I morósi
Nota del traduttore La resa in noneso de «I promessi sposi» di Alessandro Manzoni, considerata la più importante e più letta tra le opere scritte in lingua italiana, è - diciamolo subito - un esercizio velleitario, ma la passione per il dialetto vince su tutto, anche a costo di commettere errori o di cadere in ingenue interpretazioni dell'alto stile di scrittura manzoniana. Presentiamo qui, per il momento, solo alcuni capitoli, ma c'è la volontà di aggiungerne altri. Guida principale è il classico Vocabolario Anaunico Solandro (VAS) di Enrico Quaresima (Istituto per la collaborazione culturale Venezia Roma, 1964) modello obbligatorio a cui riferirsi per le cose nònese, al quale ci si è attenuti nelle regole in esso contenute salvo in pochi casi segnalati. Altra fonte, altrettanto importante, le opere di poesia e prosa raccolte nei quattro volumi Poesie e Poeti de la Val de Non, a cura di Guglielmo Bertagnolli (1912). Del frutto non c’è piena soddisfazione, ma se ci saranno suggerimenti, correzioni o altre osservazioni da parte di chiunque, ben volentieri e con tanto piacere, saranno ben accolti.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute. Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, nè il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, nè a questo luogo nè altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive: Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno. All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1589, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione. Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite. Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perchè la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento. Nè fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia. Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perchè, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorchè i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perchè i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. “Signor curato,” disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia. “Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. “Lei ha intenzione,” proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, “lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!” “Cioè...” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.” “Or bene,” gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.” “Ma, signori miei,” replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, “ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...” “Orsù,” interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende.” “Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...” “Ma,” interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, “ma il matrimonio non si farà, o...” e qui una buona bestemmia, “o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...” un’altra bestemmia. “Zitto, zitto,” riprese il primo oratore: “il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.” Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: “se mi sapessero suggerire...” “Oh! suggerire a lei che sa di latino!” interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. “A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?” “Il mio rispetto...” “Si spieghi meglio!” “... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza.” E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio. “Benissimo, e buona notte, messere,” disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. “Signori...” cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere. Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz’altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l’interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa. L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche. Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perchè la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri. Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. — Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata... — Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, nè aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: “Perpetua! Perpetua!,” avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche. “Vengo,” rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. “Misericordia! cos’ha, signor padrone?” “Niente, niente,” rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. “Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.” “Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.” “Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...” “Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.” “E lei mi vorrà sostenere che non ha niente!” disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare. “Date qui, date qui,” disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina. “Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone?” disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto. “Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!” “La vita!” “La vita.” “Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...” “Brava! come quando...” Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, “signor padrone,” disse, con voce commossa e da commovere, “io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo...” Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: “per amor del cielo!” “Delle sue!” esclamò Perpetua. “Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!” “Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?” “Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?” “Oh vedete,” disse don Abbondio, con voce stizzosa: “vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.” “Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...” “Ma poi, sentiamo.” “Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...” “Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?” “Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...” “Volete tacere?” “Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...” “Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?” “Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.” “Ci penserò io,” rispose, brontolando, don Abbondio: “sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare.” E s’alzò, continuando: "non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.” “Mandi almen giù quest’altro gocciolo,” disse Perpetua, mescendo. “Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.” “Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro.” Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: “una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà?” e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: “per amor del cielo!” e disparve.
Chel ram del lac’ de Como, che ‘l vàrda vèrs mèzdì, encornisà da doi corone de monti tuti taciadi, fat a sbòze en fòr e ‘n dént, conforma se chei monti i néva ‘n fòr o ‘ndént, scasi de
colp el vèn a strénzerse che ‘mpar come se ‘l fus en fiume, con da na man na na lénga ‘n tèra dént entel lac’ e da l’àutra na gran costéra; e ancia ‘l pònt che ìo ‘nchel posto ‘l tacia
le doi rive, a vardàrlo empar pròpri che ‘l lac’ el sia l’Adda che scomenzia de nòu, ma che sùbit dopo ‘l se torna a slargiàr e ‘l deventa ancor lac’ e le rive, tornàde a slontanàrse,
le calma l’aca che la se sparpàia fòr ente nòve sbòze in ént e ‘n fòr. La costéra fata dal depòsit de tréi bèi ridi, la vèn zó postada a doi monti taciadi, un che ‘l g’à nòm de san Martìn,
l’àuter, con na paròla del dialèt de la Lombardìa, el Resegone, per via dei só tanti cocùzzoi en fila che ‘ lo fa ‘nsomiàr a na ségia; tanto che, ancia un che i lo varda per el
prìm bòt, pur che ‘l se sia metù davanti, come per esèmpi sui muri de Milan che varda al revèrs, i lo tòl fòr sùbit per come che l’è fat, ente tuta ca corona, dai àutri monti che ì g’à
‘l nom pù difìzil e i g’à la sòlita forma. Per en bèl tòc’, la còsta la và su erta desivàl, per po' dopo deventar tuta a dòssi e valéte, óri e plazi, conforma l’ossadura de chei doi
monti e del laoro de l’aca. La strìsa zó ‘l fónt, taiada da le bóce dei ridi che se trà ‘ntel lac’, l’è fata scasi tuta da glaróni e sassi bèi gròssi; el rèst, ciampi, vignalòti, cì
e ìo paesòti, vile e masi; da zèrte man se vét ancia bós-ci che i se slòngia su per la montagna. El paes pù gròs e che ge dà ‘l nòm ancia al teritòri, l’è Lecco che ‘l pòsta arènt al
pònt su la riva del lac’, tanto che, cando che ‘l se àuzza, na bòna part de paes la va ‘n l’aca: ancòi le na gran borgada ‘nviada via a deventàr de segur na zità. Ai tèmpi che è
suzèst i fati che sen dré a contàr, chel paes l’era zà bel gròs e con la só fortezza, e per chesto ‘l geva l’ambizion de avér en comandante che abitava ‘ntel paes e ancia ‘l vantàzi
de aver na casèrma de soldàdi spagnòi stàbile; sti soldàdi, fra l’àuter l’era chei che ‘nsegnava la virtù a le putelòte e a le feumne del paes, e che ogni tant i onzéva co l’ónt de
bós-c’ calche òm o calche pare; e cando che finìva l’istà, nó i perdéva ‘l vizi de sparpaiarse per i vignài a sclarìr l’ùa e ‘nzì i slizerìva le fadìge de la vendéma ai contadini.
