzingher e sorella, il Sindaco col segretario e alcuni consiglieri del comune, il Dott. Candido Melchiori di Tuenetto, il curato e alcuni consiglieri di Dardine e altri ancora.
Il Dott. Enrico Conci indirizzò agli scolari un ben indovinato discorso per l’occasione, facendo la storia di Fiume dall’armistizio all’annessione, incitandoli con fare paterno a diventare buoni cittadini e ad amar l’Italia. La fine del suo dire venne salutata con fragorosi battimani e applausi dopo aver gridato Evviva Fiume. Evviva l’Italia da lui proposto. Il maestro dirigente fece indi sfilare tutti gli scolari davanti al tricolore, omaggiandolo entusiasti col saluto romano. Dopo alcuni esercizi successivi degli scolari e dei premilitari, e dopo alcuni evviva a Fiume italiana la cerimonia venne sospesa per riprendere alla sera con più ardore. Infatti verso le ore 20 tutto il popolo si trovò di nuovo radunato davanti all’edificio scolastico tutto fantasticamente illuminato in mezzo al quale spiccava una grande stella tricolore. Gli scolari intonarono l’Inno di Mameli e subito a loro si unirono tutti i presenti per cui le note sonore dell’inno nazionale fecero eco per tutto il paese di solito così tranquillo. Vennero pure cantate fra l’entusiasmo generale tutte le canzoni patriottiche e fra applausi ed evviva clamorosi ebbe termine la graziosa e patriottica festicciola.
Ben notato l’ornamento dell’ufficio postale, per opera della zelante maestra sig.a Bice Casagrande, nonché l’imbandieramento del Municipio per parte del sig. Sindaco, e della casa dell’ing. Lanzingher. Vada pure una lode al corpo pompieri a cui venne affidato il servizio dell’ordine.

Un presente.