I morósi

Nota del traduttore
La resa in noneso de «I promessi sposi» di Alessandro Manzoniconsiderata la più importante e più letta tra le opere scritte in lingua italiana, è - diciamo subito - un esercizio velleitario, ma la passione per il dialetto vince su tutto, anche a costo di commettere errori o di cadere in ingenue interpretazioni dell'alta lingua del grande scrittore. Presentiamo qui, per il momento, solo alcuni capitoli, ma c'è la volontà di aggiungerne altri.
Guida principale il classico Vocabolario Anaunico Solandro (VAS) di Enrico Quaresima (Istituto per la collaborazione culturale Venezia Roma, 1964) modello obbligatorio a cui riferirsi per le cose nònese, al quale ci si è attenuti nelle regole in esso contenute salvo in pochi casi segnalati.
Del frutto non c’è piena soddisfazione, ma se ci saranno suggerimenti, correzioni o altre osservazioni da parte di chiunque ben volentieri con tanto piacere, saranno ben accolti.


Capitolo I

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, nè il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, nè a questo luogo nè altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi.

Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.

Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive:
Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1589, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.

Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite. Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perchè la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.

Nè fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia.

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perchè, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorchè i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perchè i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. “Signor curato,” disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.

“Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
“Lei ha intenzione,” proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, “lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!”
“Cioè...” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.”

“Or bene,” gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.”
“Ma, signori miei,” replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, “ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...”
“Orsù,” interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende.”
“Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...”
“Ma,” interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, “ma il matrimonio non si farà, o...” e qui una buona bestemmia, “o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...” un’altra bestemmia.
“Zitto, zitto,” riprese il primo oratore: “il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.”

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: “se mi sapessero suggerire...”
“Oh! suggerire a lei che sa di latino!” interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. “A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?”
“Il mio rispetto...”
“Si spieghi meglio!”
“... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza.” E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
“Benissimo, e buona notte, messere,” disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. “Signori...” cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere.

Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz’altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l’interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.

L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.

Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.

Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perchè la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri.

Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. — Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata... — Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, nè aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: “Perpetua! Perpetua!,” avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.

“Vengo,” rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.

“Misericordia! cos’ha, signor padrone?”
“Niente, niente,” rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
“Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.”
“Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.”
“Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...”
“Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.”
“E lei mi vorrà sostenere che non ha niente!” disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
“Date qui, date qui,” disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
“Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone?” disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
“Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!”
“La vita!”
“La vita.”
“Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...”
“Brava! come quando...”
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, “signor padrone,” disse, con voce commossa e da commovere, “io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo...”
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: “per amor del cielo!”
“Delle sue!” esclamò Perpetua. “Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!”
“Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?”
“Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?”
“Oh vedete,” disse don Abbondio, con voce stizzosa: “vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.”
“Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...”
“Ma poi, sentiamo.”
“Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...”
“Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?”
“Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...”
“Volete tacere?”
“Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...”
“Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?”
“Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.”
“Ci penserò io,” rispose, brontolando, don Abbondio: “sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare.” E s’alzò, continuando: "non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.”
“Mandi almen giù quest’altro gocciolo,” disse Perpetua, mescendo. “Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.”
“Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro.”
Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: “una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà?” e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: “per amor del cielo!” e disparve.



Chel ram del lac’ de Como, che varda a mèzdì, anserà tra doi corone de monti tute taciade, a panze e a gòbe, conforma se i sporzéva o se i tirava ‘ndré, scasi de cólp el se strénz ‘nzì tant che l’empar en fiume tra ‘n spontón da na banda e na gran costéra da l’àutra; e ‘ndo che ‘l pònt el tàcia le doi sponde, a òcel empar pròpri che ìo el lac’ el rùia, e che l’Adda el scoménzia de nòu, per po’ dopo tornar a èsser lac’ endo che le rive le torna a slontanàrse, e l’aca la vèn a calmarse ente nòve panze e gòbe. La costéra fata dal depòsit de tréi grossi ridi, la vèn zó postàda a doi monti vizìni, che un el se clama de San Martìn, l’àuter, en dialet milanés, el Resegone, per via dei só cocùzzoi en fila che i lo fa ‘nsomiar a ‘n segón: siché ancia un che lo vedés per el prim bòt, per esempi dai muri de Milan, i lo toròs fòra sùbit en mèz a tuta ca gran corona dei àutri monti ìo ‘ntorna che g’à nomi che nó se cognós e na forma pù normale. Per en bòn tràt la còsta la va su valìva e seguente; po’ la se rùa en dòsseti e valéte, en órbeti e planéti, che ge va drè a le fatéze dei doi monti e al laoro de l’aca. La part pù bassa, endo che i ridi i se trà ‘ntel lac’, l’è scasi tut glara e sassi; tut el rest l’è ciampi, vignalòti, ville e masi sparpaiadi; na pàrt l’è bos-ci che va su per la montagna. Lecco l’è la borgada pù gròssa e la ge dà ‘l nòm a sto teritòri e la pòsta poc’ lontan dal pònt e da la riva del lac’, anzi calche bòta zèrte ciase, cando che g’è gran ploviàzi, le va ‘n l’aca: al dì d’ancòi l’è ’n gran paesón, che plan plan deventerà zità. Ai tempi che è suzèst i fati che sén dré a contàrve, ca borgada, che l’èra zà grosséta, la géva ancia ‘n ciastél, sichè la géva l’onór de aver en comandante, e ‘l vantàzi de aver na casèrma de soldadi spagnòi, che i ansegnava l’onór a le putèle e a le feumne del paés, e che ogni tant i onzéva le spale de calche òm o de calche pare; e sul finìr de l’istà nó i se tirava ‘ndré a sparpaiàrse per i vignài a slizerìr le vide da l’ùa, per tòrge via le fadìge de la vendéma ai contadini. Da un a l’àuter de chei paesi, dai monti e zo e zo enfìn a la riva, da ‘n dòs a l’àuter, passava, e passa ancora, strade e stradèle pù o men erte o plane; ogni tant le era sfondade ‘ntrà dói muri, da ‘ndo che se auzzàves i òcli, nó s’vedeva àuter che ‘n tocét de ziél e calche zima de mont; ogni tant envéze le era levade sóra tera: e da cacì se g’à na vista e panorami pù o men grandi ma sèmper diferènti e sèmper con vergot de nòu da véder, conforma da ‘ndo che se varda el panorama el seghita a cambiar, prima ‘l se sgrandìs po' ‘l se spizolìs. Se vét cacì ‘n tòc’ e ìo n’àuter; de là la distesa lòngia del lac’, de cà ‘n lagét serà fòr enzìma o putòst perdù ‘ntrà le montagne e man a man pù slargià tra àutri monti che se fa véder un a un e che i se spègla ‘n l’aca rebaltàdi, coi paesòti pozàdi su le rive; da chesta ‘n braz de fiume, po' lac’, po' ancora fiume che va a pèrderse a bissabòa tra i monti che i lo compagna enfìn che tut se pèrt al confìn tra ‘l ziél e la tèra. El pòsto stes da ‘ndo che ve godéo tuti chei panorami spetacolari, da ogni banda che ‘l vàrdes l’è spetacolós: el mont endo che spassezào su le so falde, el fa véder tut entórna le só zime e i so buroni, che ‘mpar che i cambia a ogni pas ‘ndo che prima ‘mparéva che ‘l fus sol en mont, adès se vét arcante zime, chel che prima vedéves su la costa adès se ‘l vét su la zima: ensoma, el bèl e ‘l sclèt de che còste l’andolzìva chei sgrèbeni grézi e ‘l mossàva ancor pù bèl el rèst de chei panorami..











Per una de che stradèle, su l’imbrunìr del 7 de novèmber del 1628, nidéva de vòuta pazìfico da la só spassezada don Abondio, che l’era curàt de un de chei paesòti che diséven prima: su le ciarte che gén en man, nó se trova scrìt el nòm de sto paes, e nancia da che ciasa che ‘l nideva sto personagio. Chièt el diséva su le só orazión e ogni tant, tra ‘n salmo e l’àuter, el seràva ‘l breviari, e per tègner el ségn el metéva dént en dé de la man drìta e chesta dént en l’àutra dré a la s-cena e pò ‘l seghitava la só ciapinada vardando per tèra e se g’èra ‘n sassòt che ‘ntopava en mèz al sintér con na peadòta i lo petàva vèrs el murét: po’ ‘l levava su ‘l vis, e pèrs entei só pensieri, el vardava drìt la part de ‘n mont endo che la luze del sol che l’era zà nà zó, la filtrava fòr da le sfessidure del mont da l’àutra banda, la ‘nluminava cì e ìo i cròzzéti che piciava fòr come fus pèzze descompagnade de porpora. Davèrt de nòu el breviari e dita su ancór n’àutra orazión, l’è arivà ‘nfìn a la vòuta che fa ca stradèla, endo che de sòlit l’èra usà a levar su i òcli dal lìber, e vardàr inanzi: e ancia ‘nchel dì l’à fat pròpri ‘nzì. Dopo la svoutada, per en tòc’ la strada la neva dritta forsi per na sessantina de passi, e po’ la se ardoplàva a ipsilon ente àutri doi sintèròti: chela a l’andrìta la néva su per el mónt e l’arivava a la cialòngia: l’àutra la portava zó per la val enfìn a ‘n rì; e da ca banda el murét l’era àut na giamba. I muri de ént de che dói stradèle, envéze che taciàrse a àngol, i ruàva con en ciapitèl empiturà con zèrte spenelàde lònge a bissabòa che le finìva a pónta, e che ente l’intenzión de l’artista e de chél che vedéva la zènt del pòsto, l’era flame; e po’ ‘ntrà mèz a ste flame g’èra àutre fegure che nó se pòl descrìver, ma che voleva dir le ànime del purgatòri: anime e flame le era de ‘n color matón su ‘nte na man de grisòt, che cì e ìo ‘l se desgrostàva. El curàt svoutàda la stradèla, come ‘l sòlit, l’à vardà vèrs el ciapitèl, e l’à vìst na ròba che nó ‘l se spetàva, e che nó l’avròs volèst véder. Dói òumni, un dinànzi a l’àuter pròpri ‘ndo che i dói sintéri i se separava: un de sti dói l’èra sentà zó a ciavalòt sul murét pù bas, con na giamba a spindorlón en fòra e con l’àuter pè postà per tèra su la strada; el só sòzi l’èra ‘n pè, pozà al mur, con i brazzi encrosadi sul stómec’. L’àbit, el portamént, e chél che ‘l podeva aver vist el curàt da ‘ndo che l’era arivà, da chel che se podeva véder, nó g’èra dùbi de cì che podéva èsser. Tuti dói i géva su la testa na redesèla vérda che crodàva zó su la spala ‘nzància e che la ruàva ente na gran mazòcola, e da chésta piciàva fòr en gran zuf e i geva dói mostaci ‘nrizolàdi a pónta: su 'nla' zintùra lùstra de coràm g'era tacià su dói pistòle: al còl i geva ‘n cozzarét plén de pólver come fus na colàna: da na s-ciarselòta de le bragóne piciàva fòr el mànec’ de ‘n cortelàz, e na gran spadóna col mànec’ traforà a làmine de otón a fórma de stèma, de gran gusto néte e lustre: a véderli ‘nzì emparéva pròpri dói de chéi de ca risma dei bravi.





De sta zentàia adès nó g’é pù ‘nzun, ma alór en Lombardìa gé n’èra en mùcel, e da tanti ani ‘ndré. Cì che nó giavés idèa de cì che l’èra sta razza, ve dìgi arcànte robéte su de lóri che doròs èsser assà per ciapìr, e de cant che l’è sta difìzil destirparli e cant che i è stadi duri a morìr.

Enfìn da l’òt de aurìl del 1583, el Lustrìssim e Zelentìssim Siór don Carlo d’Aragon, Prìnzipe de Castelvetrano, Duca de Terranova, Marchés d’Avola, Conte de Burgeto, Grant’Amiràlio, e Grant Contestabile de Sizìlia, Goernatór de Milan e Gran Zeneràl de Sua Maestà Cattolica en Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tuti chésti l’ordina, tèmp sei dì, de nàrsen fòr da l’Italia e per cì che nó ubidìs gé sarà la galèra, tuti i ufiziài de zustìzia i podrà dopràr ogni mòdo per eseguìr el pefèl. Ma l’an dré, el 12 de aurìl, vedendo ‘l deto Siór, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, el mét fòr n’àutra corènda ancór pù giaiàrda e rigorósa endo che, trà l’àuter, géra su scrìt:



Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tut chésto, e ‘l de pù che nó se dis, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
A sentìr le parole de ‘n gran sior, enzì giaiàrde e che nó se podeva nancia discùter e per de pù compagnade da chei pefèi, se averòs pensà che senz’àuter, sol a sentìrle sussurar, tuti i róbleri i sia sparìdi per sèmper. Però a star a chél che à ordenà n’àutra de che siorìe, grant’òm, compàgn del prìm, con tuti i só tìtoi ancia chél, vèn da pensar tut el contràri. E chesto cì l’era ‘l Lustrìssim e Zelentìssim Siór Juan Fernandez de Velasco, Contestabile de Castiglia. Cameriér magiór del Re, Duca de la zità de Frias, Conte de Haro e Castelnovo, Capo de la ciasa de Velasco e de chéla dei sèt Infanti de Lara, Goernatór del Stato de Milan, ezzètera. El 5 de zùgn del 1593, essendo sta avisà ancia el di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, l’à ‘ntimà de nòu ancia el che, tèmp sei dì, i giàbia da nàrsen ripetèndo talecàl i ordini e i castìghi de chél da prima. Pò dopo, passà calche an, el 23 de magio del 1589 informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (róbleri e reménghi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro,... l’ordina i stessi remèdi, aumentando la dòse de le pene come se fa per na malatìa che stènta a varìr. Po' ‘l g’à tacià: Ognuno dunque, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.



Però nó l’èra de la stessa idea el Lustrìssim e Zelentìssim Siór, el Siór Don Péro Enriquez de Acevedo Conte de Fuentes, Capitano, e Goernatór del Stato de Milan; nó l’era de sta idea e ‘l géva le só bòne resón. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, el 5 de dizèmber del 1600, ‘l fa na léze nòva pléna ancia chésta de péne severissime, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite. L’è da créder però che per destirpar i róbleri nó ‘l gé metéva tuta ca bòna volontà che ‘l gé metéva ‘ntel brigiàr contrà ‘l só pù grant nemìzi che l’èra Enrico IV re de Franza; sicome, come che dis la storia, l’è sta bòn de armar contra sto re el Duca de Savoia, fasèndoge pèrder pù de na zità; e po’ come che l’è sta bòn a convìnzer el Duca de Biron, che po’ a la fìn i g’à taià via la testa; però na ròba l’è segùra, cant ai róbleri, enzì perniziosi, i seghitàva a èsserge pù vivi che mai el 22 de setèmber del 1612. En chel dì el Lustrìssim e Zelentìssim Siór, el Siór Don Zoàn de Mendozza, Marchés de la Hynojosa, Grandòm ezzètera, Goernatór ezzètera, l’à pensà de destirparli na bòta per tute. Per sto scòpo l’à mandà al Pandolfo e al Marco Tullio Malatesti, che i geva la stamparìa de stato, la sòlita léze, corezùda e ancór pù rigorósa, perché i la stampàs en modo da sterminar i róbleri. Ma chéi buli i g’èra ancór el 24 de dizèmber del 1618 cando che i à zapà la stessa stangiàda dal Lustrìssim e Zellentìssim Siór, el Siór Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca de Feria, ezzètera, Goernatór ezzètera. Ma sicome chéi galiòti nó i era sparìdi nancia con chéla, el Lustrissìm e Zellentìssim Siór, el Siór Gonzalo Fernandez de Cordova, che ‘l comandava al tèmp de ca spassezàda de don Abondio, l’eva cognèst corézer e far publiciar de nòu la medesima léze contra i róbleri el 5 de otóber del 1627, val a dir n’àn, en més e dói dì prima de chél fato straordenari.



Ma nancia chésta l’èra sta l’ultima publiciazión; ma noi de chéle che è nù dopo, nó disén engóta, perché nó le né ‘nterèssa per la nòssa storia. Vé contàn demò de una del 13 de feuràr de l’àn 1632, e ‘nte chésta el Lustrìssim e Zellentìssim Siór, el Duque de Feria, per el secónt bòt goernatór, el né fa savér che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. E chèsto l’è assà per èsser segùri che al témp che sén dré a contàrve, de róbleri gé n’èra ancia massa.


Che chéi dói galiòti i fus ìo a spetàr calchedun, l’era seguriènto; ma chél che g’à desplasèst de pù a don Abondio l’è sta cando che l’à cognèst nascòrzerse che chel che i aspetàva l’era pròpri el. Difati, cando che ì l’à vist arivar, i s’èra vardadi ‘n fazza e i eva auzzà la testa con en mòto che ‘mpareva pròpri che i se fus diti: l’è el; chel che era a ciaval del murét, l’éva tirà su la giamba ‘nla strada; l’àuter el s’èra destacià dal mur; e tuti dói i g’è nadi ‘ncontra. Don Abondio tegnèndose sèmper davanti ‘l breviari davèrt, come se ‘l lezés, ‘ntant el doclava per véder che ‘ntenzión che i géva, e vedendo che i gé nidéva ‘ncontra, g’è nù tut de cólp en mùcel de pensieri. Sùbit per sùbit g’è nù ‘n mént de vardar se ‘ntrà mèz a el e ai galiòti gé fus, da na man o da l’àutra na stradèla da poder schivarli, ma l’à ciapì sùbit che nó la g’èra. L’à pensà ‘nprèssa se per caso l’avés podèst fàrge ‘n tòrt a calche siór o a calche spòtico; ma ancia chésto en cossiènza nó gé paréva pròpri: i róbleri ‘ntant i nidéva inanzi e i lo vardava fis. L’à metù dói dédi de la ‘nzancia entel colarìn come se ‘l volés comodàrlo; sèmper pù azità el storzéva la bócia e con la cóa de l’òcel el se voutava ‘ndré per véder, enfìn endo che ‘l podéva, se arivàva calchedun, ma nó l’à vist ‘nzun. L’à dat n’oclada sora ‘l murét, entei ciampi: enzuni; n’àutra oclada dinanzi, ma fòr che i róbleri, nó arivava anima viva. Che far po’? tornar endré l’èra tardi: s-ciampar l’èra come dir coréme dré, o ancia pézi. Schivar el perìcol ormai nó ‘l podéva pù, e alor l’à pessegià a nàrge ‘ncontra perché ‘nchéi momenti ìo l’era mèio scurtar el pù possìbol chel tormént. L’à slongià ‘l pas, l’à rezità ‘n versét con la ós pù àuta, l’à vardà de far la fazza pù chièta e contènta che ‘l podéva, po’ ‘l s’è sforzà de grignar; cando che ‘l s’è giatà dinanzi a chéi dói gialantòmni, l’à dit entrà de el: gé sén; e ‘l s’è fermà fermo su drìt. Un de chei doi el dis: “Siór curàt,” fissàndoge i òcli adòs.






“Comandi?” g’à respondù sùbit don Abondio, entant che l’èva auzzà i òcli dal lìber che ‘l geva spalancà ‘n man come se ‘l fus su ‘nte ‘n legìo.
L’àuter de chei doi el g’à ‘ntimà: “Ma él giàl intenzión… giàl intenzión de maridàr domàn el Renzo Tramaglino e la Lùzia Mondella?” con en far da zèlbero, come cando che sé vòl scomenziar via na bègia.
“Ma vedé…” l’à respondù, con na osata tremolènta, don Abondio: “vedé. Voiàutri che séo oumni de mondo, e ‘l séo benìssim come che le và ste ròbe. El pòr curàt nó ‘l conta ‘ngot: i fa i só misteròti tra de lóri, e po’… e po’, i vèn da noi, come se naròs a la cassa a scudìr; e noi… noi sén i sèrvi del comun.”

“Benón,” g’à dit chel galiòto, ente na récla, col tòno de comando, “sto matrimòni nó se g’à da farlo, né doman, né mai.”
“Ma, sentìme sióri,” l’à tornà a dir don Abondio, con na os chièta e educada come cando che se vòl convìnzer en testón, “ma sentìme cì, provà a méterve entei me pani. Se ‘l dipendés da mì… vedéo ben che a mì nó mé vèn engot en s-ciarsèla…”

“Dai, dai,” dis el róbler, “se sta ròba la giaves da dizìderse a zàcole, tì né meteròstus entel sac’. Noi nó sén engot, nó volén savér de pù. Òm avisà… l’à ben ciapì.”

“Ma scoutàme sióri, voi séo gialantòumni, massa zudiziósi…”
A sto punto s’è ‘ntrometù l’àuter slàizer che ‘nfin adès nó l’eva mai parlà: “Ma ‘l matrimòni nó ‘l nirà fat, o…” e cacì, zó na siràca, “o cì che lo farà, ‘l se pentirà, perché nó ‘l g’arà 'l tèmp, e…” e zó n’àutra blestéma.
“Tasi, tasi,” g’à tacià ancór l’àuter: “el siór curàt l’è n’òm che sa ‘l vìver del mondo; e noi sén gialantòumni, che nó volén fàrge del mal, basta che ‘l fàgîa zudìzi. Siór curàt, el Lustrissìm siór don Rodrigo, nòs padrón, i la riverìs con tant riguardo.”


Sto nòm, enla testa de don Abondio, l’è sta come ‘n làmp de nòt entel cólem de ‘n gran temporalàz, che per n’atimo ‘l fa lum su tute le ròbe e ‘l fa crésser el pipacul. Come per istìnto la fat en grant inchìno e l’à dit: “poròsseo darme ‘n consìli…”

“Oh valà! consiliàrge a el che ‘l sa ‘l latìn!” l’à dit un de chei dói róbleri, con na risàda tra ‘l vilan e ‘l ciatìo. “Ge tócia a el. E sóra a tut, el vàrdia de nó dir engot a ‘nzuni de sto avìso che gén dat per el só bèn; perché se no… ehm… el saròs lostes come se ‘l fés chél matrimòni. Dai, dai el né dìgîa chel che ‘l vòl che ge disénte a só nòm al Lustrìssim Siór don Rodrigo?”
“I mé riguardi…”
“Ma, ‘l digîa vergot de pù!”
“… D’acòrdi… d’acòrdi sèmper pronto a ubidìr.” Entant che ‘l diséva ste parole, nó ‘l seva nancia el se l’era dré a ‘mprométer vergota o a far en complimént. I róbleri i l’à tòte o i féva véder de tòrle come na promessa.
“Benón, e bòna nòt, monsignor,” dis un de chéi dói entant che ‘l feva per nàrsen col só sòzi. Don Abondio, che pòci minuti prima l’avròs volèst schivàr chei dói briganti, adès l’avròs volèst star ìo ancor a tratar. “Sióri…” l’à scomenzià, seràndo ‘l breviari con tute dói le man; ma lori, senza dàrge pù òra, i à zapà la strada da ‘ndo che era nù el, e i s’è nè nadi ciantànt una de che cianzón da coscrìti che nó vòi nancia scrìver. El pòer don Abondio l’è restà ìo con la bócia davèrta con tanto de nas; pò l’à zapà una de che dói stradèle che portava a só ciasa, ciaminando a stento come se ‘l giavés na gran ciarcrevàda. Come che ‘l se la passàs enla zucia, se ‘l ciapirà mèio cando che averen contà vergot del so caràter, e dei tempi ‘ndo che g’èra tocià de vìver.