Tra i arcanti paesòti de la zona, dai monti e ‘nfìn zó su le rive del lac’, da ‘n dòs a l’àuter passàva e passa ancia adès, strade e stradèle pù o men erte o plane. Zèrte le era
sfondade, ‘nciassàde tra doi muri, che da cì, auzzàndo i òcli, vedéves apena ‘l ziél e la zima de calche mont, zèrte àutre le neva fòr a sbàlz di modo che da chele se vedéva panorami
sèmper nòvi, pù o men largi, ma sèmper belissimi, conforma ‘ndo che se era a vardar. Da zèrti pòsti se vét en tòc’ de lac’, da zèrti àutri n’àuter tòc’, e da n’àuter ancor na gran distesa
de l’aca; da chesta lac’, anserà o mèz scondù tra ‘n gróp de montagne, o da chela man man pù slargià ‘ntrà àutri monti tuti ‘n fila che speglàndose ‘n l’aca se vét rebaltadi, coi paesòti
pozàdi su le rive; de là ‘n braz de fiume, po' lac’, po' fiume ‘ncor; da zèrti àutri pòsti ‘l và a pèrderse come ‘n bis slusènt tra i monti ‘nfìn a pèrderse lontan. Ancia ‘l pòsto stés da
‘ndo che se varda sti gran spetàcoi, l’è spetacolós; se néo a spassezar su le falde de ‘n mont, ‘ntant che ciaminào vedéo le só zime e le só còste come se le vé ziràs entórna, sèmper
diferènte, lìmpie e ‘n risàlt; chel che prima vé ‘mparéva sol na grésta, la devènta tante zime e part de mont che ‘mpareva èsser su la còsta, le devènta zime pù àute; tut ensèma, sto gran
spetàcol, ‘n pòc’ a la bòna e ‘n pòc’ selvàdec’, i lo fa ‘ncor pù bèl.
Per una de che stradèle, su l’imbrunìr del 7 de novèmber del 1628, nidéva de vòuta pazìfico da la só spassezada don Abondio, che l’era curàt de un
de chei paesòti che diséven prima: su le ciarte che gén en man, nó se trova scrìt el nòm de sto paes, e nancia da che ciasa che ‘l nideva sto
personagio. Chièt el diséva su le só orazión e ogni tant, tra ‘n salmo e l’àuter, el seràva ‘l breviari, e per tègner el ségn el metéva dént en dé
de la man drìta e chesta dént en l’àutra dré a la s-cena e pò ‘l seghitava la só ciapinada vardando per tèra e se g’èra ‘n sassòt che ‘ntopava en
mèz al sintér con na peadòta i lo petàva vèrs el murét: po’ ‘l levava su ‘l vis, e pèrs entei só pensieri, el vardava drìt la part de ‘n mont endo che
la luze del sol che l’era zà nà zó, la filtrava fòr da le sfessidure del mont da l’àutra banda, la ‘nluminava cì e ìo i cròzzéti che piciava
fòr come fus pèzze descompagnade de porpora. Davèrt de nòu el breviari e dita su ancór n’àutra orazión, l’è arivà ‘nfìn a la vòuta che fa ca stradèla, endo
che de sòlit l’èra usà a levar su i òcli dal lìber, e vardàr inanzi: e ancia ‘nchel dì l’à fat pròpri ‘nzì. Dopo la svoutada, per en tòc’ la strada
la neva dritta forsi per na sessantina de passi, e po’ la se ardoplàva a ipsilon ente àutri doi sintèròti: chela a l’andrìta la néva su per el mónt
e l’arivava a la cialòngia: l’àutra la portava zó per la val enfìn a ‘n rì; e da ca banda el murét l’era àut na giamba. I muri de ént de che dói
stradèle, envéze che taciàrse a àngol, i ruàva con en ciapitèl empiturà con zèrte spenelàde lònge a bissabòa che le finìva a pónta, e che ente
l’intenzión de l’artista e de chél che vedéva la zènt del pòsto, l’era flame; e po’ ‘ntrà mèz a ste flame g’èra àutre fegure che nó se pòl descrìver,
ma che voleva dir le ànime del purgatòri: anime e flame le era de ‘n color matón su ‘nte na man de grisòt, che cì e ìo ‘l se desgrostàva. El curàt
svoutàda la stradèla, come ‘l sòlit, l’à vardà vèrs el ciapitèl, e l’à vìst na ròba che nó ‘l se spetàva, e che nó l’avròs volèst véder. Dói òumni,
un dinànzi a l’àuter pròpri ‘ndo che i dói sintéri i se separava: un de sti dói l’èra sentà zó a ciavalòt sul murét pù bas, con na giamba a spindorlón
en fòra e con l’àuter pè postà per tèra su la strada; el só sòzi l’èra ‘n pè, pozà al mur, con i brazzi encrosadi sul stómec’. L’àbit, el portamént,
e chél che ‘l podeva aver vist el curàt da ‘ndo che l’era arivà, da chel che se podeva véder, nó g’èra dùbi de cì che podéva èsser. Tuti dói i géva
su la testa na redesèla vérda che crodàva zó su la spala ‘nzància e che la ruàva ente na gran mazòcola, e da chésta piciàva fòr en gran zuf e i geva dói
mostaci ‘nrizolàdi a pónta: su 'nla' zintùra lùstra de coràm g'era tacià su dói pistòle: al còl i geva ‘n cozzarét plén de pólver come fus na colàna:
da na s-ciarselòta de le bragóne piciàva fòr el mànec’ de ‘n cortelàz, e na gran spadóna col mànec’ traforà a làmine de otón a fórma de stèma, de gran
gusto néte e lustre: a véderli ‘nzì emparéva pròpri dói de chéi de ca risma dei bravi.