Don Abondio (e ogni lezidór el se l'avrà zà ‘nvista) nó l’èra zèrto en spirìt macabèo. Ma a scomenziàr da cando che l’era ancor zóven, l’eva ciapì sùbit che pézi de tut a chei tèmpi l’era èsser come na bestia senza óngle e senza zane, enten mondo ‘ndo che nó ‘l volès lagiàrse sbranar. Le lézi nó le protezéva pròpri mìgia l’òm pazìfico, che nó ge fa mal a ‘nzun, e che nó ‘l geva àutri mòdi per fàrge paura ai àutri. Ma no perché de lézi nó gé ‘n fus e nancia punizión contra le angiarie a la zènt. Anzi le lézi le èra ancia massa; tuti i deliti i era protocoladi, e ancia ben descriti con le parole pù fine; le pene le era spropositade e come se nó ‘l fus assà, chei che féva le lézi e cì che le metéva ‘n pratica i le podèva ancia aumentar scasi per ogni caso, come e cando che i voléva; i prozèssi i era studiadi a pòsta sol per solevar el zùdize da qualsiasi ròba che la ge fus da ‘mpedimént a proferìr na condàna: chéi pefèi contra i róbleri che disèven prima, i è na pròva pìzzola ma de segùr la pòl dar l’idea. Con tut chésto, anzi na gran pàrt pròpri per chésto, tuti chei pefèi publiciadi pù bòte, e rinforzade da ogni i goèrno nó le era bòne a àuter che a mossar el malinzègn de cì che l’eva scrite; o, se le géva calche efèto sùbit per sùbit, l’èra pù de tut chel de taciàrge tante àutre angiarìe a la pòra zènt che zà la patìva assà, e nó le féva àuter che aumetàr le persecuzión e l’astuzia dei spòtici. I privilézi i era ben regoladi, e i géva raìs enzì fonde che le lézi nó le tociàva mai, o a dirla tuta, nó le podéva tociàr. Sti previlèzi l’era le glésie e i convènti che i podéva dar protezión ai lazeróni, po’ g’era le privatìve de zèrte crìche da na banda toleràde a fadìgia da l’àutra critegiade con reclami inutili, ma sostegnùdi e difendùdi da le crìche che, ‘ndo che le piciava, l’era tut na magnarìa. Tuti sti previlèzi sèmper de sèito critegiàdi, ma mai scanzeladi da le lézi, i cognéva ogni bòt che i era a riszo, trovar la scusa per durar ancora. E ‘nfati suzzedéva sèmper enzì; e come nidéva fòr lézi contrà i spòtici, chesti i zerciava, con tuti i mèzi, àutri modi per seghitar a far chel che le lézi le proebìva. Ma tute che lézi le podéva ben ente ogni momént blocàrse e seciar chel bonòm onèst che nó l’era fòrt di per sé o che l’era senza protezión; ma con chéla de tègner sóta ogni òm, per far en modo che nó gé fus pù delìti e per punìrli, i sozetàva la pòra zènt al volér dei spòtici de ogni risma. G’era cì che prima de combinar en delìto, el se ‘ntanava per tèmp enten convènt o ‘nten palàz, endo che i sbìri nó i avròs mai fidà a méter pè; e cì che se metéva la divisa de na famìlia potènte che la g’èva l’interès a difènderlo, e chésto l’èra libero de combinarle tute, e ‘l podéva fregiàrsen de tut el fracas de chei pefèi. De chéi che era deputadi a far rispetar le lézi, zèrti i partegnìva da cando che i era nati a la part dei spòtici, àutri i dipendéva da chésti perché i era clienti; tuti per educazión, per interès, perché l’èra sèmper stada ‘nzì, per simiotàr, i stéva a che regole, e i stéva ben atènti a nó sgaràr per en tòc’ de ciarta che i taciàva fòr sui ciantóni de le ciase. I òumni po’ che géva da far rispetàr sùbit le lézi, ancia se tra chésti gé fus sta calchedun corazós come ‘n leon, ubidiènt come ‘n frate, pronto a sacrificàrse come ‘n martire, nó ‘l podéva mai arivar zó ‘nfont, perché i era ‘nzì pòci che perfìn cì che l’eva metudi ìo a pòsta a far rispetar le lézi i li arbandonava a se stessi. Ma oltre a chésto, sti cì de sòlit l’èra i pù slàizeri e ribèli del só tèmp; el dovér che i géva l’era disprezzà ancia da chéi che avròs podèst èsser terrorizà e ‘l nòm de sbiri che i geva l’era come n’ofésa. Enzì l’era bèla da véder che prima de riszar ente na chestión disperàda, i se saròs vendùdi al potènte e i avròs fat véder la só otorità sol cando che nó g’èra perìcol de dar fastìdi ai sióri, e sol cando che g’èra da méter sóta la pòra zènt pazifica e débola.








N’òm che vòl far del mal, o che ‘l g’à sèmper paura che calchedun gé fàgia del mal, nó ‘l pòl far a men de zerciàrse aleàti e sòzi compagni a él. Sichè a chéi tempi, tuti canti i vardàva de tègnerse ‘nsèma en compagnìe, e méternen ensèma de nòve, e tuti i se déva da far per aumentàr la potènza de la sóa. El clero l’èra atènto a mantègner e se possìbol aumentar le só esenzión, i nòbili i só privilèzi, el soldà le só dispènse. I botegéri, i artesani, i féva pàrt de sozietà e confratèrnite, i avocati i era tuti ‘nsema ente na léga, i mèdizi ente la só sozietà. Ognuna de ste crìche lé géva na forza privata e sóa; ente ognuna ‘l partéves el trovava ‘l vantàzi de dopràr per sé stes, conforma a cant che contava la só otorità e la só furbarìa, la forza de tuti i àutri. I pù onèsti i dopràva sti vantàzi sol per difènderse; i pù furbazzi e i lazeróni i profitàva per combinarnen de tuti i colori perché sol coi só mèzi nó i averòs podèst farla frància. La forza de ste crìche però nó l’era compàgna per tute; spezialmént enle val, se g’èra ‘n nòbile ric’ e spòtico, con entorna na remengiarìa de róbleri, e na popolazión de contadìni usadi per tradizión de famìlia, e ‘nteressàdi o sforzàdi a star sóta scasi come se i fus stadi servi del padrón, el géva na tal potènza che ‘l podéva far el bèl e ‘l brut tèmp e perfìn nó g’èra nancia n’àutra lega che podéss dàrge còntra.



El nòs Abondio nó l’èra ‘n nòbile, e nancia siór, corazós ancor de men, sichè ‘l s’èra acòrt sùbit, ancor prima de deventàr grant, de èsser ente chel mondo ìo come ‘n vas de teracòta obligià a viazàr en mèz a tanti vasi de fèr. Per chesto l’eva ubidì ai só parènti ancia volintéra ‘che i éva volèst che ‘l nés prèt. A dir la verità nó l’è che léva tegnù cónt dei òbligi e de l’onór che l’avròs bu a far el mistér del prèt: géva parést che procuràrse da vìver con calche comodità e méterse ente na sozietà riverìda e forta ‘l fus dói resón pù che bòne. Però na calunque compagnìa la protéz e la difènt na persona enfìn a ‘n zèrto punto: nó gé n’è nancia una che la gé proebìs de fàrse ‘n sistema sò. Don Abondio l’era un che bastava che i lo lagiàs entel só bró, e nó gé ‘nteressàva ‘ngot de chéi vantazi ìo, che per avérli gé voléva darse da far e ancia riszàr en pòc’. El só sistèma l’èra far de tut per nó aver da contradìr con enzun, e zéder cando che nó ‘l podéva far a men. Star sèmper tra l’us e l’as en tute le bègie che scomenziàs via entórn a el, da le lite, che alór le suzzedéva de spes, tra ‘l clèro e tute le àutre crìche, tra ‘l militàre e ‘l borghés, tra nòbili e nòbili, enfìn a le chestión tra dói contadìni, enviade via per na paròla maldita e po’ dezìse a pugni, o adritura a scortelàde. Se pròpri pròpri l’èra obligià a tòr la part tra dói litegianti, el stéva sèmper da la banda del pù fòrt, e sèmper dedré, per fàrge ciapìr a l’àuter che nó ‘l voròs èsser só nemìzi: ‘mparéva che ‘l gé disés: ma perché po’ nó ses sta bòn de èsser tì ‘l pù fòrt? che mì ve averòssi tegnù la pàrt. Ensoma, stando sèmper a la larga dai spòtici, fasèndo finta de nó véder le sòlite angiarìe e i ciaprìzzi de chésti, contracambiando a chele pù serie e spotiche con la pù gran sotomissión, a forza de far inchini e de portarge riguardo, ancia i pù burbari e malmostosi i era obligiadi a farge na bòna zera cando che i li ‘ncontrava ‘n piaza, el pòver’òm l’èra sta bòn de passar i sessant’ani senza gran boras-ce.




Nó l’è che nó ‘l giavés ancia él en pòc’ de fél entel còrp; chél portar passiènza sèmper, chél dàrge de spés resón ai àutri, chéi tanti bocóni amari mandàdi zó senza dir baf, i gé léva sgonflàda ‘nzì tant, che se ancia él ogni tant nó l’aves podèst sfogiàrse, saròs nà de mèz la só salute. Ma sicome, per fortuna per el, al mondo e ancia vizìn, g’èra persone che ‘l cognosséva benón, oumni e feumne che nó lé era bòne de far del mal a ‘nzun, eco con chésti calche bòt el podéva sfogiar el malumór che l’èva cognèst tratègner per en mùcel de tèmp, e tòrse ancia él la sodisfazión de èsser en pòc’ lunàstec’ e urlar ancia se ‘l gèva tòrt. L’era pronto a strapazzàr chéi che nó se comportava come él, però sol cando che la strapazzàda ‘l podéva fàrla senza ‘l minimo dan. Cì che era sta bastonà l’era perlomen en sventà, cì che èra sta mazzà l’era sta sèmper n’òm disonèst. Se g’éra calchedun che ‘l voléva sostègner le só resón contrà ‘n sioraz, e la ruàva con la testa róta, don Abondio l’era sèmper bòn de trovàrge calche tòrt; che peràuter nó l’era tant difìzil perché la resón e ‘l tòrt nó sé pòl taiarli zó drìti, perché tute le part lé g’à ‘l bòn e ‘l trìst. Ma sora tut el mormorava contra i só confratèi che, ancia con coràzo, i togéva la part de calche pover’òm, contra ‘n nòbile potènte. Chésto i lo clamava compràrsela en contànti, che l’era volér endrizzar le giambe ai ciagni, e po’ ‘l diséva ancia serio, che l’era mesdar le chestión del mondo a dan de chéle de la religión. Cando che ‘l prediciava contra i confratèi però l’era sèmper con n’àuter o al massimo con pocìssimi àutri, e con tanta pù furia se ‘l séva che nó g’era ‘nzun che se la togéva pù de tant. El géva po' na sentènza che gé plaséva pù de tute, e con chéla ‘l seràva sèmper i só discorsi su ste chestión: che a ‘n gialantòm, che ‘l se fa i só afari, e che ‘l sta su le sóe, nó pòl mai ciapitàrge de ‘ncontràr bruta zènt.



I pénsia adès i me vintizìnc’ lezidori, chel che l’era dré a passar chel pòr òm, con tut che en contà ‘nfin cì. El spavènt a véder che brute fazzade e a sentìr che parolàzze, chel che geva ‘ntimà chel sioràz che l’èra cognossù da tuti come un che nó ‘l stremìva per engot, en sistema de vìver chièt, costà ani e ani de studio e de passiènza, adès tut de cólp scombussolà, e nó véder come nìrgen fòra: a don Abondio tuti sti pensiéri i gé zonzonava con gran rebalton en la testa. — Se podéssite mandar de vòuta ‘l Renzo e dìrge no, ancora dai; ma ‘l vorà savér le resón; e che giàite da respònderge po’ mì, per amor del ziél? E, e, e, ancia chesto l’è ‘n testón: se ‘nzun lo tócia l’è n’agnèl, ma se calchedun el vòl contradìrlo… ih! E po’, e pò, perdù dré a ca Lùzia, enamorà come… Putelóni, che sicome nó i sa che far, i se parla, i vòl maridàrse, e nó i g’à en mént àuter; nó i pensa ai fastìdi ‘ndo che i pòl méter en pòer gialantòm. Oh poréto mì! vardà voiàutri se chéi dói lazeróni i géva da méterse pròpri su la me strada, e tòrsela su con mì! Che gé n’ampòdite po’ mì? Sónte mì che vòi maridàrme? Perché po’ putòst nó i è nadi a parlar… ma vardà voiàutri: son pròpri furbo, le ròbe le mé vèn en mént sèmper n’àtimo dopo. Podévi dìrge a chéi dói de nar a portar el só aviso… — Ma, a sto punto, ‘l s’è acòrt che pentìrse de nó èsser stà ‘l consiliér e chel che tegnìva la sc-iala al a chél che feva l’angiarìa, l’èra massa gròssa; e alór sèmper entei só pensieri ‘l sé la tòta con chel’àuter che l’era nù a robàrge la paze. Don Rodrigo i lo cognosséva sol de vista e de nòm, con el nó léva mai bu da che far, àuter che tociar la sbòza col barbizzòl, e tociar per tèra con la pónta del ciapèl che pòce bòte che i léva ‘ncontrà per la strada. G’èra ciapità de difènder, pù de ‘n bòt, la reputazión de chél sior, contra chéi che, sóta ós, sospirant, e vardando ‘n su, i maledìva calche só birbantada: léva dit zènto bòte che l’èra ‘n cavaliér gran gialantòm. En chéla, ‘ntrà de él, el gé n’à dite tante, ma tante, che nó l’eva mai sentù dìrge da àutri, en prèssa de sèito con en domóscol. Arivà a só ciasa, che l’èra zó ‘n fónt al paesòt, con tuti chéi pensieri, con la man che gé tremolava l’à daverzù la pòrta con la clào; l’à serà la porta bèn e ansios de trovàrse con calchedun che ‘l se fidava, la clamà sùbit: “Perpetua! Perpetua!,” e ‘l s’è ‘nvià vèrs la saléta endo che chesta la geva da èsser ìo per parezàr la tàula per la zéna. La Perpetua, come tuti i avrà ciapì, l’era la cògia de don Abondio: na serva premurosa e fedele, che la séva ubidìr e comandar, conforma l’ocasión, a bòte la toleràva el brontolamént e tute le fantasìe del padrón, a bòte però l’era bòna de fàrge tolerar a el le soe, che dì per dì, da cando che l’eva passà via i carànta e l’era ancor na medaia per aver refudà tuti i partiti che i s’era fati avanti, come che la diséva ela, o perché nó g’era sta nancia ‘n ciagn che l’eva tòta su, come che diséva che betònege de le só amiche.






“Vèni, veni” la dis, metèndo la fias-céta del vin preferì da don Abondio entel sòlit pòsto sul taulìn, e plan plan la s’è movèsta; nó léva nancia tocià la sòlia de la saléta, che l’è nù ént con en pas enzì ‘mpazzà, con na fazzada ‘nzì trista, con en vis enzì sfigurà, che nó ocoréva i òcli de la Perpetua per ciapìr sùbit che g’éra ciapità per dal bòn vergot de straordenari.


“Misericordia! che g’àl pò siór padrón?”
“Engot, engot,” dis don Abondio, tiràndo 'l flà che ‘mpareva 'n màntes, molàndose zó sul ciaregión.
“Come po’ ‘ngot? Vòlel dàrmela da ‘ntender a mì? enzì trìst come che l’è? È suzèst de segùr vergot de gròs.”
“Per amor del ziél! Cando che dìgi ‘ngot, o che l’è ‘ngot, o che l’è na ròba che nó pòdi dìr.”
“Ma, nó podéo dìrla nancia a mì no? Cì èl po’ che ge varderà sóra a la vòssa salute? Cì saràl po’ che vé darà ‘n consìli?…”
“Oh, poréto mì! Tasé tasé, e nó sté parezàr àuter: déme cì ‘n bicér del mé vin.”
“E ‘l voròs dàrme da ‘ntènder che nó ‘l g’à ‘ngot!” dis la Perpetua, ‘ntant che la gé ‘mplenìva ‘l bicér, però tegnèndol en man, come a dir che ‘l gé l’avròs dat sol se ‘l g’avés fat ca confidenza che la sé féva desideràr.
“Déme cì, déme cì,” ‘l dis don Abondio, togèndoge fòr da le man el bicér, con la man che gé tremolava e svoidàndol con na rèsta, come sé ‘l fus na medizìna.
“Ma, alór vòlel obligiàrme a nar mì a domandàr cì e ìo chél che g’è suzèst al mé padrón?” la dis la Perpetua, su drìta come ‘n fus dinanzi a el, con le man reversàde sui flànci, e i gómbeti ‘mpontàdi davanti, vardàndol drìt entel mus come se l’avés volèst zuzzàrge ‘l segrèt dai òcli.
“Per amor del ziél! Nó sté sbetegiàr vè no, nó fé traboldéri: l’è na chestión de vita o de mòrt!”
“La vita!”
“La vita.”
“El sa bèn che tute le bòte che ‘l m’à dit vergot franco, en confidanza, mì nó ài mai…”

“Eco, brava! come cando...”
La Perpetua là sé acòrta de aver tocià el botón sbaglià su la tastéra; e alór cambiando sùbit tòno, la dis: “siór padrón,” la dis con na ós engropada e che la tociava ‘l còr, “mì gé són sèmper stada afezionada; e, se adès vòi savér, l’è per premura, perché voròssi dàrve n’aiùt, dàrve ‘n consìli, tiràrla su de morale…”
Fato sta che don Abondio ‘l géva na gran vòia de sbrociàrse da chél cialciaròt enzì dolorós, e autretanta la gé néva la Perpetua de cognòserlo; sichè dopo avèr resistì sèmper pù debolment a le ‘mpontadure de ca feumna, e dopo avérge fat zuràr pù de na bòta, che nó l’avròs zacolà con enzuni, a la fìn con tanta fadìgia, con tanti pòer mì, el g’à contà ‘l brut caso. Cando che è nù ‘l momént de dìrge cì che l’era ‘l malfatór, g’à volèst che la Pepetua la zuràs en modo ancór pù solène; e don Abondio come che l’à prononzià chel nòm, el s’è petà ‘ndrè sul s-cenàl de la ciarégia, con en gran sospìr, auzzàndo le man ensèma per comandar e ancia per supliciar, disèndo: “per amor del ziél!”
“L’è de le sóe!” l’à sclamà la Perpetua. “Che brigante! oh che spòtico! Che òm senza timór de Dio!”
“Voléo tàser? o voléo rovinàrme dal tut?”
“Ma, se sén cì noi soli e nó né sènt enzuni. Come faràl po’, pòver padrón?”
“Vardà,” dis don Abondio, con na ós zidiósa: “ma vardà voi che bèl consìli che la sa dàrme chésta! La mé domanda come che farài, come che farài; come sé ‘l fus ela che la è ente sto ‘mbròi e tociàs a mì tòr fòra éla.”
“Ma! mì ‘l giaveròssi bèn el mé pòr parér da dàrge; ma pò…”
“Ma dopo, sentìnte.”
“El mé consìli ‘l saròs che, sicome tuti i dis che nòs Vésco l’è ‘n sant’òm, e ancia n’òm de póls, che nó ‘l g’à paura de ‘nzun, e cando che ‘l pòl far star al só pòsto sti spòtici, per difènder en curàt, l’è ‘l só pan; mì diròssi de scrìverge na bèla lìtera per contàrge tut, come en che modo… ”

“Voléo tàser? voléo tàser? Saràl consìli da dàrge a ‘n pòver’òm? Se i mé sbaràs na szopetàda ‘nla s-cena, Dio nó ‘l vòbia! el vesco me la ciaveròsel?”

“Bèn, bèn! le szopetàde nó se le da via mìgia come fus bòmbi no: e guai se tut le bòte che sti ciagni i sbàia i g’és da mòrder! E mì ài sèmper vìst che a cì che móssa i dènti e che se fa rispetàr, a chel i gé pòrta rispèt; ma sicome el nó ‘l vòl mai dir la só resón, sen ridoti al punto che tuti i vèn, con permesso a…”

“Voléo tàser?”
“Mì tasi sùbit: ma l’è segùr che, cando che ‘l mondo ‘l se acòrz che un, sèmper, ogni bòt, l’è pronto a ciàlar le…”
“Voléo tàser? Saràl da dir ste bazanàde adès?”
“Basta: ‘l gé penserà su stanòt; entant nó ‘l g’à da scomeziàr a fàrse mal da só pòsta, a rovinàrse la salute; el magnîa ‘n bocón.”
“Gé penserài mì,” à respondù brontolant don Abondio: “segùr; gé pensi mì, mì, g’ài da pensàrge.” E l’è nu ‘n pè, seitàndo: “nó vòi magnar engot; engot: g’ài bèn àutri pensieri: el sai bèn che mé tocia a mì pensàrge. Ma! gévela da suzzéder pròpri a mì.”

“El mandia zó almen sto góz,” dis la Perpetua, che l’éva ‘mplenù n’àuter bicér. “El sa bèn che chésto ‘l gé còmoda zó el stómec’.”
“Eh, magiàri! Gé vòl ben àuter, gé vòl ben àuter, gé vòl ben àuter.”
Po’ l’à tòt la lum, e sèmper brontolànt: “na robéta da ‘ngot! a ‘n gialantòm come mì! e doman come saràla po’? e po’ àutre parole del zènere, el s’è ‘nvià per nar su ‘nla só ciàmera. Arivà su la sòlia, ‘l s’è voutà ‘ndré vèrs la Perpetua, l’à metù ‘l dé su la bócia, e ‘l dis, con en tòno sèrio: “per amor del ziél!” e po’ l’è sparì.



Capitolo II

Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! “Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm!” aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose. — Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. — Vedremo, — diceva tra sé: — egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo. — Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.

Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.

Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.

— Che abbia qualche pensiero per la testa, — argomentò Renzo tra sé, poi disse: “son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.”
“Di che giorno volete parlare?”
“Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?”
“Oggi?" replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. “Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.”
“Oggi non può! Cos’è nato?”
“Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.”
“Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica...”
“E poi, e poi, e poi...”
“E poi che cosa?”
“E poi c’è degli imbrogli.”
"Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?"
"Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio."
"Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è."
"Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?"
"Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa," disse Renzo, cominciando ad alterarsi, "poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?"
"Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.”
“Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.”
“Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?”
“Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?”
Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,...

cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
“Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?
“Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.”
“Orsù!...”
“Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...”
“Che discorsi son questi, signor mio?” proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.
“Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.”
“In somma...”
“In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.”
“Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?”
“Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...
“Le ho detto che non voglio latino.”
“Ma bisogna pur che vi spieghi...”
“Ma non le ha già fatte queste ricerche?”
“Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.”
“Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare...”
“Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma.... ma ora mi son venute.... basta, so io.”
“E che vorrebbe ch’io facessi?”
“Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.”
“Per quanto?”
— Siamo a buon porto, — pensò tra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, “via,” disse: “in quindici giorni cercherò,... procurerò...”
“Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici...” riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: “via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...”
“E a Lucia che devo dire?”
“Ch’è stato un mio sbaglio.”
“E i discorsi del mondo?”
“Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.”
“E poi, non ci sarà più altri impedimenti?”
“Quando vi dico...”
“Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.” E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.

Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.

“Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.”
“Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.”
“Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.”
“Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?”
— L’ho detto io, che c’era mistero sotto, — pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: “via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.”
“Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.”
“È vero,” riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, “è vero,” soggiunse, “ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?”
“Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa.”
“Chi è dunque che ci ha colpa?” domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.
“Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...”
— Prepotenti! birboni! — pensò Renzo: — questi non sono i superiori. “Via,” disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, “via, ditemi chi è.”

“Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due.” Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
“Eh! eh! che novità è questa?” disse don Abbondio.
“Chi è quel prepotente,” disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, “chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia?”
“Che? che? che?” balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.
“Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?”
“Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra.”
“Penso che lo voglio saper subito, sul momento.” E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
“Misericordia!” esclamò con voce fioca don Abbondio.
“Lo voglio sapere.”
“Chi v’ha detto...”
“No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.”
“Mi volete morto?”
“Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.”
“Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?”
“Dunque parli.”
Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
“Mi promettete, mi giurate,” disse “di non parlarne con nessuno, di non dir mai...?”
“Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.”
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: “don...”
“Don?” ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all'indietro.
“Don Rodrigo!” pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch'era costretto a metterla fuori.
“Ah cane!” urlò Renzo. “E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?”
“Come eh? come?” rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. “Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo.” E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: “avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.”

“Posso aver fallato,” rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: “posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso...”

Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, “giurate almeno...” gli disse.
“Posso aver fallato; e mi scusi,” rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
“Giurate...” replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante.
“Posso aver fallato,” ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.

“Perpetua! Perpetua!” gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse.
È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: “Perpetua!” La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato,” e i “non ho parlato,” tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, “son servito;” e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.

Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. — E Lucia? — Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!

Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: “lo sposo! lo sposo!”
“Zitta, Bettina, zitta!” disse Renzo. “Vien qua; va su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’... dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.” La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commissione segreta da eseguire.

Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.

“Vo un momento, e torno,” disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, “cosa c’è?” disse, non senza un presentimento di terrore.
“Lucia!” rispose Renzo, “per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.”
“Che?” disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, “ah!” esclamò, arrossendo e tremando, “fino a questo segno!”
“Dunque voi sapevate...?” disse Renzo.
“Pur troppo!” rispose Lucia; “ma a questo segno!”
“Che cosa sapevate?”
“Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. ”
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: “non m’avete mai detto niente.”
“Ah, Renzo!” rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?

Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come potè meglio, disse: “il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla.” Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
“Un febbrone,” rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.