De sta zentàia adès nó g’é pù ‘nzun, ma alór en Lombardìa gé n’èra en mùcel, e da tanti ani ‘ndré. Cì che nó giavés idèa de cì che l’èra sta razza,
ve dìgi arcànte robéte su de lóri che doròs èsser assà per ciapìr, e de cant che l’è sta difìzil destirparli e cant che i è stadi duri a morìr.
Enfìn da l’òt de aurìl del 1583, el Lustrìssim e Zelentìssim Siór don Carlo d’Aragon, Prìnzipe de Castelvetrano, Duca de Terranova, Marchés d’Avola,
Conte de Burgeto, Grant’Amiràlio, e Grant Contestabile de Sizìlia, Goernatór de Milan e Gran Zeneràl de Sua Maestà Cattolica en Italia, pienamente
informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di
essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del
paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo,
officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tuti chésti l’ordina,
tèmp sei dì, de nàrsen fòr da l’Italia e per cì che nó ubidìs gé sarà la galèra, tuti i ufiziài de zustìzia i podrà dopràr ogni mòdo per eseguìr el
pefèl. Ma l’an dré, el 12 de aurìl, vedendo ‘l deto Siór, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano,
non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, el mét fòr n’àutra corènda ancór pù giaiàrda e rigorósa endo che, trà l’àuter, géra su
scrìt:
Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo,
et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti
giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia
mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tut chésto, e ‘l de pù che nó se dis, perché
Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
A sentìr le parole de ‘n gran sior, enzì giaiàrde e che nó se podeva nancia discùter e per de pù compagnade da chei pefèi, se averòs pensà che senz’àuter,
sol a sentìrle sussurar, tuti i róbleri i sia sparìdi per sèmper. Però a star a chél che à ordenà n’àutra de che siorìe, grant’òm, compàgn del prìm, con
tuti i só tìtoi ancia chél, vèn da pensar tut el contràri. E chesto cì l’era ‘l Lustrìssim e Zelentìssim Siór Juan Fernandez de Velasco, Contestabile de
Castiglia. Cameriér magiór del Re, Duca de la zità de Frias, Conte de Haro e Castelnovo, Capo de la ciasa de Velasco e de chéla dei sèt Infanti de Lara,
Goernatór del Stato de Milan, ezzètera. El 5 de zùgn del 1593, essendo sta avisà ancia el di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del
pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, l’à ‘ntimà de nòu ancia el che, tèmp sei dì, i
giàbia da nàrsen ripetèndo talecàl i ordini e i castìghi de chél da prima. Pò dopo, passà calche an, el 23 de magio del 1589 informato, con non poco
dispiacere dell’animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (róbleri e reménghi), né di loro,
giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili,
confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro,... l’ordina i stessi remèdi, aumentando la dòse de le pene come se fa per na malatìa
che stènta a varìr. Po' ‘l g’à tacià: Ognuno dunque, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di
provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.
Però nó l’èra de la stessa idea el Lustrìssim e Zelentìssim Siór, el Siór Don Péro Enriquez de Acevedo Conte de Fuentes, Capitano, e Goernatór del
Stato de Milan; nó l’era de sta idea e ‘l géva le só bòne resón. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione
del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, el 5 de dizèmber del 1600, ‘l fa na léze
nòva pléna ancia chésta de péne severissime, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
L’è da créder però che per destirpar i róbleri nó ‘l gé metéva tuta ca bòna volontà che ‘l gé metéva ‘ntel brigiàr contrà ‘l só pù grant nemìzi che l’èra
Enrico IV re de Franza; sicome, come che dis la storia, l’è sta bòn de armar contra sto re el Duca de Savoia, fasèndoge pèrder pù de na zità; e po’
come che l’è sta bòn a convìnzer el Duca de Biron, che po’ a la fìn i g’à taià via la testa; però na ròba l’è segùra, cant ai róbleri, enzì perniziosi,
i seghitàva a èsserge pù vivi che mai el 22 de setèmber del 1612. En chel dì el Lustrìssim e Zelentìssim Siór, el Siór Don Zoàn de Mendozza, Marchés de
la Hynojosa, Grandòm ezzètera, Goernatór ezzètera, l’à pensà de destirparli na bòta per tute. Per sto scòpo l’à mandà al Pandolfo e al Marco Tullio
Malatesti, che i geva la stamparìa de stato, la sòlita léze, corezùda e ancór pù rigorósa, perché i la stampàs en modo da sterminar i róbleri. Ma chéi
buli i g’èra ancór el 24 de dizèmber del 1618 cando che i à zapà la stessa stangiàda dal Lustrìssim e Zellentìssim Siór, el Siór Don Gomez Suarez de
Figueroa, Duca de Feria, ezzètera, Goernatór ezzètera. Ma sicome chéi galiòti nó i era sparìdi nancia con chéla, el Lustrissìm e Zellentìssim Siór,
el Siór Gonzalo Fernandez de Cordova, che ‘l comandava al tèmp de ca spassezàda de don Abondio, l’eva cognèst corézer e far publiciar de nòu la medesima
léze contra i róbleri el 5 de otóber del 1627, val a dir n’àn, en més e dói dì prima de chél fato straordenari.
Ma nancia chésta l’èra sta l’ultima publiciazión; ma noi de chéle che è nù dopo, nó disén engóta, perché nó le né ‘nterèssa per la nòssa storia.
Vé contàn demò de una del 13 de feuràr de l’àn 1632, e ‘nte chésta el Lustrìssim e Zellentìssim Siór, el Duque de Feria, per el secónt bòt
goernatór, el né fa savér che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. E chèsto l’è assà per èsser segùri che al
témp che sén dré a contàrve, de róbleri gé n’èra ancia massa.
Che chéi dói galiòti i fus ìo a spetàr calchedun, l’era seguriènto; ma chél che g’à desplasèst de pù a don Abondio l’è sta cando che l’à cognèst
nascòrzerse che chel che i aspetàva l’era pròpri el. Difati, cando che ì l’à vist arivar, i s’èra vardadi ‘ntel mus e i eva auzzà la testa con en mòto
che ‘mpareva pròpri che i se fus diti: l’è el; chel che era a ciaval del murét, l’éva tirà su la giamba ‘nla strada; l’àuter el s’èra destacià dal
mur; e tuti dói i g’è nadi ‘ncontra. Don Abondio tegnèndose sèmper davanti ‘l breviari davèrt, come se ‘l lezés, ‘ntant el doclava per véder che
‘ntenzión che i géva, e vedendo che i gé nidéva ‘ncontra, g’è nù tut de cólp en mùcel de pensieri. Sùbit per sùbit g’è nù ‘n mént de vardar se ‘ntrà
mèz a el e ai galiòti gé fus, da na man o da l’àutra na stradèla da poder schivarli, ma l’à ciapì sùbit che nó la g’èra. L’à pensà ‘nprèssa se per
caso l’avés podèst fàrge ‘n tòrt a calche siór o a calche spòtico; ma ancia chésto en cossiènza nó gé paréva pròpri: i róbleri ‘ntant i nidéva inanzi
e i lo vardava fis. L’à metù dói dédi de la ‘nzancia entel colarìn come se ‘l volés comodàrlo; sèmper pù azità el storzéva la bócia e con la cóa de
l’òcel el se voutava ‘ndré per véder, enfìn endo che ‘l podéva, se arivàva calchedun, ma nó l’à vist ‘nzun. L’à dat n’oclada sora ‘l murét, entei
ciampi: enzuni; n’àutra oclada dinanzi, ma fòr che i róbleri, nó arivava anima viva. Che far po’? tornar endré l’èra tardi: s-ciampar l’èra come dir
coréme dré, o ancia pézi. Schivar el perìcol ormai nó ‘l podéva pù, e alor l’à pessegià a nàrge ‘ncontra perché ‘nchéi momenti ìo l’era mèio scurtar
el pù possìbol chel tormént. L’à slongià ‘l pas, l’à rezità ‘n versét con la ós pù àuta, l’à vardà de far en mus pù chièt e contènt che ‘l podéva,
po’ ‘l s’è sforzà de grignar; cando che ‘l s’è giatà dinanzi a chéi dói gialantòmni, l’à dit entrà de el: gé sén; e ‘l s’è fermà fermo su drìt. Un
de chei doi el dis: “Siór curàt,” fissàndoge i òcli adòs.
“Comandi?” g’à respondù sùbit don Abondio, entant che l’èva auzzà i òcli dal lìber che ‘l geva spalancà ‘n man come se ‘l fus su ‘nte ‘n legìo.
L’àuter de chei doi el g’à ‘ntimà: “Ma él giàl intenzión… giàl intenzión de maridàr domàn el Renzo Tramaglino e la Lùzia Mondella?” con en far da
zèlbero, come cando che sé vòl scomenziar via na bègia.
“Ma vedé…” l’à respondù, con na osata tremolènta, don Abondio: “vedé. Voiàutri che séo oumni de mondo, e ‘l séo benìssim come che le và ste ròbe. El
pòr curàt nó ‘l conta ‘ngot: i fa i só misteròti tra de lóri, e po’… e po’, i vèn da noi, come se naròs a la cassa a scudìr; e noi… noi sén i sèrvi
del comun.”
“Benón,” g’à dit chel galiòto, ente na récla, col tòno de comando, “sto matrimòni nó se g’à da farlo, né doman, né mai.”