I conta che ‘l prìnzipe de Condè l’eva dormì come ‘n tas la nòt prima del dì de la batalia de Rocroi: el prinzép però, prima de tut l’era stràc’ come n’àsen; e po’ l’eva zà dat tuti i pefèi nezessàri e l’eva dezìso chel che ‘l géva da far la domàn dré. Don Abondio enveze nó ‘l séva àuter che la domàn dré el saròss sta na zornàda de batalia; e alór na gran part de la nòt i là passàda a ‘mpensàrse plén de angossa vergota da far. Nó fàrge caso a chel che i géva ‘ntimà, né a chel che i géva ‘ntimà e far chel matrimòni, l’era na ròba che nó se ‘n parlava nancia. Méterse ìo col Renzo per véder de nìrgen fòra en calche modo… per amor de Dio! “Nó ste lagiàrve s-ciampar na paròla… perché se no… ehm!” eva dìt un de chei dói robleri; e don Abondio, a sentìrse rebombàr chel ehm! enla testa, nó ’l pensava de segur de disubidìrge a na tal leze, ma adiritura ‘l se pentìva de aver zacolà en pòc massa co la Perpetua. S-ciampàr? Endo po’? E po’! Cante rogne, e canti conti da far! A ogni ‘mpensada che ‘l refudava, chel pover’òm el se svoutolava entel lèt. Ad ogni modo chél che gé pareva ‘l mèio o ‘l mén pézi, l’è sta chéla de gadagnar tèmp, e tiràr el Renzo per le lònge. G’è nù ‘n ment a propòsit che manciava pòci dì al tèmp proibì per far le nòzze; — e, se pòdi tègner calmo, per sti pòci dì, chèl putelón, g’ài dói mesi de calma; e, ‘nten dói mesi, pòl suzzéder tante ròbe. — L’à remenà tante de che scuse da tiràr fòra, e ancia se le gé parèva scuse da ‘ngot, el se convinzéva lostes col pensiér che la só otorità el gé le avròs fate valer, e ancia che la só gran sperienza i l’averòs venzùda con en pòer putelòt ignorante. — Vederén, — el diséva ‘ntra de el: — el ‘l g’à ‘n ment la morósa, ma mì pensi a la mé pèl: el pù ‘nteressà son mì, lagiando star che son el pù prudènt. Caro fiòl, se tì sèntes el brìgol adòs, nó sai che fàrge; ma mì nó vòi nàrge de mèz. — Con sta ‘mpensada el s’è calmà e l’à podèst seràr òcel: ma che dormìda! Che cialciaròti! Róbleri, don Rodrìgo, ‘l Renzo, stradèle, chìpe, fùgie, corse, zigi, szopetade.




Apena desmissiàdi, dopo na disgrazia, e per de pù ‘nte na rògna, l’è ‘n moment pròpri brut. Se pensa a la vita pazìfica de prima; ma ‘l pensier de la nova situazion el torna sùbit a fàrse sentir; e ‘l dispiazer l’è ancor pù fòrt. Passà che l’era chel moment de dolor, don Abondio l’à metù ‘nsema chel che l’eva ‘mpensà la nòt, e l’à pensà che l’era pròpri ‘nzì che gé voleva far, l’è levà, e po’ l’è sta ìo a spetar el Renzo con en pòc’ de paura e ancia con na zerta ansia.


El Lorenzo, o come che i lo clamava tuti, el Renzo, nó ‘l s’à fat aspetar tant.
Apena che g’à parèst de podèr presentàrse dal curat senza dàrge disturbo, l’è nà col coràzo de n’òm de vinti ani, che l’è dré a maridàrse con la so morosa. Fin da pòpo l’era restà senza parènti, e ‘l laurava a far el tessàder de la séda, laoro che i eva fat tuti ‘n la so famìlia; en mistér che ani ‘ndré el rendéva tant, ma che ‘nchei ani l’era zà dré a nar putòst mal; ma se un l’era brào del mister el podeva dar da viver onestament. El laoro dì per dì l’era sèmper de men; ma l’emigrazion entei paesi vizini de tanti laoranti, ‘mbibiadi da le promesse, da privilèzi, da bèle page, l’eva fat che per chei pòci che restava ‘ntel paes de laoro gé n’era ancor assà. En pù ‘l Renzo ‘l geva ‘n ciampét che ‘l deva via a laorar e che ‘l laorava ancia el, cando che la filanda l’era ferma; en modo che, per le so condizión se podeva dir che l’era ‘n bacanòt. Ancia se ‘n che l’an l’era stada ancor pù s-ciarsa del sòlit, e zà se scomenziava a patìr la fam, el Renzo che, da cando che l’eva metù i òcli su la Lùzia l’era deventà masador, el se la passava ben assà, e almen nó ‘l geva ‘l pensier de patìr la fam. El s’è presentà dinanzi a don Abondio, en ghingherli, con le plume de tanti colori sul ciapèl, col so pugnàl dal mànec’ bèl enla s-ciarsèla de le brage, con en far da bulo come tanti òumni ancia chièti de chel tèmp. L’azèt de don Abondio, dubiós e misteriós l’era la vicevèrsa de l’ardiment del putèl che l’era putòst aléger.





— Che ‘l giàbia calche pensier en la testa, — l’à pensà ‘l Renzo, po’ ‘l dis: “son nù, sior curat, per savér a che ora che gé còmoda che sìente ‘n glésia.”

“De che dì parlào po’?”
“Come po’ de che dì? no se ricòrdel no che en fissà per ancòi?”
“Ancòi?” dis don Abondio, come che i lo sentìs parlar per el prìm bòt. “Ancòi, ancòi… ciapìme, ma ‘ncòi nó pòdi.”
“Ancòi no ‘l pòl? Che g’è sta po’?”
“Prima de tut nó ston tant ben.”
“Me desplàs; ma per chel che ‘l g’à da far gé vòl pròpi pòc’ temp, e pòcia fadìgia…”

“E po’, e po’, e po’…”
“E po’ che po’?”
“E po’ g’è ‘n pòc’ de rògne.”
“Rogne? Che rògne pòl èsserge po’?”
“Gé voròss èsser entei me pani, per savér cante grane che g’è ‘nte ste ròbe, canti conti che g’è da far. Mì son massa bòn, nó fon àuter che tòr via i strumi, vardàr che vàgia tut ben per i àutri e po’ làgi ‘ndrè i mé mistéri; e mé tócia sentìr brontolade e ancia pézi.”

“Ma, per amor del ziél, nó sté a tègnerme su le uzze, el me digia nèt e sclèt che che g’è.”

“El seo voi cante, ma cante ciarte che gé vòl per far en matrimòni ‘n regola?”

“Gé manceròs che mì nó sapia cante ciarte che gé vòl, dis el Renzo che ‘l scomenziava a ‘nnervosìrse, méo zà fat la testa come ‘n star sti dì passadi. Ma ades nó g’èra tut fat? nó è sta fat tut chel che gera da far? ”
“Tut, tut, el diséo voi: perché, scoutàme cì, el coión son mì che lagi ‘ndré ‘l me dovér, per nó far tribular la pòra zènt. Ma adès… basta, sai ben mì chel che dìgi. Noi pòri curati sen tra l’ancùzem e ‘l martèl: voi geo prèssa; mì ve compatìssi, pòer putèl; e i superiori… bòn bòn, nó se pòl dir tut. E po’ sen noi che gé nén de mèz.”

“Ma ‘l me spiegia ‘n bòt per tute chel che l’è st’àutra ciarta che gé vòl far, come che dis el, e la fon sùbit.”
“El séo voi cante pégole che le splana via tut?”
“Che vòlel che sapia mì de pégole pò?”
Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,...

el scomenziava don Abondio a contàr su la ponta dei dédi.
“Mé tògel per ziro?” dis el putèl. “Che voléo che me ‘m fagia po’ mì del vòs latinorum?”

“Alor se nó seo le ròbe, lagià star, e fidave de cì che i le sa.”
“Coràzo!...”
“Déi Renzo, nó ste a ‘nrabiàrve, che mì son pronto a far… tut chel che dipént da mì. Mì, mì voròssi véderve contènt; vé vòi ben mì. Eh!... cando che pensi che stéveo enzì ben; che vé manciava po’? v’è sautà ‘n ment de maridàrve…”
“Che me diséo su po’ sior curàt?” el Renzo l’è sautà su come ‘n bis, con na fazza sbalordìda e rabiósa.
“Ma no, digi per dir, ste calmo, digi per dir. Mì voròssi véderve contènt.”
“E alor…”
“Alora, caro mio, mì nó g’ài colpa, la leze nó l’ài mìgia fata mì. E prima de ruar su 'n matrimòni, noi sen obligiadi a controlar tante ròbe, per èsser seguri dal tut che nó gé sia pégole.”
“Ma dai, diséme en bòt per sèmper, che pégola gè po’ ancora?”
“Ste calmo, nó l’è ròbe da podér lézer enzì su dói pèi. A la fìn nó gé sarà ‘ngot, almen speri; ma però cògni far i me studi. La leze la parla da fàrse ciapìr: antequam matrimonium denunciet…
“Ve l’ài dit che nó vòi sentìr latin.”
“Ma gé vorà ben che ve spiegia…”
“Ma nó l’éo zà fate tute le vòsse tamisàde?”
“Ve digi che tute chele che gévi da far nó l’ài fate”
“Ma perché po’ nó l’éo fate a so tèmp? perché po’ m’éo dit che era tut ruà? perché po’ spetar… ”
“Eco! me brontolào perché son massa bòn. Ài vardà de far tut per fàrve ‘n piazér e far pù prést: ma… ma ades m’è nù… bòn bòn, sai mì. ”
“Ma che voròssel che féssite po’ mì?”
“Che gébieo passienza per calche dì. Caro putèl, calche dì nó l’è migia l’eternità no: che gébieo passienza.”
“Ma per cant po’?”
— Sen a bòn punto, — l’à pensà don Abondio; e, con en far pù manieros possìbol, “dai, dai” el dis: “enten chìndes dì varderài… farai…”
“Chìndes dì! chesta sì che l’è bèla! È sta fat tut chel che voléva el; è sta dezìso ‘l dì; è nù chel dì; e adès i vèn a dìrme che g’ài da spetar chìndes dì! e po’, col braz auzzà e batèndo ‘l pugn per aria, con na ós pù àuta e stizósa; "Chìndes…” e cissà che diauléri che ‘l giaveròs tacià a chel zèst, se don Abondio nó i l’avés blocà, zapàndoge l’àutra man, con premura: “dai, dai, nó ste a ‘nrabiarve no, per amor del ziél. Varderài, farài se l’è posìbol, ente na semmana…”

“E a la Lùzia che dìrge po’?”
“Che me son sbaglià mì.”
“E la zènt che diràla po’?”
“Disége pur a tuti, che ài sbaglià mì, da la prèssa, per el me bòn còr: petàme pur tuta la colpa adòs a mì. Seo contènt no? dai, per na semmana.”
“E dopo, nó ge sarà mìgia ‘ncor àutre pégole no?”
“Cando che ve digi…”
“Bòn bòn: speterài per na semmana; ma ve digi sùbit che, passà chesta, nó me contenterài sol de zàcole. Entant, riverisco!” E con chesto ‘l se n’è nà fasèndoge a don Abondio na sverglòta en pòc’ pù ‘mprèssa del sòlit, e dàndoge n’oclada da fàrse ‘ntènder pù che riguardósa.

En bòt che l’è sta fòr da la cialòngia, ciaminando malvolintéra, per el prìm bòt, vèrs la ciasa de la só morósa, con na rabia de chéle, e ‘l pensava sèmper a chel pròlec’; e i lo calcolava sèmper pù stravagante. L’azèt empazzà de don Abondio, chel parlar stentà e nervós, chéi dói òcli grisi che, ‘ntant che ‘l parlava, i vardava de cà e de là come se i aves bu paura de ‘ncontràrse con le paròle che ge nideva fòr da la bócia, chel cognér far tut de nòu per el matrimòni dezìso, ‘nzì fòr dai dènti, e pù de tut chel tiràr fòr sèmper cissà che gran ròba, ma senza dir engot de segùr; tute ste robe messe ‘nsèma le féva pensar al Renzo che ge fus sóta calche mistèro diferènt da chel che geva fat creder don Abondio. El putèl l’è sta ìo ìo per tornar de vòuta per obligiàrlo a dir tut; ma auzzàndo i òcli la vìst la Perpetua che la ciaminava inanzi a el, e che la néva ént enten ortesèl a pòci passi da la ciasa. Entant che la daverzéva l’us, i l’à saludàda e l’à fat en modo de blocàrla prima che la nes dént e, con chéla de ciavàrge fòr vergot de pù segùr, el s’è fermà a zacolàr con ela.



“Bòn dì, Perpetua: ancòi avròssi sperà che saròssen stadi tuti pù alegri ensèma.”
“Ma! Chel che Dio vòl, pòer Renzo.”
“Féme ‘n piazer: chel benedet’òm del siór curàt el m’à contà zó en mùcel de bale che nó son sta bòn de ciapìr ben: spiegiàme voi mèio per chel che l’è che nó ’à podèst maridàrne ancòi.”
“Oh! ve par che mì sapia i afari del mé padron?”
— L’ài bèn dit mì che g’èra sota calche mistèro, — à pensà ‘l Renzo; e per véder se l’èra bòn de tiràrgel fòra ‘l dis: “dai, dai Perpetua; sen amìzi; diséme chel che séo, aidàge a ‘n pòer fiòl.”
“Bruta ròba nàsser poréti, caro Renzo.”
“L’è vera,” dis el Renzo, che ‘ntant l’era sèmper pù convinto de chel che ‘l sospetava; e vardando de ciavàrge fòra de pù su la chestión, “l’è vera, ma èl i prèti che g’à da tratar mal i poréti?”
“Sentìme Renzo; mì nó pòdi dir engot, perché… nó sai engot; ma chel che pòdi seguràrve l’è che ‘l mé padron no ‘l vòl fàrge tòrti, né a voi né a ‘nzuni; el nó ‘l g’à colpa.”

“Cì èl po’ alór che g’à la colpa?” à domandà ‘l Renzo, con furbìzia senza farlo véder, ansiós de sentìr vergot de pù.
“Cando che vé digi che nó sai engot… pòdi bèn parlar per dofènder el mé padron; perché nó pòdi sentìr che i dìgîa che ‘l vòl el mal de calchedun. Pòr òm! se ‘l sbaglia l’è perché l’è massa bòn. A sto mondo g’è bèn àutri birbanti, spòtici, òumni senza timór de Dio…”
— Spòtici! Birbanti! — el pensava ‘l Renzo: — nó ‘l pòl èsser i só superiori. “Déi,” el dis, entant che ‘l scondeva l’azitazión che la ge cresseva sèmper de pù, “déi diséme cì che l’è.”
“Ah! voròsseo farme parlar; e mì nó pòdi parlar, perchè… nó sai engot: cando che nó sai engot, l’è come se avéssi zurà de tàser. Ancia se mé fésseo en suplìzi, mì nó daverzeròssi bócia. Ve saludi; perdén tèmp tuti dói.” Entant l’è nada ‘mprèssa ént entel’òrt e l’à serà l’us. El Renzo, ‘l geva respondù con en salut, ma l’è tornà de vòuta plan planin, che nó la se nascorzés de ‘ndo che ‘l voleva nar; ma cando che l’era lontan assà da ca bòna dòna, l’à pessegià; e ‘nten lampo l’era su l’us de don Abondio; l’è nà ent, dirèto entela saléta endó che i l’eva lagià ìo prima, e i l’à trovà, ‘l g’à córs encontra col far da bulo e i òcli stralunadi.

“Ehi! ehi! che novità èl po’ chesta?” dis don Abondio.
“Cì èl po’ sto spòtico,” dis el Renzo, con la ós de n’òm convinto de aver na risposta segùra, “cì èl po’ chel zèlbero che nó ‘l vòl che mì spósia la Lùzia?”

“Che? che? che?” el bezgolava chel pòr òm, con na fazzada che de colp l’era deventata biancia e flapa come na sdraza tirada fòr da la lessìva. E brontolant, l’è sautà su da la sentadora per nar vèrs l’us. Ma ‘l Renzo, che ‘l se la spetava e l’era atènto, l’è sautà ìo prima de el, l’à zirà la clao, e ‘l se l’à metùda ‘n s-ciarsèla.

“Ah! ah! adès el parlerà, sior curat? Tuti i sa i me afari, men che mì. Vòi savérli ancia mì, porconón. Come se clàmel po’ sto lazerón?”
“Renzo! Renzo! per ciarità, sté atènto a chel che féo; pensà a la vòssa anima.”
“Pensi che vòi savérlo sùbit adès ente sto momént.” E ‘ntant che ‘l diseva ‘nzì, e forse senza nascòrzerse, l’à metù man al cortèl che ge nidéva fòr da la s-ciarsèla.
“Misericordia!” ‘l dis con en fil de ós don Abondio.
“Vòi savérlo.”
“Cì èl po’ che v’à dit…”
“No, no; nó contàme pù tante bale. El pàrlia sclèt e sùbit.”
“Me voléo mòrt?”
“Vòi savér chel che g’ài dirito de savér.”
“Ma se parli son mòrt. Nó giàla da prèmerme no la me pèl?”
“Alor l’è mèio che ‘l pàrlia.”
Chel “alor” i l’eva dit con na tal forza, e l’aspèto del Renzo l’era deventà ‘nzì spaventós, che don Abondio nó l’à podèst nancia emmazinàrse de disubidìr.

“Me ‘mprometéo, me zurào,” el dis “de nó parlar con enzun, de nó dir mai… ?”

“Ge ‘mprométi che se nó me diséo sùbit per sùbit el nom de sto bricón, fon en spròposit.”
Con chéla, don Abondio, col mus e con i òcli de cì che g’à ‘n bócia la tenàia del ciavadènti, l’à proferì: “don…”
“Don?” à ripetù ‘l Renzo, come per aidàr el malà a tràr fòra tut el rèst; l’era sgobà zó, con la récla dausìn a la só bócia, con i brazzi driti e i pugni ‘nseradi.

“Don Rodrigo!” l’à prononzià ‘mprèssa l’obligià, sbrodolando fòra che pòce sìlabe e tirando la paròla, en pòc’ per el pipacul, e ancia perché, con ca pòcia atenzion che ge restava, a far en compromés tra la paura del Renzo e chela de don Rodrigo, empareva che ‘l voles nó dir ca parola, entel stes momento che ‘l cogneva dirla.

“Ah ciagn!” el zigiava ‘l Renzo. “E come àl fat po’? Che g’àl dit po’ per… ?”
“Come po’ eh? come po’?” à respondù, con na ós scasi da superbo, don Abondio che dopo chel gran sacrifìzi el se sentiva de èsser ‘n crèdit. “Come po’ eh? Voròssi che la vé fus tociada a voi, come che la m’è tociada a mì, che nó ge n’ampòdi ‘ngot; de segùr nó giaveròsseo tanti zìsmi per la testa.” E l’à scomenzià a contàrge cant che l’era sta brut encontrar che dói bruti zéfi; entant che ‘l parlava el se nascorzéva che ‘l geva tanta de ca rabia adòs, che fin alora l’era restata scònta per la gran fórla, entel stes tèmp vedendo che ‘l Renzo l’era ìo fermo co la testa bassa ‘ntrà la rabia e la confusion, gera nù na zerta alegria e ‘l dis: “eo bèn fat na bela opera! M’éo fat en gran piazér! En scherzét de sto tipo a ‘n gialant’òm , al vòs curat! en ciasa sóa! enten posto sacro! Na bèla braùra éo fat! Per farme dir la mé rògna, la vòssa rògna! chel che mì vardàvi de tègnerve scòndù per prudenza, per el vòs ben! E adès che ‘l séo? Vorossi bèn véder che mé fésseo…! Per amor del ziél! Nó scherzànte vè no. Cì nó l’è tòrt o resón; cì se trata de forza. E cando stadomàn ve devi ‘n consìli.. eh! Sùbit a sautàr su come ‘n bis. Mi vardavi de aver zudìzi per mì e ancia per voi; ma come se fa? Daverzéme almen; déme la me clao.”



“Pòdi èsserme sbaglià,” g’à respondù ‘l Renzo, con en tono pù dolz vèrs don Abondio, ma sota sota se sentiva la gran rabbia che ‘l geva contra ‘l nemìzi che ades el seva cì che l’era; “pòdi èsserme sbaglià; ma ancia el, ‘l se métia la man sul còr, e ‘l pensia se ‘ntel me caso…”
Disendo ‘nzì, l’eva tòt fòr la clao da la s-ciarsèla e ‘l neva a davèrzer la porta. Don Abondio el g’è nà dré e ‘ntant che ‘l Renzo ‘l zirava la clao ente la seradura, el g’è nà dausìn e con na fazza seria e angossada, vardàndol entei òcli ‘l g’à auzzà i prime trei dedi de l’andrita, come per aidarlo ancia el, e ‘l g’à dit: “zuràme almen…”.
“Pòdi èsserme sbaglià; el me scusia,” g’à respondù ‘l Renzo, daverzèndo l’us per nàrsen.
“Zuràme…” l’à tornà a dìrge don Abondio, zapàndoge ‘n braz con la man che tremolava.
“Pòdi èsserme sbaglià,” dis ancor el Renzo, liberàndose da don Abondio, e l’è partì come sbarà fòr da ‘n cianón, zonclando ìo la chestión, na chestión che, sicome tute le part le geva le só resón, l’aròs podèst durar ancia sècoi, come fus na chestión da lezùdi o da filosofi.

“Perpetua! Perpetua!” à zigià don Abondio, dopo aver clamà ‘ndré per engot el Renzo. La Perpetua nó la respònt: don Abondio nó ‘l seva pù en che mondo ‘l fus.

G’è tocià pù de na bòta a zènt bèn pù àuta ‘n grado de don Abondio de giatàrse en le pégole ‘nzì fastidiose, da nó savér pù che partìto tòr, e de dezìder de méterse entel lèt con la féver. Sto ripiégo, don Abondio nó la nancia dovèst nar a zerciàrlo, perché ‘l g’è nù da só pòsta. La paura del dì prima, la nòt petada via che nó l’eva serà òcel, la fórla che l’eva bu ente chel moment ìo, el pensier per el tèmp che geva da nìr, i à fat efèto. Azità e balùc’ el s’è petà su la só sentadora e l’à scomenzià a sentìr calche sgrisolón entei òssi, el se vardava le óngle e ‘l sospirava, e ogni tant el clamava con la ós che tremolava: “Perpetua!” A la fin la è po’ arivada con en gran ciapùs sota ‘l braz, e come nó fus suzèst engot. Ge sparagni al lezidor i lamenti, i bèrgemi, le acuse, le scuse, i “podéo aver parlà sol voi”, e i “no mì nó ài parlà,” ensoma tuti i pastìzi de ca parlada. Basta dir che don Abondio ‘l g’à ordenà a la Perpetua de méter la stangia a l’us e de nó davèrzer a ‘nzun per engot, e se calchedun batéva, de respònder da la finestra che ‘l curàt l’era nà entel lèt con la féver. Po’ l’è nà plan plan su per le s-ciale e ogni trei s-cialini ‘l diseva “ah son ben a pòsto adès; e ‘l s’è metù ‘ntel let, endo che ‘l lageren ìo.”