“Ma, sentìme sióri,” l’à tornà a dir don Abondio, con na os chièta e educada come cando che se vòl convìnzer en testón, “ma sentìme cì, provà a méterve
entei me pani. Se ‘l dipendés da mì… vedéo ben che a mì nó mé vèn engot en s-ciarsèla…”
“Dai, dai,” dis el róbler, “se sta ròba la giaves da dizìderse a zàcole, tì né meteròstus entel sac’. Noi nó sén engot, nó volén savér de pù. Òm avisà…
l’à ben ciapì.”
“Ma scoutàme sióri, voi séo gialantòumni, massa zudiziósi…”
A sto punto s’è ‘ntrometù l’àuter slàizer che ‘nfin adès nó l’eva mai parlà: “Ma ‘l
matrimòni nó ‘l nirà fat, o…” e cacì, zó na siràca, “o cì che lo farà, ‘l se pentirà, perché nó ‘l g’arà 'l tèmp, e…” e zó n’àutra blestéma.
“Tasi, tasi,” g’à tacià ancór l’àuter: “el siór curàt l’è n’òm che sa ‘l vìver del mondo; e noi sén gialantòumni, che nó volén fàrge del mal, basta
che ‘l fàgîa zudìzi. Siór curàt, el Lustrissìm siór don Rodrigo, nòs padrón, i la riverìs con tant riguardo.”
Sto nòm, enla testa de don Abondio, l’è sta come ‘n làmp de nòt entel cólem de ‘n gran temporalàz, che per n’atimo ‘l fa lum su tute le ròbe e ‘l fa
crésser el pipacul. Come per istìnto la fat en grant inchìno e l’à dit: “poròsseo darme ‘n consìli…”
“Oh valà! consiliàrge a el che ‘l sa ‘l latìn!” l’à dit un de chei dói róbleri, con na risàda tra ‘l vilan e ‘l ciatìo. “Ge tócia a el. E sóra a tut,
el vàrdia de nó dir engot a ‘nzuni de sto avìso che gén dat per el só bèn; perché se no… ehm… el saròs lostes come se ‘l fés chél matrimòni. Dai, dai
el né dìgîa chel che ‘l vòl che ge disénte a só nòm al Lustrìssim Siór don Rodrigo?”
“I mé riguardi…”
“Ma, ‘l digîa vergot de pù!”
“… D’acòrdi… d’acòrdi sèmper pronto a ubidìr.” Entant che ‘l diséva ste parole, nó ‘l seva nancia el se l’era dré a ‘mprométer vergota o a far en
complimént. I róbleri i l’à tòte o i féva véder de tòrle come na promessa.
“Benón, e bòna nòt, monsignor,” dis un de chéi dói entant che ‘l feva per nàrsen col só sòzi. Don Abondio, che pòci minuti prima l’avròs volèst
schivàr chei dói briganti, adès l’avròs volèst star ìo ancor a tratar. “Sióri…” l’à scomenzià, seràndo ‘l breviari con tute dói le man; ma lori,
senza dàrge pù òra, i à zapà la strada da ‘ndo che era nù el, e i s’è nè nadi ciantànt una de che cianzón da coscrìti che nó vòi nancia scrìver.
El pòer don Abondio l’è restà ìo con la bócia davèrta con tanto de nas; pò l’à zapà una de che dói stradèle che portava a só ciasa, ciaminando a
stento come se ‘l giavés na gran ciarcrevàda. Come che ‘l se la passàs enla zucia, se ‘l ciapirà mèio cando che averen contà vergot del so caràter,
e dei tempi ‘ndo che g’èra tocià de vìver.
Don Abondio (e ogni lezidór el se l'avrà zà ‘nvista) nó l’èra zèrto en spirìt
macabèo. Ma a scomenziàr da cando che l’era ancor zóven, l’eva ciapì sùbit che pézi de tut a chei tèmpi l’era èsser
come na bestia senza óngle e senza zane, enten mondo ‘ndo che nó ‘l volès lagiàrse sbranar. Le lézi nó le protezéva pròpri mìgia l’òm pazìfico, che
nó ge fa mal a ‘nzun, e che nó ‘l geva àutri mòdi per fàrge paura ai àutri. Ma no perché de lézi nó gé ‘n fus e nancia punizión contra le angiarie a
la zènt. Anzi le lézi le èra ancia massa; tuti i deliti i era protocoladi, e ancia ben descriti con le parole pù fine; le pene le era spropositade e
come se nó ‘l fus assà, chei che féva le lézi e cì che le metéva ‘n pratica i le podèva ancia aumentar scasi per ogni caso, come e cando che i voléva;
i prozèssi i era studiadi a pòsta sol per solevar el zùdize da qualsiasi ròba che la ge fus da ‘mpedimént a proferìr na condàna: chéi pefèi contra i
róbleri che disèven prima, i è na pròva pìzzola ma de segùr la pòl dar l’idea. Con tut chésto, anzi na gran pàrt pròpri per chésto, tuti chei pefèi
publiciadi pù bòte, e rinforzade da ogni i goèrno nó le era bòne a àuter che a mossar el malinzègn de cì che l’eva scrite; o, se le géva calche efèto
sùbit per sùbit, l’èra pù de tut chel de taciàrge tante àutre angiarìe a la pòra zènt che zà la patìva assà, e nó le féva àuter che aumetàr le
persecuzión e l’astuzia dei spòtici. I privilézi i era ben regoladi, e i géva raìs enzì fonde che le lézi nó le tociàva mai, o a dirla tuta, nó le
podéva tociàr. Sti previlèzi l’era le glésie e i convènti che i podéva dar protezión ai lazeróni, po’ g’era le privatìve de zèrte crìche da na banda
toleràde a fadìgia da l’àutra critegiade con reclami inutili, ma sostegnùdi e difendùdi da le crìche che, ‘ndo che le piciava, l’era tut na magnarìa.
Tuti sti previlèzi sèmper de sèito critegiàdi, ma mai scanzeladi da le lézi, i cognéva ogni bòt che i era a riszo, trovar la scusa per durar ancora.
E ‘nfati suzzedéva sèmper enzì; e come nidéva fòr lézi contrà i spòtici, chesti i zerciava, con tuti i mèzi, àutri modi per seghitar a far chel che le
lézi le proebìva. Ma tute che lézi le podéva ben ente ogni momént blocàrse e seciar chel bonòm onèst che nó l’era fòrt di per sé o che l’era senza
protezión; ma con chéla de tègner sóta ogni òm, per far en modo che nó gé fus pù delìti e per punìrli, i sozetàva la pòra zènt al volér dei spòtici de
ogni risma. G’era cì che prima de combinar en delìto, el se ‘ntanava per tèmp enten convènt o ‘nten palàz, endo che i sbìri nó i avròs mai fidà a méter
pè; e cì che se metéva la divisa de na famìlia potènte che la g’èva l’interès a difènderlo, e chésto l’èra libero de combinarle tute, e ‘l podéva
fregiàrsen de tut el fracas de chei pefèi. De chéi che era deputadi a far rispetar le lézi, zèrti i partegnìva da cando che i era nati a la part dei
spòtici, àutri i dipendéva da chésti perché i era clienti; tuti per educazión, per interès, perché l’èra sèmper stada ‘nzì, per simiotàr, i stéva a
che regole, e i stéva ben atènti a nó sgaràr per en tòc’ de ciarta che i taciàva fòr sui ciantóni de le ciase. I òumni po’ che géva da far rispetàr
sùbit le lézi, ancia se tra chésti gé fus sta calchedun corazós come ‘n leon, ubidiènt come ‘n frate, pronto a sacrificàrse come ‘n martire, nó ‘l
podéva mai arivar zó ‘nfont, perché i era ‘nzì pòci che perfìn cì che l’eva metudi ìo a pòsta a far rispetar le lézi i li arbandonava a se stessi.
Ma oltre a chésto, sti cì de sòlit l’èra i pù slàizeri e ribèli del só tèmp; el dovér che i géva l’era disprezzà ancia da chéi che avròs podèst èsser
terrorizà e ‘l nòm de sbiri che i geva l’era come n’ofésa. Enzì l’era bèla da véder che prima de riszar ente na chestión disperàda, i se saròs vendùdi
al potènte e i avròs fat véder la só aotorità sol cando che nó g’èra perìcol de dar fastìdi ai sióri, e sol cando che g’èra da méter sóta la pòra zènt
pazifica e débola.
N’òm che vòl far del mal, o che ‘l g’à sèmper paura che calchedun gé fàgia del mal, nó ‘l pòl far a men de zerciàrse aleàti e sòzi compagni a él. Sichè
a chéi tempi, tuti canti i vardàva de tègnerse ‘nsèma en compagnìe, e méternen ensèma de nòve, e tuti i se déva da far per aumentàr la potènza de la sóa.
El clero l’èra atènto a mantègner e se possìbol aumentar le só esenzión, i nòbili i só privilèzi, el soldà le só dispènse. I botegéri, i artesani, i féva
pàrt de sozietà e confratèrnite, i avocati i era tuti ‘nsema ente na léga, i mèdizi ente la só sozietà. Ognuna de ste crìche lé géva na forza privata e
sóa; ente ognuna ‘l partéves el trovava ‘l vantàzi de dopràr per sé stes, conforma a cant che contava la só aotorità e la só furbarìa, la forza de tuti i
àutri. I pù onèsti i dopràva sti vantàzi sol per difènderse; i pù furbazzi e i lazeróni i profitàva per combinarnen de tuti i colori perché sol coi só
mèzi nó i averòs podèst farla frància. La forza de ste crìche però nó l’era compàgna per tute; spezialmént enle val, se g’èra ‘n nòbile ric’ e spòtico,
con entorna na remengiarìa de róbleri, e na popolazión de contadìni usadi per tradizión de famìlia, e ‘nteressàdi o sforzàdi a star sóta scasi come se i
fus stadi servi del padrón, el géva na tal potènza che ‘l podéva far el bèl e ‘l brut tèmp e perfìn nó g’èra nancia n’àutra lega che podéss dàrge còntra.
El nòs Abondio nó l’èra ‘n nòbile, e nancia siór, corazós ancor de men, sichè ‘l s’èra acòrt sùbit, ancor prima de deventàr grant, de èsser ente chel mondo
ìo come ‘n vas de teracòta obligià a viazàr en mèz a tanti vasi de fèr. Per chesto l’eva ubidì ai só parènti ancia volintéra ‘che i éva volèst che ‘l nés prèt.