Entant el Renzo ‘l ciaminava a passi enfuriàdi vèrs só ciasa, senza aver ciapì chel che ‘l geva da far, ma con na smania adòs de far vergot de strano e de tremendo. I lazeroni, i spòtici, tuti chei che ‘nte calunque modo, i fa del mal ai àutri, i g’à su la cossiènza, se nó basta ‘l mal che i combina, ancia chel che a ciàusa soa fa chei che è ofési. El Renzo l’era n’òm pazìfico e fòr dal tut da èsser en ribèle, l’era ‘n putèl sclèt e nemìzi de ogni ingiagn; ma ‘nchei momenti ìo, el so còr nó ‘l geva ‘n ment àuter che sassinar, la só testa nó la pensava àuter che ‘mmazinàrse ‘n tradimént. L’avròs volèst córer a ciasa de don Rodrigo, zapàrlo per el còl, e… ma po’ ge nideva ‘n ment che l’era ‘n ciastèl, plén de róbleri de ént e de fòra; e sol i amìzi e sèrvi ben cognossudi i podeva nar ent senza èsser vardadi da la testa ai pèi; che n’artesanèl che ‘nzun cognos nó l’avròs podèst nar ent senza farse véder e sora tut che el … el l’era forsi ancia massa cognossù. El se ‘mmazinava alor de tòr el só szòp, de scònderse dré a ‘n zesón, e spetar se ‘l passava da só pòsta; e ‘l se ‘mmazinava, scasi godèndo de ca ciativéria che ‘l géva adòs, de sentìr i passi, el pas de chel ludro, de levar la testa plan plan; véder chel canaia, puntar el szòp, tòr la mira e sbarar, véderlo crodàr per tera e trar come ‘n ciaurét, maledìrlo e po’ de corsa s-ciampar vèrs el confìn per méterse al segùr. — E la Lùzia? — apena che g’è nù ‘n ment chel nòm, en mèz a tute che fantasìe ciatìve, s’è fat strada pensieri pù chièti come che l’era ‘ntel caràter del Renzo. El s’è ricordà dei só pòri parènti, g’è nù ‘n ment el Sioredio e la Madona e i santi, l’à pensà a la consolazión che tante bòte l’eva provà a èsser senza peciadi grossi, a l’orór che tante bòte l’eva bù a sentìr de ‘n delìto; el s’è fat fòr da chel brut ensòni plén de spavènt e col rimòrs, e ‘ntel stes tèmp ancia solevà e contènt per aver sol emmazinà tuta ca ciativèria. Ma ‘l pensier de la Lùzia el se tirava dré tante autre preocupazión. Tute le speranze, tante promesse, en tèmp a nìr enzì sospirà e chel dì ‘nzì desiderà! Come far po’, che paròle dìr po’ per avisarla de ca bruta nòva? E che far po’ dopo? Come far po’ a sposarla contra la volontà de chel spòtico? Ensèma a tut chesto se feva strada ancia ‘l dùbi che don Rodrigo ‘l voles portàrgela via. E la Lùzia? Giaveràla dat a chel mostro ancia la pù pìzzola ocasión, en complimént magiari nozènt, el Renzo nó l’era bòn de bàter fòr da la testa sti pensieri. Ma ela sévela vergot? Come fével po’, chel ludro, a volérla per el senza che ela la se fus nascòrta? Saròssel arivà a tentarla en calche modo? E la Lùzia nó l’avròs mai dit engot a el? al só moros!








Tut zapà da sti pensieri, l’è pasà dinanzi a só ciasa, che la era ‘n piaza, e, traversà tut el paés, el s’è ‘nvià vèrsa chéla de la Lùzia, che la era zó ‘n fónt, anzi en pòc’ fòra. Ca ciaséta la géva dinanzi ‘n cortìu putòst pìzzol che i la tegnìva separada da la strada, e l’era zircondàda da ‘n murét. El Renzo l’è nà ént entel cortìu, e la sentù en ronzàr de sèito che ‘l nidéva da na ciàmera su àut. El s’è ‘mmazinà che l’era le amighe e le comare, nude a parezar la Lùzia, e nó l’à volèst fàrse véder da chéle ìo, con cà notizia che ‘l géva ‘ntel còrp e su la fazza. Na popàta che géra ìo ‘ntel cortìu, la g’è corsa ‘ncontra zigiando: “el spós! el spós!”
“Tasi, tasi Betina!” dis el Renzo. “Vèi cì; vai su da la Lùzia e tìrela da na banda, e dìge ente na récla… ma varda che nó sèntia ‘nzun, e che ‘nzun dùbitia de ‘ngot, vè… dìge che g’ài da parlàrge e che la spèti en la ciamera zó bas e che la vègnia sùbit.” La putelòta l’è nada ‘n prèssa su per le s-ciale, tuta contenta e con n’ambizión de chéle per chel servìzi secrèt che i geva dat da far.
La Lùzia en chel momént la nidéva fòr tuta spuzzéta da le man de só mama. Le só amighe i se la robàva una co l’àutra e i la tirava perché la se lagiàs véder; ela con en pòc’ de respèt, con ca moderazión che de sòlit g’à le contadine, che le se scònt la fazza col gómbet sbassàndola su la sbòza, enfizzando le zìlie lònge e négre, ma ‘ntant grignàndo con la bócia. I ciavéi negri da putèla, spartidi da na rigia drìta e blancia sul vis, i era plegiàdi su de dré sul copìn, con tanti zércli de drézze infrizzade de spìle lònge de arzènt, che le féva corona come fus i razi de na ròda, come che le fa ‘ncor adès le contadine del milanés. Entórn al còl la géva na colana de granate con ogni tant en botón de òr: la géva ‘n corpèt de veludo ricamà a fiori e con le màngie separade e ligiade da bèi nastri: na vesta de séda, a plegiòte spesse e pìzzolòte. Dói ciàuzze rosse, dói s-ciarpéte ancia chéste de séda tute ricamade. Estra a chesto, che l’èra l’ornament che se usa per el dì de le nòzze, la Lùzia la géva chél de tuti i dì, chel de na beléza sèmplize, che ‘nchel dì l’era aumentada da tuta l’emozión che la féva véder su la fazza: na zèrta contentezza e ancia n’azitazión che g’à sèmper le sposine, ma che però nó la rovina la beléza. La Betina la s’è petada dent ente chél ròz, la s’è svizinada a la Lùzia e la g’à fat entènder che la géva vergot da dìrge, e la g’à dit la só paroléta en la récla.




“Vón e vèni, ‘n momént” l’à g’à dit la Lùzia a le feumne; e l’è nada zó bas en prèssa. A véder la fazza del Renzo e ‘l só comportamént tut azità, “che g’è po’?” la dis, co l’impressión de terór che era suzèst vergota de brut.
“Lùzia!” g’à respondù ‘l Renzo, “per ancòi, è nà tut a mónt; e Dio sol el sa cando che poderén èsser maridadi.”
“Che?” la dis la Lùzia sbalordìda. El Renzo alor el g’à contà con pòce paròle la storia de ca doman: ela la scoutava co l’angóssa: e cando che la sentù ‘l nòm de don Rodrigo, “ah!” l’à sclamà, tuta rossa e tremolènta, “enfìn a chésto!”
“Ma alor, voi el séveo…?” dis el Renzo.
“Purtròpo!” à respondù la Lùzia; “ma enfìn a chésto!”
“Ma che séveo po’?”
“Nó sté farme parlar adès, nó sté fàrme plànzer. Vón a clamàr me mama e a mandar via le feumne: ge vòl che sìente cì da nòssa pòsta”
Entant che la Lùzia la partiva, el Renzo l’à sussurà: “nó m’eo mai dit engot.
Voutàndose ‘n àtimo la Lùzia la g’à respondù “Ah, Renzo!” El Renzo l’à ciapì sùbit che ‘l só nòm dit enzì ente chel moment, con chél tono ìo, da la Lùzia, el voleva dir: podéo dubitar che abia tasèst se nó l’era per vergot de sèri e che tornava a cont?


Entant la bòna Agnese (la se clamava ‘nzì só mama de la Lùzia), che l’eva zà sospetà da ca paroléta enla récla, e avèndo vist sparìr só fiòla, l’era corèsta zó bas ancia ela per véder chel che g’era. La fiòla i la lagiada ìo col Renzo e l’è nada da che feumne che era ìo radunade, e dàndose na rezistrada con la ós, l’à dit mèio che la podéva: “el siór curat l’è malà; ancòi nó se fa ‘ngot.” Dit ste paròle i l’à saludade ‘nprèssa e l’è nada de nòu zó bas.
Le feumne una al bòt le se n’è nade, e le se è sparpaiade a contàr el fato. Doi o trei le è nade enfìn su l’us del curat, per véder se l’era malà dalbòn.
“En feurón,” à respondù la Perpetua da la finestra; e la notizia riportada a tute le àutre, l’à zoncià tut i ciastèi che le eva zà scomenzià a farse ente i só zervèi, ciastèi che adès i era deventadi ‘n mistèro ente i só discorsi.




Capitolo III

Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. – A tua madre non dir niente d'una cosa simile!
– Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
– Parla, parla! – Parlate, parlate! – gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
– Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! – E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. – Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l'ultimo della filanda. Io raccontai subito...
– A chi hai raccontato? – domandò Agnese, an-dando incontro, non senza un po' di sdegno, al nome del confidente preferito.
– Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura...―
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
– E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!
– E che t'ha detto il padre? – domandò Agnese.
– M'ha detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, – proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s'era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da pensare... – Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
– Ah birbone! ah dannato! ah assassino! – gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
– Oh che imbroglio, per amor di Dio! – esclamava Agnese. Il giovine si fermò d'improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: – questa è l'ultima che fa quell'assassino.
– Ah! no, Renzo, per amor del cielo! – gridò Lucia. – No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?
– No, no, per amor del cielo! – ripeteva Agnese.
– Renzo, – disse Lucia, con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: – voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.
– Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...!―

Lucia si rimise a piangere; e tutt'e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de' loro abiti.
– Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pela-to, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.
– Lo conosco di vista, – disse Renzo.
– Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d'uomo! Ho visto io più d'uno ch'era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui do-vevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quel-le cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. ―
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto al borgo, domandò dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e v'andò. All'entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi –. Renzo fece un grande inchino: il dottore l'accolse umanamente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distri-buiti i ritratti de' dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d'allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s'alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt'anni addietro, per perorare, ne' giorni d'apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, ditemi il vostro caso.
– Vorrei dirle una parola in confidenza.
– Son qui, – rispose il dottore: – parlate –. E s'accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l'altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha studiato...
– Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore.
– Lei m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere...
– Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
– Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale.
― Ho capito, ― disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. ― Ho capito. ― E subito si fece serio, ma d'una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.
Così dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
– Dov'è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev'esser qui sicuro, perché è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco –. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: – il 15 d'ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?
– Un pochino, signor dottore.
– Bene, venitemi dietro con l'occhio, e vedrete.
E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand'espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:
– Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente.
– E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville...
sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
– È il mio caso, – disse Renzo.
– Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'ufficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?
– Pare che abbian fatta la grida apposta per me.
– Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... una piccola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n'è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.
Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l'occhio, cercando di cavar il co-strutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato costui", pensava tra sé. – Ah! ah! – gli disse poi: – vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare, in un'occasione.
Per intender quest'uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d'ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all'atto d'affrontar qualcheduno, ne' casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l'impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all'arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per
(non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta.
E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto.
Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de' bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si rammenti d'aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto.
– In verità, da povero figliuolo, – rispose Renzo, – io non ho mai portato ciuffo in vita mia.
– Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c'è rimedio anche per quelle. D'ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un'attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand'ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l'ha intesa? l'è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver visto quella grida.
– Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
– Ma mi scusi; lei non m'ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è. Sappia dunque ch'io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest'estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s'era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta, per non tediarla, io l'ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo...
– Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m'impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
– Le giuro...
– Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? Io non c'entro: me ne lavo le mani –. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
– Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l'uscio; e, quando ve l'ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch'era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un'occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione.
Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de' grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d'aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l'opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch'era accaduto. – Sicuro, – disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all'uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto – Deo gratias –. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l'imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
– Oh fra Galdino! – dissero le due donne.
– Il Signore sia con voi, – disse il frate. – Vengo alla cerca delle noci.
– Va' a prender le noci per i padri, – disse Agnese. Lucia s'alzò, e s'avviò all'altra stanza, ma, prima d'entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un'occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: – e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos'è stato?
– Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, – rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. – E come va la cerca? – soggiunse poi, per mutar discorso.
– Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui –. E, così dicendo, si levò la bisaccia d'addosso, e la fece saltar tra le due mani. – Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
– Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s'ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.
– E per far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, la mia donna? L'elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt'anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
– No, in verità; raccontatemelo un poco.
– Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c'era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d'inverno, passando per una viottola, in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. ― Che fate voi a quella povera pianta? ― domandò il padre Macario. ― Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna. ― Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest'anno, la farà più noci che foglie ―. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, ― padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento ―. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav'uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch'era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de' frati. Que' giovinastri ebber voglia d'andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l'uscio, va verso il cantuccio dov'era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d'un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant'olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s'avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: – vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla chiesa.
– Non volete altro? Non passerà un'ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.
– Mi fido.
– Non dubitate –. E così detto, se n'andò, un po' più curvo e più contento, di quel che fosse venuto.
Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de' cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl'infimi, ed esser servito da' potenti, entrar ne' palazzi e ne' tuguri, con lo stesso contegno d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d'esser alle mani tra loro, gl'inzaccherassero la barba di fango. La parola "frate" veniva, in que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d'ogni altr'ordine, eran oggetto de' due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d'umiltà, s'esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da' diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini.
Partito fra Galdino, – tutte quelle noci! – esclamò Agnese: – in quest'anno!
– Mamma, perdonatemi, – rispose Lucia; – ma, se avessimo fatta un'elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d'aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...
– Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, – disse Agnese, la quale, co' suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.
In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
– Bel parere che m'avete dato! – disse ad Agnese. – M'avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! – E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava d'aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impiccio. – Ma, se il padre, – disse, – non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell'altro.
Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. – Domani, – disse Lucia, – il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
– Lo spero; – disse Renzo, – ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente.
Co' dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire.
– Buona notte, – disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d'andarsene.
– Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente.
– Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi.
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n'andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c'è giustizia, finalmente! – Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.






La Lùzia l’è nuda ént enla ciàmera sul somàs, entant che ‘l Renzo tut angossà, l’avisàva l’Agnese che i lo scoutava anc’ela angóssada. Tuti dói i s’è voutadi vèrs cì che ‘n séva de pù che lóri, per avér na spiegiazión che nó la podéva che èsser dolorosa: tuti doi i mossava, ‘ntel dolor, e con n’amor pur diferènt che i geva per la Lùzia, en fastìdi ancia chesto diferènt, perché l’aves tegnù scònt calche ròba e che roba! L’Agnese, ancia se la geva prèssa de sentìr parlar só fiòla, nó l’à podèst tegnìrse senza dàrge na brontolada. ― A tó mare nó dirge ‘ngót de na ròba del zènere!

― Ades vé digi tut ― à respondù la Lùzia, sugiàndose i òcli col grombiàl.
― Parla, parla! ― Parlà, parlà! ― tuti dói ensèma à zigià mare e spós.
“Vèrzine Santissima!” l’à sclamà la Lùzia: “cì èl po’ che avròs credèst che le ròbe le podèss arivar enfìn a chésto!” E, con la ós róta dal sanglotìr, la g’à contà che pòci dì prima, entant che l’à nidéva de vòuta da la filanda, e l’era restada ‘ndré da le só compagne, g’era passà dinanzi don Rodrigo, ensèma a n’àuter siór; e che ‘l prim l’eva fat per tègnerla ìo a zàcole, che come che la contàva, nó lé era pròpi bèle; ma éla, senza dàrge fé, l'éva spessegià, e l’era arivada a zapàr le só compagne; e ‘ntant l’éva sentù chel’àuter siór sbotaciarse sbotaciàrse, e don Rodrigo che ‘l diséva: scometén. El dì dré, chésti i s’è fati trovàr ancór su la strada; ma la Lùzia l’era ‘n mèz a le àutre putèle, coi òcli bassi; e l’àuter siór che ‘l grignava come na vàcia, e don Rodrigo ‘l diséva: vederén, vederén. “Grazie a Dio,” dis la Lùzia, “chél dì ìo l’era l’ultim de la filanda. Mi g’ài contà tut subit…”

“A cì po’ gé l’às contàda?” à domandà l’Agnese, che la g’èra nada su per el nas, volèndo savér cì che podéva èsser el confessór preferì dé só fiòla.
“Me son confessada dal padre Tòfol, mama,” à respondù la Lùzia, con na osata calma come per domandàrge scusa.
“G’ài contà tut, l’ultima bòta che sén nade ‘nsèma ‘nla glésia del convènt: e, se vé recordào, cà domàn, févi de tut per tiràrla ‘n lòngia, per tardivar chel tant che passàs àutra zènt del paés che néva da chéla, e ‘nzì da podér far la strada en compagnìa; perché, dopo chél bòt, le strade lé mé féva tanta de ca paura…”
A sentìr el nòm del reverèndo padre Tòfol, el sentimént de rabia de l’Agnese él s’è ‘ndolzì. “Às fat benón” la dis “ma perché po’ nó g’às dit tut ancia a tó mama?”
La Lùzia l’eva bu la só bona resón anzi doi: una de nó far patìr e spaventar ca pòra dòna de só mama, per na ròba che tanto nó l’avròs podèst trovàrge rimèdi; l’àutra de nó riszàr che la storia, che la géva da restar sepolìda, la nés da na bócia a l’àutra: tanto pù che la Lùzia la sperava che le só nòzze le avròs zonclà, en prinzìpi, ca bruta angiarìa. De ste dói resón però l’à parlà sól de la prima.

“E a voi” l’à g’à dit po’ al Renzo, con cà osata de cì che vòl ricognósser a n’amìzi che l’eva bu tòrt: “e a voi g’évite da parlàrve de sta roba? Purtropo nidéo a savérlo adès!”

“Ma che t’àl dit po’ ‘l padre?” à domandà l’Agnese.
“El m’à dit de maridàrme ‘l pù prést possìbol, e che ‘ntant stàgîa dént da la me pòrta; e che pregîa ben el Sioredio; e che ‘l sperava che chél’ìo, nó vedèndome pù, ‘l m’averòs desmentegiàda. L’è stà ìo che mé son sforzada,” voutàndose de nòu vèrs al Renzo, ma senza vardàrlo ‘ntei òcli, e rossa come na brasa, “l’è stà ìo che ài fat la sfazzada, e che v’ài domandà mì de far pù prést che podéveo, e de ruàr su tut prima del tèmp che éven destinà. Cissà chél che eo pensà de mì! Ma mì vardavi ‘l ben de tuti, e 'nzì i m’éva consilià, e èri pù che segùra… e stamatina, nó avròssi pròpri ‘mpensà…” E cacì l’à troncà le parole con na bòna planzùda.

“Ah candalùa! ah maledéto! ah sassìn!” el zigiàva ‘l Renzo, pestolàndo inanzi e ‘ndré per la ciàmera, e struciando ogni tant el mànec’ del cortèl.
“Che giarbói, per amor de Dio!” la sclamàva l’Agnese. El putèl el s’è fermà de cólp davanti a la Lùzia che la planzéva; i l’à vardàda con amor, ma con na rabia de chéle, e ‘l dis: “chésta l’è l’ultima che ‘l fa chel sassìn.”
“Ah! no, Renzo, per amor del ziél!” dis la Lùzia. “No, no, per amor del ziél! El Sioredio ‘l g’è ancia per la pòra zènt; come voléo che ‘l né aiùtia po’, se fén del mal?”
“No, no per amor del ziél!” la ripetéva l’Agnese.
“Renzo,” dis la Lùzia, con pù calma e pù fiducia: “voi gèo en mistér, e mì son bòna de laoràr, vèi che nén lontani che chél mostro nó ‘l sèntia pù parlar de noiàutri.”

“Ah Lùzia! e dopo? Mì nó són ancór el tó òm e tì nó sés ancór la mé spósa! Sas tì se ‘l curàt el vorà farne le ciarte che sén liberi? N’òm come chel’ìo? Se fùssente maridadi, oh maledéta…!”
La Lùzia l’à se metùda ancór a plànzer; e tuti tréi i è restadi ìo 'n silenzio, e ‘nte ‘n avelimént che l’èra tut el contràri dei àbiti da la festa che i g’éva adòs.
“Sentìme, fiòi; déme fé a mì,” l’à dit, dopo ‘n bel pezzòt, l’Agnese. “Mì son nuda al mondo prima de voi; e ‘l mondo ‘n pocetìn el cognóssi ancia mì. Nó gé vòl spaventàrse pù de tant: el diàul nó l’è ‘nzì brut come che i dis. A noiàutri pòra zènt i glòmi i né ‘mpar pù ‘ngiartiàdi perché nó gé trovan el ciào; ma a le bòte en parér o la spòna de calchedun de lezù… sai bèn mì chel che vòi dir. Fè come che vé digi mì Renzo; né a Lecco; zercià ‘l dotor Azzecca-garbugli, contàge tut… Ma nó sté a clamàrlo ‘nzì, per amor del ziél: l’è ‘n soranòm. Gé vòl dìr siór dotór… Come sé clàmel pò adès? Nó mé vèn pròpri ‘n ment el só vero nòm: i lo clama tuti ‘nchél modo. Comunque, zercià chél dotór lònc’, sut, pelà, col nas rós e na màcla róssa su la gòuta.”

“Mì ‘l cognóssi de vista” dis el Renzo.
“Benón,” dis l’Agnese: “chel’ìo l’è na zima! Ài vist mì pù de un che l’era pù ‘ngiartià de ‘n poiàt enla stópa e nó ‘l séva endo che sbàter la testa, e, dopo esser sta n’oréta a càter òcli col dotór Azzecca-garbugli (me racomandi vèh, vardà de nó clamàrlo ‘nzì!), l’ài vist grignàrsela, ve ‘l digi mì. Togéve dré chéi càter pàiti, poréti! Che g’évi da tiràrge ‘l còl, per el trigét de doméngia, e portàgei; perché nó gé vòl mai nar con le man en man da chéi sióri. Contàge tut chél che è suzèst; e vederéo che ‘l vé dirà, su dói pèi, de che ròbe che a noi nó lé ne niròss en mént nància a pensàrge su per ‘n an.”

El Renzo l’éva azetà sùbit sto parér pròpri volintéra; la Lùzia ància; e l’Agnese, orgoliósa de avérgel dat, l’à tòt su una al bòt dal polinàr che pòre bèstie, l’à metù ‘nsèma le só òt zate, come se la fés en mazét de fiori, e po’ i l’à plegiàde ént e strenzùde con en spac’, e i gé l’à consegnade ‘n man al Renzo; e ‘nzì, dat e abù parole de coràzo, l’è sortì da la man de l’òrt, per s-ciampàrge ai putelòti che se i l’avés vìst i g’è saròss córsi dré zigiando: el spós! el spós! Enzì, traversando i ciampi o, come che i dis da che bande, i lóci, el se ‘n néva per le stradéle de ciampagna, tut azità, e ‘ntant el pensava a la só disgrazia, e pensando al pròlec’ da fàrge al dotór Azzecca-garbugli. Lagi po’ pensar a cì che léz, come che le podeva star en viaz che pòre bestie, ligiade a ca maniera, tegnùde per le zate, co la testa ‘n zó, e per de pù enle man de n’òm, azità per tute le só passión, che ‘l sé sbrazzava entant che i pensiéri i gé buras-ciava ‘nla zùcia. L’andrizzava fòr drìt el braz per la rabia, po’ i lo auzzàva per la disperazión, i ló scorlava per aria, per sfida, e, ‘n tuti i modi el gé déva de chéi scorlóni, che ‘l féva sbalotàr che càter teste a spindorlón; entant che bèstie le sé ‘nzignava a beciàrse una co l’àutra, come che suzét de spés tra sòzi cando che ì è ente na situazión desperàda.
Arivà che l’èra 'nla zitadina, l’à domandà ‘ndo che l’era la ciasa del dotór; calchedun g’à ‘nsegnà la strada, e ìo l’è nà. Entel nar ént entel palàz g’è nù ca gran sudizión che g’à i pòri òumni che nó à studià cando che i trova dinanzi a ‘n siór o a ‘n lezù, e po’ l’eva desmentegià tuti i pròlegi che ‘l s’éva preparà a dir; ma dàndoge n’oclàda ai pàiti, g’è nù coràzo. Nà ént en cosìna, el g’à domandà a la serva se se podéva parlar col siór dotór. Chésta cì l’à oclà le bestie, e, usada come che l’era a tòr ca sòrt de regiài, l’à g’à metù le man adòs, ancia se ‘l Renzo el tirava ‘ndré, perchè ‘l voleva che ‘l dotór el vedés e ‘l savés che ‘l géva portà vergot. L’è ciapità pròpri ‘ntant che cà feumna la diséva: “déme cì, e né inanzi”. El Renzo l’à fat na gran svérgla: e ‘l dotór el g’à fat en bòn azèt, e ‘l g’à dit “nidè pur avanti bon’òm,” e i l’à fat nar ént ensèma a el entel só studio. Sto studio l’era ‘n gran ciamerón, che ‘l geva su tréi parè i cadri dei dódes Cesari; la carta, l’era scuertàda da ‘n gran scafàl de libri vècli con su ‘n dé de pólver: en mèz, na tàula pléna 'n ciarte, de sfòi, de libréti, de avisi, con tréi o càter ciarége ‘ntorna, e da na banda na poltrona col s-cenàl àut e cadràt, refinida sui ciantóni da dói rizignòi de legn a forma de còrni, rivestida de coràm de vacéta, con tant de rebatini, che zèrti i era zà crodadi fòr da ‘n pèz, e cì e ìo i lagiava che la fòdra la se ‘nrizolàs. El dotór l’era vestì con en soraàbit ormai tut fluà, che per el passà ‘l g’èra ocorèst a Milan cando che g’èra calche causa pù importante. L’à serà l’us, e ‘l g’à fat coràzo al putèl con sté parole: “diséme ‘l vòs caso, bonòm.”