A dir la verità nó l’è che léva tegnù cónt dei òbligi e de l’onór che l’avròs bu a far el mistér del prèt: géva parést che procuràrse da vìver con calche
comodità e méterse ente na sozietà riverìda e forta ‘l fus dói resón pù che bòne. Però na calunque compagnìa la protéz e la difènt na persona enfìn a ‘n zèrto
punto: nó gé n’è nancia una che la gé proebìs de fàrse ‘n sistema sò. Don Abondio l’era un che bastava che i lo lagiàs entel só bró, e nó gé ‘nteressàva ‘ngot
de chéi vantazi ìo, che per avérli gé voléva darse da far e ancia riszàr en pòc’. El só sistèma l’èra far de tut per nó aver da contradìr con enzun, e zéder
cando che nó ‘l podéva far a men. Star sèmper tra l’us e l’as en tute le bègie che scomenziàs via entórn a el, da le lite, che alór le suzzedéva de spes, tra
‘l clèro e tute le àutre crìche, tra ‘l militàre e ‘l borghés, tra nòbili e nòbili, enfìn a le chestión tra dói contadìni, enviade via per na paròla maldita
e po’ dezìse a pugni, o adritura a scortelàde. Se pròpri pròpri l’èra obligià a tòr la part tra dói litegianti, el stéva sèmper da la banda del pù fòrt, e
sèmper dedré, per fàrge ciapìr a l’àuter che nó ‘l voròs èsser só nemìzi: ‘mparéva che ‘l gé disés: ma perché po’ nó ses sta bòn de èsser tì ‘l pù fòrt? che
mì ve averòssi tegnù la pàrt. Ensoma, stando sèmper a la larga dai spòtici, fasèndo finta de nó véder le sòlite angiarìe e i ciaprìzzi de chésti, contracambiando
a chele pù serie e spotiche con la pù gran sotomissión, a forza de far inchini e de portarge riguardo, ancia i pù burbari e malmostosi i era obligiadi a farge
na bòna zera cando che i li ‘ncontrava ‘n piaza, el pòver’òm l’èra sta bòn de passar i sessant’ani senza gran boras-ce.
Nó l’è che nó ‘l giavés ancia él en pòc’ de fél entel còrp; chél portar passiènza sèmper, chél dàrge de spés resón ai àutri, chéi tanti bocóni amari mandàdi zó
senza dir baf, i gé léva sgonflàda ‘nzì tant, che se ancia él ogni tant nó l’aves podèst sfogiàrse, saròs nà de mèz la só salute. Ma sicome, per fortuna per el,
al mondo e ancia vizìn, g’èra persone che ‘l cognosséva benón, oumni e feumne che nó lé era bòne de far del mal a ‘nzun, eco con chésti calche bòt el podéva
sfogiar el malumór che l’èva cognèst tratègner per en mùcel de tèmp, e tòrse ancia él la sodisfazión de èsser en pòc’ lunàstec’ e urlar ancia se ‘l gèva tòrt.
L’era pronto a strapazzàr chéi che nó se comportava come él, però sol cando che la strapazzàda ‘l podéva fàrla senza ‘l minimo dan. Cì che era sta bastonà l’era
perlomen en sventà, cì che èra sta mazzà l’era sta sèmper n’òm disonèst. Se g’éra calchedun che ‘l voléva sostègner le só resón contrà ‘n sioraz, e la ruàva con
la testa róta, don Abondio l’era sèmper bòn de trovàrge calche tòrt; che peràuter nó l’era tant difìzil perché la resón e ‘l tòrt nó sé pòl taiarli zó drìti,
perché tute le part lé g’à ‘l bòn e ‘l trìst. Ma sora tut el mormorava contra i só confratèi che, ancia con coràzo, i togéva la part de calche pover’òm, contra
‘n nòbile potènte. Chésto i lo clamava compràrsela en contànti, che l’era volér endrizzar le giambe ai ciagni, e po’ ‘l diséva ancia serio, che l’era mesdar le
chestión del mondo a dan de chéle de la religión. Cando che ‘l prediciava contra i confratèi però l’era sèmper con n’àuter o al massimo con pocìssimi àutri, e
con tanta pù furia se ‘l séva che nó g’era ‘nzun che se la togéva pù de tant. El géva po' na sentènza che gé plaséva pù de tute, e con chéla ‘l seràva sèmper i
só discorsi su ste chestión: che a ‘n gialantòm, che ‘l se fa i só afari, e che ‘l sta su le sóe, nó pòl mai ciapitàrge de ‘ncontràr bruta zènt.