“Voròssi dìrve na parola ‘n confidanza.”
“Son cì,” g’à respondù ‘l dotór: “parlà pur”. E ‘l s’è comodà su la poltrona. El Renzo, en pè dinanzi a la taula, con na man entel cocùzzol del ciapèl, che ‘l féva zirar con l’àutra, ‘l dis: “voròssi savér da voi che eo studià…”
“Diséme ‘l caso come che l’è,” à desmetù ‘l dotór.
“Géo da scusàrme: noiàutri pòréti nó sén bòni de parlar ben. Donca voròssi savér…”

“Benedéta zènt! séo tuti ‘nzì: envéze de contàr i fati, voléo far domande, perché géo zà le vòsse conclusión en mént.”
“Scusàme, siór dotór. Voròssi savér se, a spaventàr en curàt, perché nó ‘l fàgîa ‘n matrimòni, g’è penale.”
“Ài ciapì,” dis el dotór ‘ntrà de él, che però nó l’éva ciapì ‘ngot. “Ài ciapì.” E sùbit l'è deventà sèrio, ma pù che àuter, na serietà mista de compassión e de premùra; l’à strucià fòrt i làuri, fasèndo nir fòra na sigolàda che nó sé ciapìva bèn chel che la voléva dir, ma come che l’à scomenzià a parlar, s’à ciapì pù bèn. “Caso sèrio, caro putèl; l'è 'n caso prevìst. Eo fat bèn a nir da mì. L’è ‘n caso fàzile, zà preventivà entén zènto lezi, e… una pròpri l’an passà, del siór governatór. Adès vé fón véder, e tociàr con man.”

Disèndo ‘nzì, el dotór, l’è levà su dal caregón, e l’à ficià le man en tut chél gazèr de ciarte, e ì l'à svoutolàde da sóta ‘n su, come se ‘l metés el gran entél star.
“Endo èla pò adès? Vèi fòra, vèi fòra. Gé vòl aver massa ròbe a la man! Ma la doròs èsser cì de segùr, perché l’è na leze ‘mportante. Ah! eco, eco”. I l’à tòta ‘n man, i l’à desplegiàda fòr, l’à vardà la data, e, con na fazza ‘ncor pù seria, l’à sclamà: “el 15 de otóber 1627! Segùr; la è de l’an passà: leze fres-cia; l’è chéle che fa pù paura. Seo bòn de lézer, putèl?”
“En pocetìn, siór dotór.”
“Benón, nidéme dré con l’òcel, e vederéo.”
Tegnèndo ca ciarta sventolàda per aria, l’à scomenzià a lézer, en zèrti tòci el sbrodolàva le parole e po’ ‘l sé fermàva a lézer pù plan e con tanto de zèsti àutre rige, conforma chel che gé féva còmot:
Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’ lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, ezètera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, ezètera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, ezètera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, ezètera ha risoluto che pubblichi la presente.

E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... “sentìo?” di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... ezètera: Endo sés pò? ah! ecco; sentì cì: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
“L’è ‘l mé caso,” dis el Renzo.
“Sentì cì, sentì cì, g’è bèn àuter; e po’ dopo vederén la punizión. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, ezètera, che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tuto chésto ‘l g’à a che far con noi. Sì, sì, gé sén: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'ufficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?”
“Empàr che i àbia fat la léze apòsta per mì.”
Ah? èl verà no? sentì, sentì: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Nó sé gé s-ciampa: i g’è tuti: l’è come la val de Giosafàt. Sentì cì adès la punizión. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, ezètera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... na gnèna! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, ezètera. Gé n’è de ròba, ah? E vardà cì ‘nzì cì che à firmà: Gonzalo Fernandez de Cordova; e sóta Platonus e cì ancor: Vidit Ferrer: nó né mancia ‘ngot.

Entant che ‘l dotór el lezéva, ‘l Renzo ‘l gé néva dré plan planìn co l’òcel, e ‘l vardava de ciapìrgen dént vergót, e ‘l vardàva de tègner a mént che parole sacrosante, chele che gé ‘mparéva le dovés èsser el só aiùt. El dotór, vedèndo ‘l só vantór pù atènto che stremì, el sé féva maravéa. “Che ‘l sia ‘n dritón stó cì”, el pensava ‘ntrà de él. “Ah! ah! Furbo” ‘l g’à dit dopo: “però vé séo fat taiàr el zuf. Séo ben sta fino vèh: però, a méterve ‘n le mé man nó ocoréva. El caso l’è serio, ma voi nó séo chel che son bòn de far ente zèrti casi.
Per entènder sta butàda del dotór, gé vòl savér, o recordàrse che, alóra i róbleri de mistér, i litegiadóri de ogni sòrt, i g’èva l’abitudine de farse nìr el zuf, che po’ i sé tirava sul mus, come na viséra, cando che i enfrontàva calchedun, e che i pensava nezessàri masceràrse, e che la bulàda la fus de chele che gé voleva aver ardimént ma ancia prudenza. Le lezi nó lé era manciàde su sta moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all'arbitrio di Sua Eccellenza.


Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta.
E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Siché ‘l zuf l’era scasi na part de l’armadura, na mostrìna dei róbleri e dei slandróni; e per via de sto zuf, chesti i li clama zuffi. Sta parola i la dòpra ancor ancia sé adès entél dialèt l’è per dir piazzaròl e ‘ngot de pù: e forse nó gé sarà enzun da Milan, che nó i abia sentù dìrse can che i era pòpi, o i parenti, o ‘l maestro, o calche amico de ciasa, o calchedun tra i servi: l’è ‘n zuf, l’è ‘n zufét.

“A dir la verità, da pòer fiòl,” à respondù ‘l Renzo “mì nó ài mai bù ‘l zuf en vita mia.”

“Nó fén engot,” à respondù ‘l dotór, scorlàndo la testa, grignolènt tra ‘l maliziós e ‘l nervós. “Se nó vé fidào de mì, nó fén engot. Cì che dis bosìe al dotór, vedè putèl, l’è ‘n siòco che ‘l gé dirà la verità al zùdize. A l’avocàt gé vòl contàrge le ròbe zuste: po’ tócia a noi a ‘mbroiàrle. Se voléo che vé aiùtia, gé vòl che mé diségeo tut, da la A a la zeta, col còr en man, come cando che vé confessào. Géo da dìrme ‘l nòm de chél che v’à dat l’encombènza: el sarà de segùr n’òm de riguardo; e, ‘nde sto caso, mì narài da stó cì a far chel che l’è ‘l mé dovér. Nó gé dirai de segùr che séo sta voi a dìrme che ‘l v’à mandà el: fidàve. Gé dirai che vèni a supliciar la só protezión, per en pòer putèl acusà. E con él mé meterài d’acòrdi per ruar su l’afare en regola. Ciapìu ben che, se ‘l se la pòrta fòr el, séo salvo ancia voi. Se po’ ‘l fus tut colpa vòssa, nó ste a procupàrve, che mì nó mé tiri ‘ndré: n’ài zà tirà fòr da le pèzze tanti d’àutri e da rògne àuter che pézi… Basta che nó ébieo oféso na persona de riguardo, né sén ben ciapìdi, vé ‘mprométi de tiràrve fòr da le rògne: naturalmént con en pòc’ de spesa. Géo da dìrme cì che l’è l’oféso, come se dis: e, conforma la condizión, la calità, e l’umor de l’amico, gé vorà véder se né convièn farlo rigiàr drit protezèndolo, o trovàrge noi vergóta de penàle, e méterge ‘n pùles en la récla; perché, vardà, a manezàr ben le lézi, enzun g’à colpa, e ‘nzun l’è inozènt. Cant al curàt, se l’è n’òm de zudìzi, el starà su la sóa senza dir engót; se ‘nvéze ‘l fus en testón, g’è rimèdi ancia per chéi. Da ogni rògna se pòl nìrgen fòra; ma gé vòl n’òm che sa: e ‘l vòs caso l’è serio; serio, vé digi, serio: la léze la parla benón; e se la chestión se deve dezìderla tra la zustìzia e voi, enzì a càter òcli, ah séo bèn a posto. Mì vé parli da amìzi: le birbantàde gé vòl pagiàrle: sé voléo farla francia, bèzzi e sinzerità, dar fé a cì che vé vòl ben, ubidìr, far tut chel che vé sarà suzerì.


Entant che ‘l dotór el diséva tute ste robe, el Renzo i lo vardava 'nciantà, come chel pìmperlo ‘n piazza che ‘l varda ‘n zugiadór de bussolòti, che, dopo che ‘l s’à ficià ‘n bócia metri e metri de stópa, el tira fòr metri e metri de nastro, che nó ‘l finìs mai. Cando che però l’à ciapì ben chel che ‘l dotór el voléva dir, e che straentendimént l’avés zapà, el g’à zoncià ‘l nastro ‘n bócia, e ‘l g’à dit: “ehi! siór dotór, ma che éo ciapì po’? l’è pròpri tut a la revèrsa. Mì nó ài spaventà enzun no; mì nó fón de sté robe, mì: e ‘l domàndia pur a tut el comun, e ‘l sentirà che nó ài mai bu a che far con la zustìzia. La brigantàda i mé l’à fata a mì, e vèni cì da el per savér chel che g’ài da far per aver la resón; e son pròpri contènt de aver vist ca léze.

“Diàolo porco!” dis el dotór, coi òcli spalancadi. “Che refolòt mé féo su po’? Bòn bòn enzì l’è; séo tuti compagni: possìbol che nó sépieo mai dir le ròbe come che le è?
“Ma ‘l mé scùsia; nó ‘l m’à dat el tèmp: adès vé conti mì come che la è nada. El g’à da savér che mì gévi da maridàrme ancòi,” e cì al Renzo gé nù ‘n gróp, “gévi da sposar na putèla, che gé parlavi ancór da stistà passada; e ‘ncòi, come gé digi, l’era ‘l dì stabilì col siór curàt, e éven dezìso e preparà tut ogni ròba per ben. Eco che ‘l curàt l’à scomenzià a tirar fòra zèrte scuse… bòn, per nó farla massa lòngia, mì l’ài fat parlàr che se ciapìssia, come che l’era zusto; e ‘l m’à dit che i géva proebì, se nó ‘l voleva zontàrge la pèl, de far sto matrimòni. Chél brigante de don Rodrigo…”

“Eh sì dai valà!” l’à dit sùbit el dotór, tiràndo ensèma le zìlie, pirlando ‘nsu ‘l nas ros, e storzèndo la bócia, “eh dai valà! Che nidéo cì a spacàrme la testa con ste bale pò? Sti discorsi féli ‘ntrà de voiàutri, che nó séo bòni de pesar le parole; e nó sté nir cì a farli con en gialantòm che ‘l sa cant che le val. Néven, néven fòr da cacì; nó séo chel che ve ‘n diséo: mì nó mé ne ‘npazzi coi putèi: nó vòi sentìr zàcole de sta sòrt, zàcole per aria.

“Vé 'l zùri…”
“Fòr da le azze, vé digi: che fàrmen po’ mì dei vòssi zuraménti? Mì nó vòi savérgen, me ‘n lavi tute dói le man”. E ‘l sé lé fregiava pròpri come sé ‘l sé lé lavàs dalbòn. “Emparà a parlar: nó sé và a coionàr en gialantòm.”
“Ma sentìme, sentìme,” el seitàva perengót el Renzo: el dotór, sèmper con na ós fòrta, i ló spenzéva con le man fòr da l’us; e, cando che i l’éva s-ciarà, la daverzù, l’à clamà la serva, e ‘l g’à ordinà: “dége ‘ndré sùbit a sto òm chel che l’à portà. Mì nó vòi engót, nó vòi engót.”
Ca feumna nó l’éva mai obedì a n’órden compàgn, en tut el tèmp che l’era stada a servìr ente ca ciasa: ma i gé l’éva prononzià con na tal resoluzión, che nó l’à bazilà a obedìr. L’à zapà che càter pòre bestie, e i gé l’à date ‘ndré al Renzo, con n’oclada de compassión, come per dìrge: gé vòl ben che l’àbies fata grossa. El Renzo ‘l voleva far el complimetós; ma ‘l dotór nó la zedù nancia de ‘n zentimetro; e ‘l putèl pù sbalordì e pù enrabià che mai, la cognèst tòrse de vòuta le poiate che 'l dotór l'èva refudà, e tornar al só paes, a contàrge a le só feumne tuti i vantàzi de la só spedizión.
Le feumne, ‘ntànt che l’era mancià, dopo che lé s’èra tiràde fòr i àbiti da la fèsta e metù chei dal dì de laóro, le s’èra metùde a consigliàrse de nòu, la Lùzia che la sanglotìva e l’Agnese che la sospirava. Cando che l’Agnese l’éva ben parlà de le gran soluzión che se sperava nidés dai consili del dotór, la Lùzia la diseva che gé voléva vardàr de aidàrse en tute le maniere; che ‘l padre Tòfol l’era n’òm da tègner da cont, e spezialmént cando che se trata de solevàr i poréti, de lagiàrge far a él; e che ‘l saròs sta na bela ròba fàrge savér tut chel che era suzèst. “Segùr,” la dis l’Agnese: e tute dói le pensava come far; sicome che nar lóre stesse al convènt, che l’era lontàn forsi càter chilometri, enchél dì nó le se la sentiva: e de segùr enzun che gés en poc’ de zudìzi, g’averòs consilià de farlo. Ma, ‘ntant che le vardava chel che se podeva far, le à sentù bàter su l’us, e ‘nchéla scasi sotaós ma che s’à ciapì ben en ― Deo grazias ―. La Lùzia, emmazinàndose cì che 'l podéva èsser, l’è corsa a davèrzer; e sùbit, l’à fat na sverglòta, è nù ént en zocolànte, con la só sacéta su la spala, e che ‘l tegnìva strénta per la zima ‘ntortolàda con tute dói le man sul stómec’.

“Oh fra Galdino!” lé à dit le doi feumne.
Sia lodato Gesu Cristo, ― dis el frate. ― Vèni ‘n zércia de le nós.
“Vai a tòr le nós per i frati,” dis l’Agnese. La Lùzia l’è levada su, e l’è nada ‘n l’àutra ciàmera, ma, prima de nar ént, la s’è fermada dré la s-céna de fra Galdino, che l’era ìo drìt en pè che l’aspetava; e, metèndo ‘l dé su la bócia, l’à g’à dat n’oclada a só mare per fàrge ciapìr, ancia con na zèrta autorità che, per piazér, nó gé nidéss en mént de dir vergot.
El frate da zércia, vardando co la cóa de l’òcel l’Agnese, el dis: ma, e la nòzza? Nó èrel ancòi? Ài vist per el paés en pòc’ de confusión, come sé gé fus na novità. Che è suzèst po’?
“El siór curàt l’è malà, e gé vòl spostàr tut,” à respondù ‘n prèssa l’Agnese. Se la Lùzia nó la giavés dat ca oclàda la giaveròs respondù ente n’àutra maniera. “Come vala po’ con la zércia?” po' dopo la dis per tòrgerla via.
“Mìgia tant ben, bòna dòna, mìgia tant ben no. Lé è tute cì”. El s’à tòt zó da adòs la sacéta fasèndola con dói man. “Lé è tute cì; e per méter ensèma sta gran méda, ài cognèst bàter e dés porte.”
“Ma! l’è anàde magre, fra Galdino; e cando che se cògn mesurar el pan, nó sé pòl slargiàr nancia col rèst.”
“Bòna dòna, sèo che rimèdi che g’è per far tornar i ani bòni? La ciarità. Eo sentù de chel miràcol de le nós, che g’è stà stiani, en chel convènt de la Romagna?”

“A dir la verità, no, nó l’ài mai sentù, contàmel mò.”
“Oh alora! Géo da savér che ‘n chel convènt, g’èra ‘n frate, che l’era ‘n sant, e ‘l se clamava padre Macario. En dì de invèrn, el passava per na stradèla, ente ‘n ciamp de ‘n nòs benefatór, en gran bòn òm ancia chesto, el padre Macario l’à vist sto benefatór dausìn a na gran nogiàra; e càter contadini con le zape per aria, che i scomenziàva a s-ciavar entorn a la planta per ciavàrla.” — Che gé féo a ca pòra planta? ― “à domandà el padre Macario.” ― Eh! padre, l’è ani e ani che nó la fa nancia na nós; e alór mì fón legna. ― Lagiàla star, dis el padre: vederéo che chest’an la farà pù nós che fòie. “El benefatór, che ‘l cognosséva cì che éva dit che parole, l’à ordinà sùbit a le òpere, che i slargiàs de nòu la tèra sóra le raìs; e, clamà ‘l padre, che ‘ntant el néva per la só strada, ‘l g’à dit,” — padre Macario, stautón farén a la mèza col convènt ―. “De ca profezìa era nà fòr la ós; e tuti i corìva a vardàr la nogiàra. Di fati, en primavéra, la era tut en fiór, e, a só tèmp, nós a bardèle. El bòn benefatór nó l’éva bu la sodisfazión de bàterle; perché l’era nà sul segrà prima de coìrle. Ma, se mé scoltào, el miràcol l’è sta tant pù grant. Chél bòn òm el g’éva ‘n fiòl tut de n’àutra pasta. Siché cando che è nù ‘l tèmp de bàter le nós, el frate da zércia l’è nà per scudìr la metà per el convènt; ma sto cì l’à fat a finta de nó savér engot, e anzi el g’à respondù da gran vilanàz, che nó l’éva mai sentù che i frati i fus bòni de far nós. El séo alór chel che è suzèst? En dì, (sentì chesta) chel baràba l’éva ‘nvidà arcanti dei só sòzi che i èra de la stesa risma, e, fraiànt, el contàva la storia de la nogiara, coionàndo i frati. Chei birbanti i à volèst nar a véder sta gran méda de nós; e i l’à menàdi su 'nla spléuzza. Ma sentìme cì: el davèrz l’us, el va vèrs el ciantón endo che l’éva emmuclà le nós, e ‘ntant che l’è dré a dir: vardà cì, vardà cì, e ‘l vàrda ancia él e ‘l vét… che po’? en bel mùcel de fòie de nogiàra séce. Nó èl sta n’esèmpi chesto no? E ‘l convènt envéze che zontàrgen el gé n’à gadagnà; perché, dopo che era suzèst sto fato, i frati da zercia i à tòt su tante de che nós, che n’àuter benefatór, che géva fat pecià el pòer zocolante, el g’à fat la ciarità de n’àsen al convènt, che i lo aiutàs a portar a ciasa le nós. E se féva tant de chel’òio, che ogni porét el nidéva a tòrsen, chel che gé féva al bisògn; perché noi frati sén come ‘l mar, che ‘l zapa aca da tute le man, e po’ i la tórna a dar fòr a tuti i ridi.





A stó punto tórna fòr la Lùzia, col grombiàl enzì ciargià de nós, che la féva fadìgia a tegnìrlo, strenzéndo i dói ciantóni con i brazzi fòr driti. Entant che fra Galdino, tirà zó la sacéta da la spala, i la pozàva per tèra e i la desligiàva, per méter ént ca ciarità 'nzì bondante, só mare l’à fat na fazza pléna ‘n maravéa e ancia ‘n pòc’ sevéra a la Lùzia, per tuta ca zenerosità; ma la Lùzia l’à g’à dat n’oclada, che la voleva dir: spetà che dopo ve spiégi tut. Fra Galdino nó ‘l séva pù che dir de complimenti, auguri, promésse, ringraziamenti, e, ciargià la sacéta su la s-cena, la fat per nàrsen. Ma la Lùzia, i l’à clamà, e l’à g’à dit: “pòssite domandàrve ‘n piazér; voròssi che gé diségeo al padre Tòfol, che giaveròssi premura de parlàrge, e se ‘l mé fa ‘l piazér de passàr cì el da noiàutre poréte, sùbit sùbit; perché noi nó podén nar enfìn a la glésia.”
“Nó voléo àuter no? Nó passerà n’ora che ‘l padre Tòfol el sapia el vòs desidèri.”

“Me fidi.”
“Nó sté dubitar”. E dit enzì, el sé ‘nvià, en pòc’ pù gòbo e pù contènt, de can che l’era nù.
A véder che na pòra putèla la mandava a clamàr, con tanta confidanza, el padre Tòfol, e che ‘l zocolante l’azetàva de fàrge chel piazér, senza maravéa e senza far tante storie, nó gé vòl pensar che sto padre Tòfol el fus en frate da ‘ngot, en fratón come tanti. Anzi l’era n’òm che g’éva n’autorità, sia ‘ntel convènt, che dapertut ìo ‘ntorna; ma le condizión dei frati le era tali che per lóri nó g’èra ‘ngot de massa bas o massa àut. Servìr i pù disgraziadi, e èsser servìdi dai caporióni, nar ént entéi palazzi e ‘nle talambàre con él stés portamént de umiltà ma ancia de serietà, èsser a bòte, entela stessa ciasa, come ‘n passatèmp, e na persona che sé nó la g’èra nó se dezidéva ‘ngot, domandar la ciarità per tut, e farla a tuti chei che nideva al convènt, a tute ste ròbe el frate l’èra usà. Per le strade, el podéva ‘ncontràr tant en prìnzipe che ‘n zinoclón, gé basava la pónta del cordón, che na sclapàda de desìpoi che, fasèndo finta de begiàr entrà de lóri, i gé ‘nlociàs la barba. La parola “frate” a chel tèmp la nideva pronunziàda col pù gran riguardo, ma l’era ancia desprèzzada: e i capucini, forsi pù de tuti i àutri ordini de frati, i era sozèti a tuti dói sti sentimenti, e i provava le doi fortune una contraria a l’àutra; perché, nó avèndo ‘ngot, essèndo vestìdi con la tònegia che l’era n’àbit fòr dal normale, mossàndo de pratigiàr la mission de l’obediènza, i se esponéva o a la venerazión o a l’ofésa, conforma l’umor e i divèrsi caràteri e l’empensàr de la zènt.


Partì fra Galdino, l’Agnese l’à sclamà: “tute che nós! pròpri chest’an!”
“Perdonàme mama,” g’à respondù la Lùzia; “ma se avéssente fat la ciarità come i àutri, ‘l fra Galdino l’averòss cognést nar entórna per le ciase cissà Dio per cant, prima de aver la sacéta pléna; Dio sól ló sa cando che ‘l saròs tornà de vòuta al convènt; e, con tut che zàcole che l’averòs fat, Dio sól lo sa se ‘l se saròs tegnù a mént…”
“Às pensà benón; e po’ l’è tut ciarità che fruta sèmper,” l’à dit l’Agnese, che pur con i só difetòti, l’era na gran bòna feumna, che come se dis, la se saròs petada ‘ntel fòc’ per che l’unica fiòla, endo che l’eva metù tuta la só sodisfazión.

Enchéla, è arivà ‘l Renzo, e nidèndo dént con na fazza ‘nrabiada e ‘ntel stes tèmp avelìda, l’à petà i càter pàiti su ‘nte na tàula; e per chel dì l’è sta l’ultima ofésa a che pòre bestie.

“Bel parér m’éo dat!” el g’à dit a l’Agnese. “M’éo mandà propri da ‘n gialantòm, da un che àida i poréti!” E ‘l g’à contà del só consulto col dotór. L’Agnese, sbalordìda de na ressuìda ‘nzì trista, la voléva dar d’antènder che ‘l só parér l’era bòn, e che ‘l Renzo no l’eva savèst far le robe come che lé néva fate; ma la Lùzia l’à blocà sùbit ca chestión, disèndo che éla la sperava de aver giatà n’aiùt miór. El Renzo l’à tòt ancia sta speranza, come che gé tócia a chéi che i è ‘nla disgrazia e ‘nla pégola. El dis: “Ma, se ‘l padre, nó ‘l gé trova ‘n rimèdi, el troverài mì, ente ‘n modo o ‘nte n’àuter.”

Le feumne lé consiliava la paze, la pasiènza e la prudenza. “Doman,” la dis la Lùzia, “el padre Tòfol el nirà seguriènto; e vederéo che ‘l troverà calche rimèdi, de chei che noiàutri poréti nó sén boni nancia de ‘mmazinàrne.”
“Spéri;” dis el Renzo, “ma, ad ogni modo, en calche maniera varderài de mandàr zó ancia chésta. Prima o dopo, se Dio vòl, a sto mondo gé sarà ancia zustìzia.”
Con sti discorsi dolorósi, e tuti i fati che én contà fin cì, ancia chel dì l’èra passà; e ‘l scomenziava a nìr nòt.
“Bòna nòt,” l’à dis avelìda come ‘n ciagn bastonà la Lùzia al Renzo, che nó l’era bòn de nàrsen da ca ciasa.
“Bòna nòt,” g’à respondù ‘l Renzo, ancor pù avelì.
“Né àiderà calche sant,” dis la Lùzia: “vardà sté atènto, e rassegnàve.
La mare la g’à tacià àutri consili de chel tipo; e ‘l spós l’è sortì, col còr che ‘l batéva emprèssa, e ‘l sé ripetéva sèmper che paròle strane: ― se Dio vòl a sto mondo prima o dopo gé sarà zustìzia! ― Perché se sa che n’òm ciargià de tut chel dolór nól sa pù chel che ‘n se ‘n dis.


Capitolo IV

Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.

— Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? — Bisogna soddisfare a tutte queste domande.

Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.

Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.

Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: “eh! io fo l’orecchio del mercante.” Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.

Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.

Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: “fate luogo.”

“Fate luogo voi,” rispose Lodovico. “La diritta è mia.”
“Co’ vostri pari, è sempre mia.”
“Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.” I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
“Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.”
“Voi mentite ch’io sia vile.”
“Tu menti ch’io abbia mentito.” Questa risposta era di prammatica. “E, se tu fossi cavaliere, come son io,” aggiunse quel signore, “ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.”
“E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.”
“Gettate nel fango questo ribaldo,” disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
“Vediamo!” disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
“Temerario!” gridò l’altro, sfoderando la sua: “io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.”

Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sè, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.

“Com’è andata?” — È uno. — Son due. — Gli ha fatto un occhiello nel ventre. — Chi è stato ammazzato? — Quel prepotente. — Oh santa Maria, che sconquasso! — Chi cerca trova. — Una le paga tutte. — Ha finito anche lui. — Che colpo! — Vuol essere una faccenda seria. — E quell’altro disgraziato! — Misericordia! che spettacolo! — Salvatelo, salvatelo. — Sta fresco anche lui. — Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. — Scappi, scappi. Non si lasci prendere.”

Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: “è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.”

Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benchè l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo, (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento) che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, “consolatevi” gli disse: “almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo.” Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. “E l’altro?” domandò ansiosamente al frate.
“L’altro era spirato, quand’io arrivai.”

Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.

Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.

La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.

Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: “è un troppo giusto dolore.” Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.

Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. “Permettetemi, padre,” disse, “che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo.” Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, “venga domani,” disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.

Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre.

Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: — sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione. — Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.

C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, nè veniva a quell’ umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: “io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.” Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, “alzatevi,” disse, con voce alterata: “l’offesa... il fatto veramente... ma l’abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S’alzi, padre... Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo.... un po’ impetuoso... un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizione di Dio. Non se ne parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura.” E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: “io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!”

“Perdono?” disse il gentiluomo. “Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...”

“Tutti! tutti!” gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.

Un “bravo! bene!” scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: “padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’ amicizia.” E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, “queste cose,” disse, “non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’ aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono.” Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.

Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sè, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: — diavolo d’un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) — diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello. — La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.

Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’ umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.

Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.

Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente.

Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.

Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: “oh padre Cristoforo! sia benedetto!”



El sol nó l’era ancor levà dal tut, can che ‘l padre Tòfol l’è partì dal convènt de Pescarenico, per nar su ‘nla ciaséta ‘ndo che i lo spetàva. Pescarenico l’è ‘n paesòt, su la sponda ‘nzancia de l’Adda, ma se pòl dir del lac’, vizìn al pònt: en pugnàt de ciase, abitade perlopù da pes-ciadori, e dobàde cì e ìo da le ré destendùde a sugiàrse. El convènt l’era pozà (e chel ciasamént el g’è ancora) al de fòr e dinanzi al paés, con la strada che porta da Lecco a Bergamo, che gé passava ‘n mèz. El ziél l’era serén come l’ambra: man a man che ‘l sol el sé auzzàva dal de dré del mónt, se vedeva i só razi, da le zime dei monti al de là de la val, rodolàr, come se i se desplegiàs, zó per le còste, e ‘nla val. N’ariéta d’autón, la destaciàva dai rami le fòie passe del moràr, e i le portava a crodàr pòc’ lontàn da la plànta. De cà e de là, entéi vignalòti, sui rési ancor drìti, le fòie le sluséva con tute le tinte sul rós; la tèra lauràda da pòc’, negra come che l’era, la se distinguéva entéi ciampi de tópe biance che le slusegiàva per la rosàda. L’era tut en bel véder; ma ogni cristiàn che se vedéva, el tè féva 'n gran pecià. Ogni tant, se ‘ncontrava pouréti, sdrazzadi e che i era pèl e òssi, zèrti i era vècli del mistér, zèrti obligiàdi a slongiàr la man perché i era ‘n misèria. I passàva ziti dausìn al padre Tòfol, i lo vardava che i féva pietà, e, ancia sé i séva che da el nó i podèva sperar engót, perché en frate capuzin nó ‘l tociàva mai en soldo, i gé féva na svérgla de ringraziamént, per la limòsina che i eva zapà o che i néva a zerciàr al convènt. A véder i contadìni sparpaiàdi per i ciampi, l’era ancor pù dolorós. Zèrti i seumnàva, e per sparagnàr, i tréva fòr le soménze come 'l fus òr, e malvolintéra, l’era come riszàr el pan da magnar; zèrti i ‘mplantava la vàngia a stènto, e i voutàva flàci le bléste de tèra. Na pòpa magra ‘mpiciada, ìo a past, la tegnìva per la ciavézza na vaciòta sinigìda, e la vardava inànzi, e ògni tant la sé sgobàva ‘mprèssa a robàrge calche erba da magnar a ciasa, erbe che la gran fam géva ‘nsegnà che le era bòne ancia per la zènt. A ogni pas, tuti sti spetàcoi nó i féva che aumentàr la malancolìa del frate che zà ‘l ciaminava col brut pensiér de nar a sentìr calche disgrazia.





― Ma perché po’ ‘l sé togéva tant pensiér per la Lùzia? E perché po’, sùbit, al prìm avìso, el s’era movèst con tanta premùra, come sé i l’avés clamà el padre provinziàl? E cì èrel po’ sto padre Tòfol? ― A tute ste domande gé vòl dàrge sodisfazión.

El padre Tòfol da *** l’era n’òm pù vizìn ai sesànta che ai zincànt’ani. La só testa pelàda, men che la coronàta de ciavéi che gé ziràva ‘ntórn, come che era tosà tuti i capuzini, ogni tant la sé levàva e la féva véder vergot de sevéro e de ansiós; e sùbit la sé sbassàva, en ségn de umiltà. El géva la barba biancia e lòngia, che gé scuertava le gòute e ‘l barbizòl, e che la mossàva ancor mèio el rèst de la só fazza che l’astinenza, che zà da ‘n gran pèz el pratigiàva, la gé aumentava la serietà. I só òcli s-ciavadi i vardava perlopù per tèra, ma a bòte, de cólp, i te fulminava; come dói ciavài col morbìn, menadi per la ciavézza da ‘n boiàr, e che i sa che con él nó i pòl vénzerla, però i fa lostes ogni tant, calche sgiambét, ma che i pàgia sùbit con na bòna tiràda del mòrs.




El padre Tòfol nó l’èra sèmper sta ‘nzì, e nó l’era nància sta sèmper Tòfol: el só nòm de batésem l’èra Lodovico. L’era fiòl de ‘n marciàder da*** (tuti sti asterischi i là metùdi per paura chél che m’à contà tuta la storia) che, entéi ultimi ani, essèndo ‘n gran bacàn, e con chel fiòl ìo sol, la ‘mplantà ìo de laoràr e ‘l s’è metù a far el siór.


Essèndose metù a far el sioràt, l’à scomenzià a avér en gran respét per tut el tèmp che l’éva petà via a laoràr. Sicome l’era ormai segùr de sta ròba, el féva de de tut per scònder via che l’era sta en merciandèl: e volintéra l’avròss volèst desmentegiàrlo ancia él. Ma la botègia, le stòfe, el lìber dei conti, el mètro, i era sèmper en la só testa, come l’ombra del Banco al Macbeth, ancia ‘ntant che ‘l magnava e ‘l bevéva, o che l’era con la só compagnìa de scrocóni. E nó sé pòl emmazinàrse l’atenzión che chésti i g’è metéva per schivar ogni paròla che podés fàrge nìr en mént al padrón de ciasa che ofrìva ‘l trigét, el só vècel mister. Per contàrnen una, en dì che i era dré a ruàr de magnàr, entél momento che se è pù alégri, can che nó sé pòl dir se è pù contènti i fraióni o ‘l padrón che eva ofèrto ‘l past, el sé godeva a coionàr un de chéi sòzi, el pù gran golosón del mondo. Chésto cì per risponder al schèrz, senza la minima intenzión de maliziar, anzi pròpi sclèt come ‘n pòpo, ‘l g’à respondù: «eh! caro mio, mì fón récle da comerziànte». Él pòver’òm el s’è acòrt sùbit che la paròla che l’éva dit nó la sonàva ben: la vardà, con na fazza stralunada, chéla del padrón, che l’era putòst rabiósa: un e ancia l’àuter i avròs volèst tornar con la fazza de prima; ma ormai nó l’era pù possìbol. I àutri fraióni i pensava ‘ntrà de lóri de tòr via ca mèza vergogna, cambiando discórs; ma, ‘ntant che i pensava i taséva e ‘nte chél silènzi, el disonór l’aumentava. Tuti i era atènti a nó vardàrse un con l’àuter; ognun vedéva che tuti i pensava ‘l stes pensiér che tuti i voleva scònder. L’alegrìa, per chél dì ìo, l’era nada su per el ciamìn; e l’imprudènt, o a dirla pù sclèta, el scarognà, nó l’è pù sta ‘nvidà. Só pare del Lodovico l'à passà i ultimi ani a sto modo, sèmper con ste angósse, sèmper con ca paura de èsser coionà, e senza mai pensar che ‘l vénder nó l’è na ròba pù redìcola che ‘l compràr, e che ‘l mistér che ‘l géva rispèt de aver fat, i l’éva fat per tanti ani en mèz a la zènt, e senza tanti zìsmi. L’à tirà su só fiòl come ‘n nòbile, come che l’era a chei tèmpi, e per chel tant che la leze e le régole le gé permetéva, ‘l g’à fat dar lezion da maestri de lingua e de cavalerìa; e po’ l’è mòrt, e i l’à lagià siór e ‘ncór zovenòt.




El Lodovico l’era nù su come se tira su ‘n nòbile; e ‘n mèz ai gratarécle ‘ndo che l’era cressù, i l’éva usà a èsser tratà con gran riguardo. Ma, cando che l’à volèst mesdàrse coi sioràti de la só zità, nó l’era pù come che l’era usà; e l’à ciapì sùbit, che, sé ‘l voléva èsser al par con lóri, come che giaveròs plasèst, ge convegnìva star ìo calmo, sbassàr le récle, star sèmper sóta e mandàrnen zó una de spés. En modo de viver enzì, nó ‘l néva d’acòrdi, né co l’educazion, e nancia col caràter del Lodovico. E alór en pòc’ secià, l’à arbandonà ca compagnia. Però a stàrge lontàn gé desplaséva; gé paréva che chesti i avròss dovèst èsser só sòzi; ma che però i l’averòs volèsti pù a la man. Sto misto de simpatìa e de rancòr vèrs i nòbili e ‘l nó podèr avér amìzi ‘ntrà ca zènt ìo, ma ‘n calche modo volér èsserge ént con chesti, el s’à metù a compèter coi lussi e ‘l splendór, vadagnàndose a sto modo antipatìe, invidie e redicoléz. El só caràter, onèst ma ancia spòtico, i l’éva portà a compèter su àutre ròbe ancór pù sèrie. El g’èva en sinzéro ribréz per le angiarìe e per le persecuzión: ribréz che ‘l cresséva ancór de pù per ca zentàia che i ne ‘n féva tante enten dì; e che l’èra pròpri chéi che nó ‘l podéva véder. Per calmar o per pratigiàr ste passión enten bòt sól, el togéva volintéra le part de ‘n pòr òm bastonà, el sé ‘ntestàva de far rigiàr drìt un de chéi buli, el sé ‘ntrometéva en le bègie, tiràndonse adòs n’àutra; man a man che ‘l néva avanti ‘nzì, l’è nù a èsser en protetór de la pòra zènt, e chel che ciastigiava ‘l padrón spòtico. L’era ‘n laóro fadigós; e podéo savér se ‘l pòer Lodovico, nó ‘l géva tanti de chei nemìzi, mistéri e pensiéri. Estra a le bègie con chésti, el tribulava de sèito con chel che l’era ‘l só caràter; perché a vénzerla ente una de che chestión (e per de pù ‘n chéle ‘ndo che ‘nvéze nó i la géva venzùda), el cognéva dopràr ancia él calche ‘mbròi o angiarìa, che però la só cossiènza nó la gé perdonava. El cognéva aver entórn en bel nùmer de róbleri; e, sicome ancia el ‘l gèva da portàrselo fòra e aver n’aiùt pù fòrt, el cognéva zernìrse i pù malandrìni, chei pù birbanti; e vìver ensèma a le canàie, per amór de zustìzia. Pù de ‘n bòt, o perchè l’era avelì dopo na chestión mal reussìda, o perché l’era sèmper con en pè levà per en perìcol, o perché l’era stuf de cognérse sèmper vardàr entórna, o stomegià de tuti chei lazeróni che ‘l géva ‘ntorn, col pensiér de ‘n domàn malsegùr, le sostanze che le sé asbassàva dì per dì sèmper de pù, a bòte per el ben a bòte per le só bulàde, per tut chesto, a bòte ‘l pensava de farse frate; che a chel’epoca l’era la strada pù còmoda per nó aver pù rògne. Ma ‘nfin ìo l’era sol fantasìe, pò è nù chel dì che l’à dezìso dal bon a ciàusa de n’azidènt, el pù serio che nó gé fus mai ciapità.




En dì l’era con dói róbleri ente na strada de la só zità, ensèma a ‘n zèrto Tòfol che l’era sta giarzón ente na botégia e che dopo che i l’éva serada su, l’era deventà ‘l capo dei servi en ciasa del Lodovico. Sto òm l’arà bu zirconzìrca zincant’ani, e ancór da cando che l’era zóven, l’era afezionà al Lodovico, che l’éva vìst nàsser, e ‘ntrà la pagia e calche regiàl el gé deva da vìver a el e ancia da mantégner la só familia che l’era putòst numerosa. El Lodovico l’à vìst nìr da lontàn en tale, spòdec’ de professión, che nó l’éva nancia mai parlà ‘nsèma en vita sóa, ma che però el ge steva su le azze, e naturalmént l’era ricambià, siccome ente chel mondo ìo podér odiar e èsser odiadi senza cognóserse l’era ‘n vantàzi. Sto cì l’era ‘nsèma a càter róbleri, e ‘l nidéva inanzi drìt, col pas da supèrbo, con la testa àuta, con na fazza da galiòto che la vardava da sóra ‘n zó. Tuti dói i ciaminava rasènt el mur; ma ‘l Lodovico (notaben) i ló sfioràva da l’andrita; e chesto, da sèmper, el te deva ‘l dirìto (varda tì endo che ‘l va a ficiàrse el dirìto!) de nó destaciàrte dal mur, per far passàr calchedun àuter; e a sta regola, a chel tèmp, i ge féva ‘n gran caso tuti. L’àuter però el pretendeva, al contrari, che ‘l dirito i ló giavés el, dato che l’era nobile e che al Lodovico gé tociàs portàrse en mèz a la strada per farlo passàr e tuto chésto per via de n’àutra leze. Siché, come che suzét ‘nte tante d’àutre chestión g’era dói regole che nó le neva d’acòrdi una con l’àutra e nó èra mai sta dezìso cala che fus chela che valeva; e chesto nó ‘l feva che ciausàr bègie tut le bòte che un de chéi testóni nó ‘l se ‘ncontràs con n’àuter ancór pù testàrt. I dói buli i sé nidéva ‘ncòntra, tuti dói rasènt el mur, dói fegùre encolàde al mur, ma che le sé movéva. Cando che i è stadi a na carta dal nas, el siór supèrbo, vardando da sóra ‘n zó el Lodovico, con la testa àuta, e con chel far da bulo, ‘l g’à dit, vilanamént: «lagiàme passàr».


«Lagiàme passàr voi,» g’à respondù el Lodovico. «La ‘ndrìta l’è mia.»
«Ma con chéi come voi, g’ài sèmper dirìto mì.»
«Ma segùr, se la supèrbia de chei come voi, el fus léze per chei come mì.»
I róbleri tant de un che de l’àuter i era restadi ìo fermi, tuti dré al só padrón, vardàndose de travèrs, con le man su le spade, e pronti a begiàr. La zènt che nidéva de cà e de là, la se tegnìva lontana, e la osservava ‘l fato; tuta ca fóla de zènt nó la féva che zaigiàr sèmper de pù l’empontadura de chei dói testóni.
«Vèi cì ‘n mèz, manoàl vigliaco, che nó ses àuter; che tè l’ensegni mì come che se trata coi nòbili.»
«Dìges na bosìa mì nó son vigliàco.»
«E tì ses en bosiàdro a dir che mì ài dit bosìe.» Sta risposta cì la era de regola. «E, se tì fùstus en cavaliér, come che són mì,» g’à tacià chel siór, «te faròssi véder mì de cappa e spada, che a dìr bosìe ses tì.»
«Chesta l’è na scùsa per schivàrve de passar ai fati ciàusa le vòsse paròle enzì sfazàde.»

«Tirà stò birbànte 'n mèz a la strada,» l’à ordinà chel nòbile ai só róbleri.
«Próvete!» l’à dit el Lodovico fasèndo ‘n pas endré, e metèndo man a la spada.

«Ardìto!» l’à zigià l’àuter, sfodràndo la sóa: «Cando che la sarà enmaclàda del tó sànc, chésta mì la s-ciavizzerai.»

E i s’è sautàdi adòs tuti dói; i servi de le dói pàrt, i s’è petàdi ‘nla barùfa per difènder i só padróni. El combatimént l’era besoàl, sìa per el nùmer, e ancia perché ‘l Lodovico el vardava de schivàr i cólpi, e a desarmàr el só nemìzi, putòst che a copàrlo; ma chel’ìo envéze el voléva pròpri copàrlo, a ogni cóst. El Lodovico l’éva zà zapà na stiletàda da una de che linzére, e na sgrafiàda soravia a na gòuta, e ‘l só nemìzi l’era dré a dàrge adòs per mazàrlo; el Tòfol, vedèndo ‘l só padrón entel perìcol, l’è nà col só cortèl adòs a chél nobile spòdec’. E sto cì, con tuta la ràbia che ‘l g’eva ent, el s’è voutà contra de el, e i la ‘nfrizzà con la spada. A véder enzì, el Lodovico, nó ‘l g’à pù vist, e l’à ‘mplantà la soa enla pànza del siór, che l’è crodà per tèra en fin de vita ensèma al pòer Tòfol. I róbleri del nobile, visto che l’era finida, i è s-ciampadi a giàmbe levade, smassacràdi: chéi del Lodovico redùti mal ancia lori, nó essèndoge pù ‘nzun da bàter, e per nó restàr empegoladi ‘ntrà la zènt, che zà la coréva ìo curiosa a véder, i è s-ciampadi da n’àutra banda: e ‘l Lodovico el s’è giatà ìo da só pòsta con chéi dói mòrti per tèra, en mèz a tuta ca fóla.



«Com’èla stada po’? ― L’è un. ― I è dói. ― El g’à fat n’àsola ‘n la panza. ― Cì èl po’ che i à mazzà? ― Chel spòdec’. ― Oh, Maria Vèrzine, che gazèr! ― Cì che se le zércia i le trova. ― Basta na bòta e le pàges tute. ― L’à ruà ancia el. ― Che cólp! ― L’è na bruta fazènda. ― E chel’àuter disgrazià! ― Iòs! Che spetàcol! ― Salvàlo, salvàlo. ― L’è metù mal ancia el. ― Nó ‘l vedèo no come che l’è conzà, el pèrt sanc da tute la man. ― Che ‘l s-ciàmpia, che ‘l s-ciampia. Che nó ‘l se làgîa zapàr.»

Tute ste paròle, l’era chele che se sentìva mèio en tuta ca trebiliana de la fóla e le voléva dir tute la stessa ròba; e, col consìlio de calchedun, è nù di fato ancia l’aiùt. Chel fato l’era suzèst vizìn a na glésia dei capuzini, che l’era, come tuti i sa, el refugio pù segùr per nó fàrse zapàr dai sbìri, e da tut chel complesso de ròbe e de zènt che se clamava zustìzia. El Lodovico ferì e che l’era perdù via, l’è sta portà da la zènt en ca glésia; i frati i l’à tot da le man del pòpol, con la racomandazión: «l’è ‘n gialantòm, l’à copà ‘n lazerón supèrbo: i l’à fat per difènderse: i l’à tirà ‘n mèz per i ciavéi».


Prima de chel dì el Lodovico nó l’éva mai copà ‘nzun; e, ancia se i delìti a chéi tèmpi i suzzedeva de spes, e che tuti i era usadi a sentìr dìr de copaménti, epur a véder chel’òm che era mòrt per salvàrlo, e l’àuter che i l’éva copà pròpri el, l’à bù n’impressión che nó i l’éva mai provà prima. El só nemìzi per tèra con la fazza che l’era passada de cólpo da furiósa e ciatìva a mòla mòla da mòrt, l’è sta na ròba che g’à cambià enten àtimo, la só cossiènza. Strozzegià al convènt, nó ‘l seva nancia el endo che l’era, e chel che ‘l feva; e cando che ‘l s’è fat fòra el s’è giatà enten lèt de l’infermerìa, en le man de ‘n frate zerùdec’ (de sòlit i frati capuzìni i gé neva un per ogni convènt), che ‘l gé metéva su fasséte su le dói ferìde che l’éva zapà ‘ntel regòi. L’incombènza de chel padre l’era de assìster chéi che era en fìn de vita, e l’era nà de spés per le strade a far sto servìzi, e ancia sto bòt i l’éva clamà sùbit endo che g’era sta la barùfa. Cando che l’è tornà de vòuta ente l’infermeria del convènt, l’è nà dausìn al lèt endo che i eva metù el Lodovico l’à dit: «consolàve,» «almén l’è mòrt confessà, e ‘l m’à dit che ‘l vé perdona e de domandàrve ‘l vòs perdón». Al pòer Lodovico ste parole le g’à fat nir en mént ancor de pù l’angóssa e ‘l rimòrs per chel che l’éva combinà, e ‘ntel stes tèmp na gran compassión per chel’òm che l’éva copà. «E l’àuter?» l’à domandà po’ al frate.





L’àuter l’èra apena mòrt, cando che son arivà mì.»

E ‘ntànt fòr dai portóni e ìo ‘n ziro al convènt, s’era binà en mùcel de curiosi: però apena che è arivà i sbiri i à parà via tuta ca zènt e i s’è metùdi vizìn al portón, en modo che ‘nzun podés nir fòr senza che ‘l fus vìst. En fradèl del mòrt, dói só cosìni e ‘n só zio anziàn, i s’era presentàdi armadi ‘n fin ai denti con dré na sclapada de róbleri; i s’èra metùdi a far la guardia ìo intorn e i osservava, col far da spòtici, i curiosi che s’era binà ìo e che nó i fidava a dir: la gé sta ben; ma i lo géva scrìt su la fazza.


Apena che ‘l Lodovico el s’era tirà su, l’à clamà ‘n frate confessór, e ‘l g’à domandà ‘l piazér de zerciàr la vedova del Tòfol, e de domadàrge perdón a só nòm per èsser sta la ciàusa, ancia se nó i l’éva volèsta, de chel che era suzèst, e, ‘ntel stes tèmp, che ‘l giaveròs pensà el a mantègner la famìlia. Pù che ‘l pensava ai só fastìdi, pù gé nidéva ‘l desidèri de farse frate, pensiér che g’era nù àutre bòte per el passà: gé pareva che ‘l Sioredio ‘n persona i l’aves metù su ca strada ìo dàndoge ‘n segn de la só volontà, fasèndolo ciapitar ‘nten convènt, pròpri ‘nchel momènt, e l’à fat la sèlta. L’à fat clamàr el frate guardian, e ‘l g’à confessà ‘l só desidèri. Per risposta, el g’à dit che ‘l doveva star atènto a tòr dezisión senza pensàrge su; se però l’era pròpri chel che ‘l desiderava, nó i l’avròs refudà. E alor, l’à fat nir en notaio, ‘l g’à ‘ndetà na donazión de tut chel che ge restava (che l’era ‘n gran patrimòni) a la familia del Tòfol: na sóma a la védoa come se ‘l fus na contradòta, e ai òt fiòi del Tòfol ‘l rèst che l’éva lagià.



La sèlta del Lodovico l’èra zùsta al vèrs per i frati, che, avèndol ospità, per colpa sóa i géva na bèla rògna. Mandàrlo fòra dal convènt voleva dir méterlo en le man de la zustìzia, che l’era come dàrgel en bócia ai só nemìzi e chésto nó se podéva nància tòrlo ‘n considerazión. Avròs volèst dir che i frati i perdeva tut el crèdit che i géva col pòpol e po’ i saròs stadi critegiàdi da tuti i capuzìni de l’univèrs per aver volèst trasgredìr el dirìto de tuti, i se saròs tiràdi adòs el fastìdi del Vésco che ‘l se sentiva ‘l tudór de chel dirìto. Da l’àutra, la famìlia del mòrt, che l’era potènta assà e che la géva ancia aleati nòbili e che la géva l’intenzión de vendiciàrse, e tuti chéi che se fus metùdi per travèrs i l’avròs consideradi nemìzi. Sta storia però nó la dis che ai parènti gé ‘nteressàs tant del mòrt e nó ‘mpar nancia che i abia planzù pù che tant: la storia la dis sol che tuti i era ciàudi per avér tra le man el sassìn o vìo o mòrt. Sicome sto sassìn l’era deventà frate capuzìn, el comodàva via ogni ròba. Enten zèrto modo l’era come se ‘l se fus pentì, come se ‘l se fus dat da só pòsta la punizión, el se togéva la colpa de tut, e ‘l se ritirava dal mondo, ensoma l’era ‘l nemìzi che eva molà le armi. E po’ ancia i parènti del mòrt i podeva, se i voleva, vantàrse che ‘l Lodovico l’era nà frate perché l’era desperà e per el terór de èsser vendicià. At ogni modo, véder sto òm redùrse a pèrder tut chel che ‘l géva, tosàrse la testa, ciaminàr coi pèi descóuzi, dormìr su ‘nten paión, vivér a domandàr la ciarità, el podéva èsser en bel castìgo, ancia per l’oféso pù orgoliós.



El padre guardiàn el s’è presentà dal fradèl del mòrt, con la só umiltà sclèta e dopo mili complimenti a ca famìlia lustrissima, e promesse de far tut chel che l’era possìbol far per contentàrla, el g’à parlà del pentimént del Lodovico, e de la só sèlta de fàrse frate, fasèndoge ciapìr sóta sóta che la só famìlia la podeva èsser contenta e che comunque che gé plasés o nó, gè voleva tòrla come na ròba ormai fata. El fradèl el déva la testa ‘ntéi muri, e ‘l capuzìn el lagiava che se smamìs tut, e ogni tant, per tègnerlo calmo, el diséva «l’è ‘n dolór massa zust». Comunque l’à fat entènder che la só famìlia l’avròs fat tut per tòrse na sodisfazión: e ‘l frate guardian, qualunque ‘l fus stà la só opunión, nó ‘l g’à dit de no. A la fìn l’à domandà che chel che eva copà só fradèl el fus spedì for da la zità. El guardian, che l’éva zà stabilì chesto, fasèndo a finta de ubidìrge ‘l g’à ‘mpromès che i l’avròs mandà ente n’àuter convènt, e la fazènda la s’è ruàda ìo. Contenta ca famìlia, che la ge ‘n nidéva fòr con tut el só onór; contenti i frati che i eva salvà n’òm e ancia ‘l bòn nòm e senza fàrse nemìzi; contènti chéi cavalieri dal bòn marcià che i à vist n’afare che ‘l s’era ruà su benón, contènt el pòpol che la à vist chel’òm benvolù da tuti ciavà fòr da le rògne, e che l’era stimà ancia per la só conversión, e sóra tut era contènt el Lodovico, che pur entél dolór el scomenziava n’àutra vita de penitènza e al servìzi dei àutri, che la podés se nón varìr del tut, almen pagiàr el malfat e slizerìr el rimòrs. El géva ‘l sospèt che la zènt la pensàs che la só dezisión de nar frate i l’avés tòta per paura; ma la g’è passada sùbit, pensàndo che ancia se i l’aves empensada ‘nzì, l’era na zusta punizión, na penitènza che ‘l se meritava. A sto modo a trent’ani, l’à metù la tònegia; e dovèndo cambiar nòm, per tòrnen n’àuter, el n’à sèlto un che gé recordàs ente ogni momént, la penitenza che ‘l géva da soportar: e ‘l s’à clamà fra Tòfol.





Apena finì la funzión e che ‘l s’era metù la tònegia da frate, el guardian el g’à ‘ntimà che ‘l saròs nà a far el noviziàt a ***, zènto chilometri lontàn, e che ‘l saròs partì el dì dré. El frate l’à fat na gran svérgla, e l’à domandà ‘n piazér. «Permetéme, padre, che prima de partìr da sta zità endo che ài copà n’òm, e ‘ndo che rèsta na famìlia che ài oféso tant, che pòdia almen consolàrla, che pòdia almen fàrge véder el gran dispiazér che g’ài de nó podér remediar al dan, che pòdia domandàrge scusa a só fradèl de chel che ài copà, e che ‘l Sioredio se i lo vorà el gé fagia passar el rancór.» Al guardian gé pareva che ‘n pas enzì, estra che èsser bòn, el podeva conzìliar sèmper de pù ca famìlia col convènt; e l’è nà sùbit da chel siór, a dìrge del desidèri de fra Tòfol. El nobile nó ‘l se spetava sta domanda e ‘l sa fat gran maravéa, da na banda g’è nù ancór de pù ‘l nervóso, ma da l’àutra g’à fat ancia piazér. Dopo avérge pensà su n’àtimo, «Che ‘l vègnia doman», el dis e po’ ‘l g’à dit l’ora. El guardian l’è tornà de vòuta e ‘l g’à dit a fra Tòfol che i eva azetà de véderlo.


Chel nobile l’à pensà sùbit de dir a tuti de ca pòsta col frate, perché ‘nzì ‘l só crèdit enla só famìlia e ancia ‘ntra la zènt el saròs cressù; e per de pù ‘l saròs sta na bela pazìna ente la storia de la só zenìa. El g’à fat savér en prèssa a tuti i parènti che ‘l dì dré a mezdì i se fus tegnùdi liberi che i era ‘nvidadi a só ciasa. A mezdì ‘l palàz l’era ‘n formigiàr de sióri e sióre vècli e zóni: en ciarnevàl de gran mantèi, de plume e de spade scorlànt, en mòverse lizér de coléti inamidadi a plegiòte, en strozzegiàr de palandrane ricamade.




Le ciàmere, el cortìu e la strada l’era ‘n formigiàr de sèrvi, de giarzóni, de róbleri, e tanti curiosi. Fra Tòfol el s’è acòrt de chel bordèl e ‘l s’è ‘mmazinà sùbit la ciàusa e g’è nù ‘l pipacùl; ma dopo ‘n pezzòt, l’à pensà ― Ben ben: l’ài copà ‘n piazza a la presènza de tanti só nemìzi: l’è stà ‘n scàndol e chésto l’è ‘l castìgo. ― E alór coi òcli bassi, ensèma al frate che lo compagnàva de flànc’ l’è passà dal portón de ca ciasa, l’à traversà ‘l cortìu tra tuta ca fóla sfazzada che i lo vardàva da la testa ai pèi; l’è nà su per le s-ciale e ‘n mèz a n’àutra fóla de sióri che cando che ‘l passàva i sé féva da na banda, tuti i ló osservàva e a la fin l’è arivà dinanzi al padrón de ciasa; sto cì, zircondà dai parènti pù strénti, l’era ìo en pè su drit en mèz a la sala, el vardàva per tèra col barbizòl per aria, con la ‘nzància el struciàva el mànec’ de la spada, co l’andrìta el strenzéva el bàver del mantèl sul stómec’.



A bòte sé vét sùbit sul mus e ‘ntéla condóta de n’òm, chél che ‘l sènt énter enla só cossiènza, e na fóla che i lo vedéss, tuti i daròs el stés zudìzi. Ancia ‘l mus e ‘l portamént de fra Tòfol i mossàva clar a tuti chéi che g’era ìo presenti, che nó ‘l s’èra fat frate e nancia che ‘l fus ìo ‘nchél pòsto per paura e chesto l’à scomenzià a méterlo d’acòrdi con tuti. Cando che l’à vist el fradèl de chel che l’éva copà, l’à pessegià e ‘l s’è metù ‘n zinoclón ai só pèi, l’à metù le man a crós sul stómec’, e sbassàndo la pelàda l’à dit ste paròle: «mì son chel che à copà só fradèl. El Sioredio ‘l sa che gé ‘l daròssi de vòuta ancia a costo de morìr mì; però nó podèndo far àuter che domandàrge scuse inutili e tardìve, el sùplichi, per amor de Dio, de azetàrle». Tuti i òcli i era per el novìzi e per l’òm che ló scoutàva; tuti i era con le récle su drìte. Cando che fra Tòfol l’à ruà de parlar l’è levà su ‘n pè, e per tuta la sala se sentìva ‘n sussùrar de pietà e de respèt. El nòbile che ‘l cognéva mossàr bontà al pòer frate, ma che ‘l tegnìva scònta la rabia, l’era restà da che paròle; sgobàndose zó vèrs el zinoclatòri ‘l dis: «l’ofésa… el fato… ma la telàra che portào… ma nancia sól per chésto, ancia per voi… Padre levà su… Me fradèl… nó pòdi negiàrlo… l’era ‘n cavaliér… l’era n’òm… en pòc’ ribèle… en pòc’ nervós. Ma tut ciàpita per volér del Sioredio. Nó se ‘n pàrlia pù… Ma padre, nó ‘l stàgia ìo ‘nzinoclà». Po’ i l’à zapà per i brazzi e i l’à tirà su. Fra Tòfol en pè ma sèmper coi òcli bassi l’à respondù: «ma mì alór pòdi sperar che el ‘l m’àbia perdonà! E se g’ài el perdon da el, da cì èl po’ che nó pòdi speràrlo? Oh, se podéssite sentìr da la só bócia sta parola, perdón!»



«Perdón?» el dis el nòbile. «El nó ‘l gé n’à de bisògn. Ma sicome i lo desìdera, segùr, segùr, mì gé perdóni de tuto còr, e tuti…»

«Tuti, tuti!» i zigiàva ensèma i presènti. Sul mus del frate s’à vist sùbit na gran sodisfazión, ma se vedéva ancia tanta umiltà e dispiazer per el mal che l’éva fat e che sol el Sioredio podèva conzàr. El nòbile, el s’è ‘ngropà, el g’à trat i brazzi al còl, e ‘l g’à dat e l’à rizevù el bas de la paze.


Da tuti i ciantóni del salón s’à sentù: «brao! benón!» e tuti i s’è svizinadi al frate. Entant e nù i sèrvi, con tanta de ca ròba bona da magnar e da béver. El nòbile el s’è tirà da na banda col fra Tòfol, che ‘l féva ségn de volér nàrsen e ‘l g’à dit: «padre el se tògîa su ancia el vergot; el me dàgîa na prova de amicizia». E i l’à servì prima de tuti i àutri; ma el el s’è tirà da na banda, da bòn òm benarlevà, «ste ròbe,» ‘l dis «nó le è pù per mì; però nó vòi nancia refudar i vòssi regiài. Son dré a partìr: se pròpri ‘l vòl el mé fàgîa portar en panét, da podér dir che ài godèst de la vòssa ciarità, de aver magnà ‘l só pan, e de aver bù ‘l vòs perdon». El nòbile sèmper engropà, l’à ordenà che i gé portàs el pan, è ciapità sùbit en cameriér, tirà come ‘n ciauzzòt, che g’à portà ‘l panét su ‘nten piat de arzènt e i gé l’à presentà al padre, che i l’à tòt la ringrazià e i l’à metù ‘nla bussacia. Po’ l’à domandà de podér nàrsen, l’à brazzà de nòu el padrón de ciasa, e tuti chei che g’èra ìo dausìn e per liberàrse l’à fat en pòc’ de fadìgia; l’à cognèst combàter ancia ‘nle anticàmere per tòrse via dai servi e ancia dai róbleri che i gé basava la tònegia, ‘l cordón, el ciapùz; el s’è trovà ‘nla strada portà come ‘n trionfo, compagnà da na fóla de pòpol, enfìn al portón de la zità; e l’à scomenzià a nar a pè vèrs el posto endo che l’avròs fat el só noviziàt.



El nòbile, fradèl del mòrt, e tuta la parentèla che i se spetava de godérse l’orgòi de smusàr el padre Tòfol, i s’è trovadi ‘nveze contènti del perdón e de l’indulgenza vèrs chel frate. La compagnìa l’è stata ìo ancór per en pèz en alegrìa e calma come nó era mai suzèst, a far discorsi che prima de nar ente ca ciasa ‘nzun s’èra ‘mmazinà de far. Envéze de tòrse la sodisfazión de umiliàr e de vendicàrse, i discorsi i era tuti per lodar el novìzi, per èsser nadi d’acòrdi, per aver bù passienza. Calchedun che per la zincantesima bòta l’avròs contà ca storia del conte Muzio só pare, che ‘l géva strupà la bócia al marchés Stanislao che l’era chel bulo che tuti i cognoss, enveze i eva discorèst de le penitenze, e de la passiènza straodenaria de ‘n fra Simón mòrt tanti ani prima. Partìda che l’era la compagnìa, el padrón, engropà, el pensava ancor con maravéa, chel che l’éva ‘mparà, e chel che pròpri el l’éva dit; e ‘ntrà i denti ‘l brontolava: ― can da l’òstrega de ‘n frate! (gè vòl che scrivégen le só paròle prezìse) ― diàolo de ‘n frate! se ‘l restàva ìo ancora ‘n pezzòt en zinòcel, scàsi scàsi gé domandàvi scusa mì, che ‘l m’eva copà ‘l fradèl. ― La nòssa storia la conta pròpri che da chel dì, chel siór l’è sta en pòc’ pu prudente, e ‘n pòc’ pu a la man.




El padre Tòfol el ciaminava, con na consolazión che dopo chel dì tremendo nó l’avròs pù provà, e che per scanzelàrlo el doveva consacrar tuta la só vita ‘ntrégia. Ogni novìzi ‘l géva la consegna del silènzio, e i lo rispetava senza nascòrzerse, tanto l’era intento a pensar a le fadìge, ai sacrifìzi, e le umiliazión che l’averòs patì per scanzelàr el só pecià. El s’è fermà, entórn a mezdì, da ‘n benefatór e l’à magnà con en zèrto apetìt el pan del perdón; ma ‘l n’à sparagnà en tòc’, e i l’à metù ‘nla bussacia, con chela de tègnerlo per sèmper come ‘n recòrt.


El nòs scòpo nó l’è chel de contàrve la storia de la só vita da frate, disén sol che l’osservava, sèmper con bòna volontà e gran riguardo i servìzi che i ge deva ordine de far, de prediciàr, e de assìster i maladi en fin de vita e ‘l vardava ancia de far àutre opere bòne che ‘l s’eva ‘mpensà el: comodar le bègie, e protézer i perseghitàdi. L’era chésto ‘l só talènt, e senza che ‘l se n’ascorzés, el mossava ancor la só vècla abitudine, e ‘n svanzaròt de spìrit da bulo, che le umiliazión e le penitènze nó le era stade bòne de smorzar dal tut. Can che ‘l parlava de sòlit l’era calmo e cossienziós; ma cando che se tratava de zustìzia e de verità combatùda, l’òm el se azitava de colp, come prima de nar frate e ‘l cognéva sforzàrse de star calmo. Tuta la só condóta e ‘l só portamént i mossàva da na bànda ‘n caràter sfèrs, rebùf, e da l’àutra na volontà che de sòlit la venzéva, el steva sèmper con le récle su drìte. En só compàgn e amìzi, che i ló cognosséva ben, en bòt i l’éva paragonà a che paròle, come che se dìs malgrazióse, che a bòte i le pronunzia ancià i pù benarlevadi, magiàri coi denti strénti, ma che però le se fa ciapìr benón come cando che le è dite ‘ntrége.





Se na pora putèla che nó 'l cognosseva nancia, come ‘ntel caso de la Lùzia, l’avés clamà 'l só aiùt, el saròss córs en prèssa.

Sicóme po’ èstra l’era pròpri la Lùzia, el s’è presentà ancór pù segùr, perché i la cognosséva e i la prezziava per el fato che la fus nozènta, e l’era zà ‘n pensiér per i perìcoi che la n’éva ‘ncontra, e ‘l géva na santa rabia per ca angiarìa che g’èra ciapità. Per àuter, sicome i l’éva consigliada el, per redur el pézi, de nó far véder engot, e de star ìo calma, el géva paura che chel consìli l’avéss procurà calche efèto stòrt; e alór a la prèssa de far en piazér che i lo géva ‘ntél sànc, ente sto caso se taciàva 'l scrùpol angóssiós che de spes tormenta la bòna zènt.


Entant che sen stadi ìo a contàr la storia de padre Tòfol, l’era arivà e l’à vardà ent da l’us; le doi feumne, le à molà l’aspi che le era dré a far ziràr e sgringenar, le è levade ‘n pè, e le à dit ensèma: «oh padre Tòfol! Che ‘l sia benedét!»


Capitolo V

Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e appena ebbe traguardate le donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non erano fallaci. Onde, con quel tuono d’interrogazione che va incontro ad una trista risposta, levando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: “e bene?” Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a fare scusa dell’avere osato...., ma egli si avanzò, e postosi a sedere sur un deschetto a tre piedi, troncò tutte le scuse, dicendo a Lucia: “quietatevi, povera figliuola. E voi,” disse poi ad Agnese, “contatemi che cosa c’è!” Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua trista relazione, il frate diventava di mille colori, e quando alzava gli occhi al cielo, quando batteva i piedi. Terminata la storia, si coperse il volto con ambe le mani e sclamò: “o Dio benedetto! fino a quando....!” Ma senza compiere la frase, rivolto di nuovo alle donne: “poverette!” disse: “Dio vi ha visitate. Povera Lucia!”
“Non ci abbandonerà, padre?” disse questa, singhiozzando.
“Abbandonarvi!” rispose. “E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un... Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.”
Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi. — Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta. — Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
“Le hanno detto..., padre?” gli domandò Renzo, con voce commossa.
“Pur troppo; e per questo son qui.”
“Che dice di quel birbone...?”
“Che vuoi ch’io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t’abbandonerà.”

“Benedette le sue parole!” esclamò il giovane. “Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse...”
“Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò.”
“Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?... bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano...” A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’andava intrigando e imbrogliando: “volevo dire... non intendo dire... cioè, volevo dire...”
“Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici... quali amici!... che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure...” A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione solenne, gli occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: “quando pure... è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?”
“Oh sì!” rispose Renzo. “Quello è il Signore davvero.”
“Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti lascerai guidar da me.”
“Lo prometto.”
Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: “bravo figliuolo.”
“Sentite, figliuoli,” riprese fra Cristoforo: “io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete.” Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S’avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare.
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro. — Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli disse: “padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male.”
Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse: “non è lei... il padre Cristoforo di Pescarenico?”
“Per l’appunto.”
“Lei qui?”
“Come vedete, buon uomo.”
“Sarà per far del bene. Del bene,” continuò mormorando tra i denti, e rincamminandosi, “se ne può far per tutto.” Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s’aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, “ehi! ehi!” gridò: “non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti.”
Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poichè lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: “venga, padre, venga.” Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali.
L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.
“Da sedere al padre,” disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. “Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza,” soggiunse poi, con voce più sommessa, all’orecchio di don Rodrigo.
“Bene, bene, parleremo;” rispose questo: “ma intanto si porti da bere al padre.”
Il padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: “no, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi.” Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
“L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei;” riprese a urlare il conte Attilio: “perchè quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione...”
“Ma questo” replicava, non meno urlando, il podestà, “questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacchè il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto…”
“Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime...?”
“Con buona licenza di lor signori, ” interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti: “rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza. ”
“Bene, benissimo,” disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata il far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate.
“Ma, da quel che mi pare d’aver capito,” disse il padre, “non son cose di cui io mi deva intendere.”
“Solite scuse di modestia di loro padri;” disse don Rodrigo: “ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.”
“Il fatto è questo,” cominciava a gridare il conte Attilio.
“Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino,” riprese don Rodrigo. “Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta...”
“Ben date, ben applicate,” gridò il conte Attilio. “Fu una vera ispirazione.”
“Del demonio,” soggiunse il podestà. “Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.”
“Sì, signore, da cavaliere,” gridò il conte: “e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perchè le premano tanto le spalle d’un mascalzone.”
“Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.”
“Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo...”
“Risponda un poco a questo sillogismo.”
“Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo...”
“Piano, piano, signor podestà. ”
“Che piano?”
“Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. — E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perchè non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?”
“Io...” rispose confusetto il dottore: “io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice... qui il padre...”
“È vero;” disse don Rodrigo: “ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?”
“Ammutolisco,” disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione.
“Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre,” disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.
“Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo,” rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.
“Scuse magre:” gridarono i due cugini: “vogliamo la sentenza!”
“Quand’è così,” riprese il frate, “il mio debole parere sarebbe che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate.”
I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati.
“Oh questa è grossa!” disse il conte Attilio. “Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.”
“Lui?” disse don Rodrigo: “me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?”
In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sè medesimo: — queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto.
“Sarà,” disse il cugino: “ma il padre... come si chiama il padre?”
“Padre Cristoforo” rispose più d’uno.
“Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.”
“Animo, dottore,” scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, “animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.”
“In verità,” rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, “in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.”






Pròpri ‘l padre Tòfol el s’è fermà su drìt su la sòlia, e apena vìst le feumne, l’à dovèst nascòrzerse che le so sensazión le era propri come che ‘l se leva ‘mmazinàde. Sichè la domandà, auzzando la barba lòngia col zèsto de trar endré la testa, e savèndo zà che la risposta la era trista e ‘l dis: “e alor?” La Lùzia sùbit l’a s’è metùda a plànzer. So mama la s’è fata avanti con chela de domandàrge scusa…, ma ‘l padre el s’è sentà zó su ‘n scagnèl a trei pèi, l’à fermà sùbit che scuse, disèndoge a la Lùzia: “ste calma, pòra fiòla. E voi,” el dis po’ a l’Agnés, contàme chel che g’è!” Entant che ca la bòna dòna la gé contava pù ben che la podéva la situazión, el frate ‘l deventàva de mili colori, e ogni tant l’auzzàva i òcli su sót, o ‘l batéva i pèi per tèra. Ruà la storia, ‘l s’è scuertà la fazza con tute dói le man e l’à sclamà: “o Dio benedét! enfìn a cando…!” Ma senza finìr che parole, el g’à dit a che pòre feumne: “poréte, el Sioredio l'à volèst méterve a la prova. Pòra Lùzia!”.
“Nó ‘l ne abandonerà migia, Padre?” la dis la Lùzia sanglotànt.
El padre l’à respondù: “Arbandonàrve! con che fazza poderòssite po’ domàndar al Sioredio vergot per mì se ve arbandonàssi? voi ente ste condizion! pròpri voi che Chel su sora ‘l me consegna! Nó ste disperàrve: che ‘l Padreterno ‘l vàrda ‘n zó: el vét tut: El el pòl dopràr ancia ‘n pòr òm d’angot come che son mì per confónder en… Vardàn, pensàn a chel che se pòl far.”
Entant che ‘l parlava, l’à pozà ‘l gómbet anzànc’ sul zinòcel, l’à metù ‘l vis enla man, e con l’andrìta l’à strucià la barba e ‘l barbizzòl, come per tègner ferme e ‘nsema tute le potenze de l’anima. Ma pù che ‘l ge pensava su con atenzión e pù ben el se nascorzéva che ‘l caso l’era pròpri complicà, e cant che i era s-ciarsi, dubiosi e malsegùri i remèdi. — Mèterge ‘n pòc’ de vergògna a don Abondio e fàrge ciapìr che nó ‘l feva ‘l só dovér? La vergògna e ‘l só dovér nó i conta ‘ngot per el, che l’è plén de riòma. E fàrge paura? Ma che paura pòdite fàrge po’ mì che la sia de pù de na szopetada? Dìrge tut al Cardinal Vesco, e supliciar la só otorità? Gé vòl en mùcel de tèmp: e po’, che far po’ ‘ntant? E dopo? E ancia se ‘l fus che sta pòra putèla nozènte la podés maridàrse, saròssel assà per fàrgela passar a chel ‘òm? Cissà chel che poròs combinar? E dàrge contra? Ma come po’? Ah, se podéssite, se podéssite tirar da la mia i frati de cacì, chéi da Milan, el pensava ‘l pòver frate! Ma! nó l’è n’afàre da tuti i dì; resteròssi da me pòsta arbandonà. Chel galiòto ‘l fa véder de èsser amìzi del convent, ‘l fa véder de èsser protetór dei zocolanti: e i só róbleri nó èi nudi pù de ‘n bòt a refugiàrse da noiàutri? Saròssi mì sol sul bal; me zaperòssi ancia del ribèle, de l’embroión che vòl méter el bèc’ entei afari dei àutri, de un che tàcia rògne; e, per nó dir che forse poderòssi ancia far pù dani che àuter con na mòssa sbagliada per la situazion de sta pòra putèla. — Pesà per bèn tut chel che l’era ‘l bòn e ‘l trìst de tute le ‘mpensade, la ròba mióra da far g’à parèst chela de ‘nfrontar pròpri don Rodrigo, e vardar se l’era bòn de fàrge passàr chel brut pròposit, col pregiar, provar, se fus possìbol a spaventàrlo metèndoge dinanzi l’infèrn. A la malparàda se poròss almen véder enfìn endo che ‘l poròs arivar entele so mire, ciapìr de pù de le so intenzion, e da ìo tòr na soluzion.

Entant che ‘l frate l’era dré a masnar tuti chei pensieri, ‘l Renzo, che nó l’era bòn de star lontan da ca ciasa, e ognun pòl endovinar el perché, l’è ciapità su l’us; ma, vìst el padre sora pensier, e le dòne che gé feva ségn de nó disturbàrlo, ‘l s’è fermà su la sòlia, en silenzio. Auzzà ‘l vis, per dìrge a le feumne chel che ‘l geva ‘n ment, el frate ‘l s’è acòrt che ‘l g’èra ìo e i l’à saludà enten modo che voleva fàrge sentìr la sòlita afezión, ancor pù sinzéra perché ‘l ge feva ancia pecià.
“Giàle zà dit…, padre?” El g’à domandà ‘l Renzo, con la ós engropada.
“Purtròpo; l’è ben per chel che son cì.”
“Che dìgel po’ de chel lazerón…?”
“Che vòs che te digia po’ de chél mostro? Nó ‘l g’è cì a sentìr: che serviròssele po’ le me parole? Te ‘l dìgi a tì Renzo, tì che te fìdes del Sioredio, e che ‘l Sioredio nó ‘l te arbandonerà mai.”
“Benedéte le só parole!” l’à sclamà ‘l putèl. “El nó l’è de segùr de chei che ge dà sèmper tòrt a la pòra zènt. Ma ‘l siór curat, e chel siór dotór da le ciàuse pèrse…”
“Nó vai a remenàr chel che nó pòl servìr a àuter che azitàrte ancor de pù e per engot. Mì son en pòer frate; ma te digi de nòu chel che g’ài zà dit a ste feumne: per tut chel che pòdi, vardi de nó arbandonarve.”
“Oh, el nó l’è de segur come i sòliti amìzi! Zacolóni! Cando che la neva per el vèrs zust, i era tuti pronti ancia a zontàrgela per mì; ah sì, sì… i saròs stadi da la me part ancia contra ‘l diàul. Se avéssite bu ‘n nemìzi?... bastava che ge l’avéssite fat ‘ntènder; e l’avròs ruà sùbit de magnar pan. E adès, se ‘l vedés come che i se tira ‘ndré…” Enchel momént, auzzàndo i òcli vèrs el padre, l’à vist che l’era tut preocupà, e l’à ciapì sùbit de aver dìt chel che l’era mèio tàser. Volendo comodàrla via, ‘l se ‘ntrigiava e ‘l se ‘mbroiava co le so man: “volevi dir… nó volevi dir… putòst, volevi dir…”

“Che voléves dir po’? Che po’? tì che evés zà scomenzià a far nar de mal el me prozèto, prima ancor de scomenziàrlo via! Bòn per tì che te sés rendù cont en tèmp. Che! Tì néves a zerciàr amìzi… che amìzi estra! Che nó i t’averòs podèst aidàr, nancia se i voléva! E zerciàves de pèrder Chel sol che pòl e che vòl aidàrte! Sas no che ‘l Sioredio l’è amìzi de chei che trìbula, che se fida de El? El sas no che a tiràr fòr le óngle el por òm nó ‘l gé vadàgna mai? E ancia se ‘l fus…” A sto punto, l’à zapà per en braz el Renzo struciàndogel fòrt: el só aspèto, senza perder la severità che ‘l geva, el mossàva ‘n gran dispiazer, l’à sbassà i òcli, la só ós l’è deventada lènta e fonda come sotatèra: “ancia se fus… l’è ‘n gadàgn tremendo! Renzo! te fìdes de mì?... ma no che dìgite su po’, de mì, che son ‘n omét, en fratìn? Vòs fìdàrte del Sioredio?”
“Ma segùr!” à respondù ‘l Renzo. “Chel l’è ‘l vero Sior.”
“Bòn; alor emprométeme che nó naràstus a ‘nfróntar o a zinzegiàr enzun, che te lageràstus guidar da mì.”
“L’amprométi.”
La Lùzia l’à fat en gran sospìr, come se i giavés tòt via cissà che ciàrgia da adòs; e l’Agnese la dis: “brào putèl.”
“Sentìme, putèi,” dis el fra Tòfol: “mì ancòi narài a parlàrge a chel’òm. Se ‘l Sioredio ‘l gé tócia ‘l còr, e ‘l ge dà forza a le me paròle, ben: se no, Chel su sora ‘l ne darà modo de giatàr n’àuter remèdi. Voi entant, sté cì dabèni, dénter da le vòsse porte, vardà de nó baderlar con enzuni, nó féve véder. Stasera o al pù tardi doman matina, me farai véder mì.” E po', l’à zonclà tuti i ringraziamenti e le benedizión, e l’è partì. El s’è ‘nvià vèrs el convènt, e l’è arivà zust a ora a ciantàr la sesta entel coro, l’à disnà e ‘l s’è metù sùbit en viaz vers la tana de ca bèstia che ‘l voleva provàr a domestegiàr.
El palazòt de don Rodrigo l’era ‘n pòc’ fòr de man, l’era na sòrt de fortìn enzima a un de chei tanti dòssi sparpaiadi su ca costéra. Chel’un che à lagià scrìt sta storia, a sta notìzia (l’averòs fat meio scrìver el nòm) el ge tacia che sto posto l’era sora ‘l paesòt dei spósi lontan càter o zìnc’ chilometri e sei dal convènt. Ai pèi del dòs, da ca banda che vàrda vèrs mezdì e vèrs el lac’ g’era ‘n muclét de ciasòte, abitade dai contadini de don Rodrigo; l’era come la capitale pìzzola de chél regno pizzolòt. Bastava passàr ìo per ciapìr sùbit en che condizión che viveva ‘l paes. Dando n’oclada dent entei somassi de che ciase che le geva ‘l portón davèrt, se vedeva tacià sui muri szòpi, szòpi de chèi col trombón fòr enzìma, zape, restèi, ciapèi de paia, redesèle e fias-céti da la pólver, trati ìo ‘ncalche vèrs. La zènt che se ‘ncontrava l’èra tut oumnazi tracagnòti e ‘ngrintadi con en gran zuf rebaltà su la testa serà ent ente na redesèla; vècli che eva perdù le zane, che ‘mpareva sèmper pronti ancia sol a vardàrli a mossàr le zanzìve; donère con zèrte fazze da òm, e con zèrti brazzi giaiàrti pronti per nìr dopradi cando che la lénga nó l’era assà: e perfìn entei zògi che feva i pòpi per la strada se vedeva che g’èra vergot de sfazzà e de disonèst.


Fra Tòfol l’à traversà ‘l paesòt e l’è nà su per na stradèla a ghìda, e l’è arivà su ‘nte ‘n planét, dinanzi al ciastèl. La porta la era serada, ségn che ‘l padrón l’era dré a disnar e nó ‘l voléva èsser disturbà. Le pòce finestre che vardava su la strada le era putòst pìzzole e le geva i scuri a scorlón e smassacradi dal tèmp, però le geva le so ‘nferiade per difènderse, e chele che era al pianotèra le era ‘nzì àute che n’òm su le spale de n’àuter el saròs arivà su a stento. — Cacì g’era ‘n gran silenzio; un che fus passà per caso l’averòs pensà de èsser ente na ciasa arbandonada, se nó l’aves fat caso de fòra a càter creature, doi vive e doi morte che le podèva far sospetar che ge fus calchedun. Doi grant agolìni, con le ale spalancade e con la zùcia a spindorlón, un che eva perdù le plume e l’era mèz rozià dal tèmp, chel’àuter ancor bòn e con tute le só plume, tuti doi i era ‘ncloudadi sul portón; po’ su ‘nten doi bance che era ìo, doi róbleri sdravacadi un da banda e un da l’àutra che i féva la guardia e i aspetava de èsser clamadi per magnar i svanzaròti del siór padrón. El padre ‘l s’è fermà su drìt, e l’aspetava che calchedun i lo clamàs; ma un de chei doi galiòti l’è nù ‘n pè e ‘l dis: “padre, padre, ‘l vègnia pur avanti: cacì nó fen mai spetar i franzescani: noi sen amìzi del convènt: e mì son sta entel convènt, cando che de fòr per mì nó l’era aria bòna; e se i m’aves tegnù la porta serada, la saròss nada pròpri mal.”

Disèndo ‘nzì, l’à dat doi colpi col batòcel del portón. A sentìr chei bòti de là enter se à sentù sùbit urli e zìgi de ciagnazzi e ciagnòti; e po’ pocì momenti dopo, è arivà brontolant el vèzzo servo; ma come che l’à vist el padre, ‘l g’à fat en grant inchino, l’à vardà de tègner calme le bestie con le man e ancia con la ós, e l’à fat nar ént el frate ente’n cortìu putòst strentòt e pìzzol e l’à serà la porta. Po’ i l’à compagnà ente na saléta, e vardàndol con na zèrta maravéa e respèt, el dis: “ma èl… el padre Tòfol da Pescarenico?”

“Sì, son propri chel.”
“Pròpri el cì?”
“Come che vedéo, bòn òm.”
“El sarà per far del ben.” El seghitava a mormorar entrà i denti, e ‘nviàndose ancora, el dis: “del bèn, se pòl fàrnen dapertut.” Traversade doi o trei saléte scure, i è arivadi su l’us de la sala endo che i féva trigét. Cacì gera ‘n gran rumór desordenà de piróni, de cortèi, de bicéri, de piati, e pù de tut ós stonade, che le se deva sora una con l’àutra. El frate l’aròs volèst nàrsen e dré a l’us el chestionava col servo per far en modo che i lo lagiàs ente ‘n calche ciantón de la ciasa enfìn che i eva ruà de magnar, ma ‘nte chela s’è daverzù l’us. En zèrto conte Tìlio, che l’era sentà zó ‘n fazza (l’era só cosìn del padron de ciasa, e de chesto en zà dit senza nominarlo), come che l’à vist na crapa pelada e na tònegia, e come che ‘l s’è nascòrt che ‘l frate ‘l voleva spetàr enfìn che i eva ruà ‘l disnar, l’à zigià: “ehi, ehi! reverendo padre, nó ‘l né s-ciampia no: avanti, avanti. ”

Don Rodrigo, nó l’eva ciapì pròpri ben cì che l’era chel che era nù a trovarlo, epur, per no sai che impression, de ca visita l’aròs pròpri fat a men. Ma sicome chel materiós del Tìlio l’eva fat chel grant saluto, a él nó ge convenìva tiràrse ‘ndré; e alor ‘l dis: “el vègnia, padre el vègnia pur.” El padre l’è nà avanti, fasendo ‘n inchino al padron, l’à respondù con tute doi le man ai saluti de chei che era a tàula.
L’òm onèst dinanzi al crudél, en zènere ne plas (nó dìgi a tuti) emmazinàrsel con la testa àuta, con i òcli che vàrda segùr, drìt, col stómec’ en fòra, con na bòna parlantina. A dir la verità però, per fàrge tòr chel portamént ìo, ge vòl che ge sia tante robe metùde ensema, che però tute adùn le suzét pòce bòte. Sichè nó ste farve maravéa se fra Tòfol, pur con la só cosiènza pù che a posto, pur con chel fortìssim sentimént de zustìzia per ca càusa che l’era dezìso a sostègner, pur avendo ‘n sentimént misto de ribréz e de compassión per don Rodrigo, epur l’era ìo con na zèrta sudizión e plen de respét, pròpri davanti a don Rodrigo, che l’era ìo a tàula, a só ciasa, entel só règno, zircondà dai só amìzi, da tanti onori, e con tanti segni de la só potènza, frate Tòfol l’era ìo con en mus da far morìr su la bócia a chiunque en piazér o ‘n consìlio, na corezión, o na brontolada. Da na banda g’era sentà zó chel conte Tìlio che l’era só cosìn, e, se ocór dìrlo, l’era só sòzi de sbaracade e de brigantade, che l’era nù da Milan en vizilatura per pòci dì pròpri da el. A man zància da n’àutra banda de la tàula, gera ìo, con grant otorità, ma con na baldanza e ‘n zèrto sai-tut-mì, el siór podestà, pròpri chel che en pràtigia, ge saròs tocià de far zustìzia al Renzo Tramaglino, e a méter su l’atènti don Rodrigo, come s’à vist prima. En fazza al podestà, con en far da rufiàn come mai pù, gera sentà zó ‘l nòs dotor Azecca-garbugli, col tabàr néger, e col nas pù rós del sòlit: davanti ai doi cosìni, g’era doi òumni che nó se sa cì che l’era, e de chesti la nòssa storia la dis sol che nó i féva àuter che magnar, sbassar la testa, grignar e dir sèmper de sì per aprovar ogni ròba che aves dit un de chei a tàula, a men che n’àuter nó ‘l ge contradisés.



“Dége da sentàrse zó al padre,” dis don Rodrigo. En sèrvo l’à portà sùbit na ciarégia, e su chesta s’è sentà zó padre Tòfol, disèndo calche scusa al padrón per èsserse presentà ente n’ora sfazzàda. Po’ ‘l g’à dit con na ós setìla ente na récla a don Rodrigo: “Voròssi parlàrve a càter òcli, cando che ve fa còmot, per n’afare de na zèrta ‘mportanza.”

“Bòn, bòn parleren;” l’à respondù: “ma ‘ntant portàge da béver al padre.”
El padre ‘l voleva schivàrsela dal béver con ca zènt; ma don Rodrigo, l’à auzzà la ós en mèz a chel traboldéri che l’era scomenzià de nòu, e ‘l zigiava: “ma no, demóscol, nó ‘l me farà migia sto tòrt; nó s’à mai vìst che ‘n ciapuzìn l’è ciapinà da sta ciasa, senza avér tastà ‘l me vin, e nancia che ‘n seciacoioni che ge resti vergot senza avérge fat tastàr la legna dei me bós-ci.” Ste parole le à ciausà gran risade de tuti, e per en momént le à zonclà na chestion che se tratàva entrà cas combriccola. En sèrvo, portando su ‘nten cabarè ‘l fiàsc’ de vin e un de chei biceróni lòngi a forma de càlize, i l’à esebì al padre; chesto, nó volèndo far complimenti con l’òm che ge premeva tègnerse en bòna, el s’à trat fòr el vin e ‘l s’è metù a béverlo plan planìn.

“La stima del Tasso nó la val engot per la só resón, caro siór podestà riverì; anzi l’à ge va còntra,” l’à tornà a urlar el conte Tìlio: “perché chel’òm sapiente, chel grant’òm che l’era, che ‘l seva a menadé tute le régole de la cavalarìa, l’à scrìt che ‘l viàder de l’Argante, prima de sfidar i cavaliéri cristiani, l’avés bù da domandar el permés al bòn Buglione…”

“Ma ‘l Buglione” ge ribatéva, sèmper a urli, ‘l podestà, “chesto l’è ‘n de pù, en sèmplize de pù, n’ornament de ‘n poeta, perché ‘l viàder per só natura nó se pòl tociàrlo, come che dis el dirìto de tute le zènt del mondo, jure gentium: e, senza zerciàr tante ròbe, i lo dis ancia el provèrbi: el viàder nó ‘l porta pena. E i provèrbi, caro siór conte, l’è la sapienza de tute le zent. E ‘l viàder nó avèndo dit engot a só nòm, ma avèndo sol presentà la sfida scrita…”
“Ma vòlel ciapìr che chel viàder l’era n’àsen sventà, che nó ‘l cognosséva le regole del vìver…?”
“Col vòs permesso, cari sióri,” s’à ‘ntrometù don Rodrigo, che nó l’averòs volèst che ca chestión la nés inanzi massa: “domandan al padre Tòfol; e po’ che tuti i stàgîa al só decrèt.”
“Ben, benón,” dis el conte Tìlio, che ge pareva fus na ròba educada far dezìder na chestion de cavalarìa a ‘n ciapuzìn; però ‘l podestà, che l’era ‘l pù s-ciaudà ‘n ca discussion, el stentava a calmàrse, e l’à metù zó na zèrta fazzada che ‘mpareva che la voles dir: piazzarolàde.
“Ma, da chel che me par de aver ciapì,” dis el padre, “nó l’è robe che mi doròssi ‘ntèndermen no.”
“Le solite scuse de moderazion che tirào fòr voi padri;” ‘l dis don Rodrigo: “ma nó ‘l me s-ciamperà. Dai mò! el sen ben che el nó l’è nù al mondo con la tònegia adòs, el sa ben chel che l’è ‘l vìver del mondo. Dai, dai: la chestion l’è chesta.”
“El fato l’è che,” el scomenziava a zigiàr el conte Tìlio.
“Caro cosìn, lagiàme parlar mì, che son fòr da la chestion,” el dis don Rodrigo. “Eco la storia. En cavalier spagnòl l’à mandà na sfida a ‘n cavalier milanés: el viàder, nó avendo trovà ‘l destinatàri ‘n ciasa, l’à consegnà la sfida a só fradèl del cavalier; e sto fradèl l’à lezù la sfida, e ‘n tuta risposta l’à bastonà ‘l viàder. Se trata…”

“Ben date, ben sestàde,” à urlà ‘l conte Tìlio. “L’è sta pròpri na grant empensada.”
“Del demòni,” g’à tacià ‘l podestà. “Bastonar en viàder! Persona sacra! Ancia el padre, ‘l me dìgia se chesta pòl èsser n’azion da cavalier.”
“Sì, siór, pròpri ‘nzì, da cavalier,” zigiava ‘l conte: “e lagiàmel dir, che mì me n’antèndi de chel che ge convièn a ‘n cavalier. Oh, se ‘l fus sta pugni, saròs sta n’àutra fazènda; ma ‘l baston nó ‘l ge sporcia le man a ‘nzun. Chel che nó son bòn de ciapìr l’è perché ve prèm enzì tant le spale de ‘n lazerón.”
“Cì èl po’ che v’à parlà de le spale, caro siór conte? El ‘l me met en bócia spropòsiti che nó m’è nancia passà per le tane del zervèl. Mì ài parlà del caràter, no de le spale. Mi parli sora tut del dirìto che g’à le zènt. Ma per piazer, ‘l me dìgia cì ‘n pòc, se i viàdri che i antichi Romani i mandava a ‘ntimar le sfide ai àutri pòpoi e i domandava de podèr taciàr fòra ‘l pefèl. El me tróvia en scritór sol che l’abia scrit che ‘n viàder dei Romani ‘l sia sta bastonà.”
“Che g’ài da che far po' con noi i ufiziài dei Romani? zènt che néva a la bòna, e che ‘nte ste robe i era ‘ndré, ma ‘ndrè polìto. Ma a dar fé a le lezi de la cavalarìa d’ancòi, che l’è la pù zusta, dìgi convìnto che ‘n viàder che ‘l se risza a méterge ‘nle man a ‘n cavalier na sfida, senza avérge domandà ‘l permesso, l’è ‘n sfazzadón da castigar eccome se l’è da castigar, da bastonar, eccome se ‘l saròs da bastonar…”
“El me respòndia mò a sto rasonament.”
“Ma ‘l scóltia, ma ‘l scóltia, ma ‘l scóltia.” Bastonar un che l’è disarmà l’è n’ato da viliaco; atqui ‘l viàder de quo l’era senza armi; ergo…”
“Plan, plan, siór podestà.”
“Che plan po’?”
“Plan, ge digi: che nidéo a dìrme su po'? Ato da viliaco l’è ferir un con la spada, dal de dré, o sbaràrge na szopetada ‘nla s-cena: e, ancia per chesto, a bote se poròs… ma stente a la chestion. Améti che chesto el pù de le bòte ‘l pòdia clamàrse ato da viliaco; ma postàrge càter bèle bastonade a ‘n lazerón! La saròss ben bèla che ge voles dìrge: varda che te bastoni: come che se ge diròs a ‘n gialantòm: man a la spada. — E el, siór dotor riverì, enveze che grignàr sóta i bafi, per fàrme ciapìr che l’è da la mia, perché po’ nó ‘l sostègn le me resón, con la so bèla bàtola, per aidàrme a convìnzer sto siór?”

“Mì…” dis confondù el dotor: “mì me godi a scoutar sta discussiontra lezùdi; e ringrazi ‘l caso che l’à dat ocasion de na ghera tra gran sapienti enzì ‘nteressante. E po’, mì nó me n’entèndi e nó pòdi dar en zudìzi: la siorìa lustrìssima l’à zà dezìso cì che g’à da èsser el zùdize… el padre cì…”
“L’è vera;” dis don Rodrigo: “ma come feo po’ a pretènder che ‘l zùdize ‘l pàrlia, entant che i letegianti nó i vòl tàser?”
“Mì ston zito,” dis el conte Tìlio. El podestà l’à strucià i làuri, e l’à auzzà la man, come per rassegnarse.
“Oh, sia ringrazià ‘l ziél! El dìgia pur, padre,” dis don Rodrigo, serio, ma con na ponta da tòi per ziro.
“Mì me son zà scusà, col dir che pròpri nó me n’antèndi de ste robe,” à respondù fra Tòfol, dàndoge ‘ndré ‘l bicér al servo.
“Scuse magre:” urlava i doi cusìni: “Volèn la sentenza!”
“Bòn, bòn se l’è ‘nzì,” dis el frate, “el me parér che val pòc’ el saròs che nó giaveròs da èsserge né sfide, né viadri, né bastonade.”
I slapóni i s’è vardàdi un co l’àuter sbalordìdi.
“Oh, chesta l’è ben grossa!” dis el conte Tìlio. “El me scùsia, padre, ma l’è grossa. Se vét che el nó ‘l cognos el mondo.”
“El?” dis don Rodrigo: “voléo che vé ‘l dìgia n’àutra bòta: i lo cognos, ecome, caro cusìn, tant che voi: el verà o no padre? I lo dìgia, i lo dìgia, àl fat o no a só speriènza?”
Enveze che risponder a sta domanda sdolzinada, ‘l padre ‘l s’à dit a se stes na paroléta entrà de él: ― cheste le te vèn a tì; ma ricòrdete, frate, che nó ses cì per tì, e che tut chel che tócia tì sol, nó ‘l và sul cont.
“Sarà,” dis el cusìn: “ma ‘l padre… come se clàmel po’ ‘l padre? ” “Padre Tòfol” à respondù pù de un.
“Ma, padre Tòfol, padrón lustrissim, con sti vòssi prezèti, ‘l voròss rebaltar el mondo da sota ‘n su. Senza sfide! Senza bastonade! Adio crèdit de ogni ciasa: tuti i lazeróni perdonadi. Per fortuna che tuto chesto l’è ‘mpossìbol.”

“Animo, dotor,” g’è s-ciampà fora a don Rodrigo, che ‘l voleva a tuti i costi spostar la lita dai doi primi litegianti, “animo, a voi, che a dar resón a tuti seo en campion. Volen ben véder come che faréo a dàrge reson a padre Tòfol.”

“A dir la verità,” à respondù ‘l dotor, tegnèndo ‘l pirón su drìt per aria, e parlando vèrs el padre, “a dir la verità nó son bòn de ciapìr come che padre Tòfol, che l’è ‘nsema perfèt òm de glesia e ancia òm de mondo, nó l’abia pensà che la só sentenza l’è sì bòna, anzi bonissima e zusta prediciada zó dal pùlpit, ma, vardà che ‘l digi con tuta la prudenza veh, nó la val engot, ente na lita de cavalarìa. Ma ‘l padre ‘l sa mèio de mì che ogni roba l’è bona entel momento zust; e mì credi che sta bòta l’abia volèst cavàrsela, con en schèrz, da la pégola de cognér dar na sentenza.”