I pénsia adès i me vintizìnc’ lezidori, chel che l’era dré a passar chel pòr òm, con tut che en contà ‘nfin cì. El spavènt a véder che brute fazzade e a sentìr
che parolàzze, chel che geva ‘ntimà chel sioràz che l’èra cognossù da tuti come un che nó ‘l stremìva per engot, en sistema de vìver chièt, costà ani e ani de
studio e de passiènza, adès tut de cólp scombussolà, e nó véder come nìrgen fòra: a don Abondio tuti sti pensiéri i gé zonzonava con gran rebalton en la testa. —
Se podéssite mandar de vòuta ‘l Renzo e dìrge no, ancora dai; ma ‘l vorà savér le resón; e che giàite da respònderge po’ mì, per amor del ziél? E, e, e, ancia
chesto l’è ‘n testón: se ‘nzun lo tócia l’è n’agnèl, ma se calchedun el vòl contradìrlo… ih! E po’, e pò, perdù dré a ca Lùzia, enamorà come… Putelóni, che sicome
nó i sa che far, i se parla, i vòl maridàrse, e nó i g’à en mént àuter; nó i pensa ai fastìdi ‘ndo che i pòl méter en pòer gialantòm. Oh poréto mì! vardà voiàutri
se chéi dói lazeróni i géva da méterse pròpri su la me strada, e tòrsela su con mì! Che gé n’ampòdite po’ mì? Sónte mì che vòi maridàrme? Perché po’ putòst nó i è
nadi a parlar… ma vardà voiàutri: son pròpri furbo, le ròbe le mé vèn en mént sèmper n’àtimo dopo. Podévi dìrge a chéi dói de nar a portar el só aviso… — Ma, a sto
punto, ‘l s’è acòrt che pentìrse de nó èsser stà ‘l consiliér e chel che tegnìva la sc-iala al a chél che feva l’angiarìa, l’èra massa gròssa; e alór sèmper entei
só pensieri ‘l sé la tòta con chel’àuter che l’era nù a robàrge la paze. Don Rodrigo i lo cognosséva sol de vista e de nòm, con el nó léva mai bu da che far, àuter
che tociar la sbòza col barbizzòl, e tociar per tèra con la pónta del ciapèl che pòce bòte che i léva ‘ncontrà per la strada. G’èra ciapità de difènder, pù de ‘n bòt,
la reputazión de chél sior, contra chéi che, sóta ós, sospirant, e vardando ‘n su, i maledìva calche só birbantada: léva dit zènto bòte che l’èra ‘n cavaliér gran
gialantòm. En chéla, ‘ntrà de él, el gé n’à dite tante, ma tante, che nó l’eva mai sentù dìrge da àutri, en prèssa de sèito con en domóscol. Arivà a só ciasa, che
l’èra zó ‘n fónt al paesòt, con tuti chéi pensieri, con la man che gé tremolava l’à daverzù la pòrta con la clào; l’à serà la porta bèn e ansios de trovàrse con
calchedun che ‘l se fidava, la clamà sùbit: “Perpetua! Perpetua!,” e ‘l s’è ‘nvià vèrs la saléta endo che chesta la geva da èsser ìo per parezàr la tàula per la
zéna. La Perpetua, come tuti i avrà ciapì, l’era la cògia de don Abondio: na serva premurosa e fedele, che la séva ubidìr e comandar, conforma l’ocasión, a bòte la
toleràva el brontolamént e tute le fantasìe del padrón, a bòte però l’era bòna de fàrge tolerar a el le soe, che dì per dì, da cando che l’eva passà via i carànta e
l’era ancor na medaia per aver refudà tuti i partiti che i s’era fati avanti, come che la diséva ela, o perché nó g’era sta nancia ‘n ciagn che l’eva tòta su, come
che diséva che betònege de le só amiche.
“Vèni, veni” la dis, metèndo la fias-céta del vin preferì da don Abondio entel sòlit pòsto sul taulìn, e plan plan la s’è movèsta; nó léva nancia tocià la sòlia
de la saléta, che l’è nù ént con en pas enzì ‘mpazzà, con na fazzada ‘nzì trista, con en vis enzì sfigurà, che nó ocoréva i òcli de la Perpetua per ciapìr sùbit
che g’éra ciapità per dal bòn vergot de straordenari.
“Misericordia! che g’àl pò siór padrón?”
“Engot, engot,” dis don Abondio, tiràndo 'l flà che ‘mpareva 'n màntes, molàndose zó sul ciaregión.
“Come po’ ‘ngot? Vòlel dàrmela da ‘ntender a mì? enzì trìst come che l’è? È suzèst de segùr vergot de gròs.”
“Per amor del ziél! Cando che dìgi ‘ngot, o che l’è ‘ngot, o che l’è na ròba che nó pòdi dìr.”
“Ma, nó podéo dìrla nancia a mì no? Cì èl po’ che ge varderà sóra a la vòssa salute? Cì saràl po’ che vé darà ‘n consìli?…”
“Oh, poréto mì! Tasé tasé, e nó sté parezàr àuter: déme cì ‘n bicér del mé vin.”
“E ‘l voròs dàrme da ‘ntènder che nó ‘l g’à ‘ngot!” dis la Perpetua, ‘ntant che la gé ‘mplenìva ‘l bicér, però tegnèndol en man, come a dir che ‘l gé l’avròs
dat sol se ‘l g’avés fat ca confidenza che la sé féva desideràr.
“Déme cì, déme cì,” ‘l dis don Abondio, togèndoge fòr da le man el bicér, con la man che gé tremolava e svoidàndol con na rèsta, come sé ‘l fus na medizìna.
“Ma, alór vòlel obligiàrme a nar mì a domandàr cì e ìo chél che g’è suzèst al mé padrón?” la dis la Perpetua, su drìta come ‘n fus dinanzi a el, con le man
reversàde sui flànci, e i gómbeti ‘mpontàdi davanti, vardàndol drìt entel mus come se l’avés volèst zuzzàrge ‘l segrèt dai òcli.
“Per amor del ziél! Nó sté sbetegiàr vè no, nó fé traboldéri: l’è na chestión de vita o de mòrt!”
“La vita!”
“La vita.”
“El sa bèn che tute le bòte che ‘l m’à dit vergot franco, en confidanza, mì nó ài mai…”
“Eco, brava! come cando...”
La Perpetua là sé acòrta de aver tocià el botón sbaglià su la tastéra; e alór cambiando sùbit tòno, la dis: “siór padrón,” la dis con na ós engropada e che la
tociava ‘l còr, “mì gé són sèmper stada afezionada; e, se adès vòi savér, l’è per premura, perché voròssi dàrve n’aiùt, dàrve ‘n consìli, tiràrla su de morale…”
Fato sta che don Abondio ‘l géva na gran vòia de sbrociàrse da chél cialciaròt enzì dolorós, e autretanta la gé néva la Perpetua de cognòserlo; sichè dopo avèr
resistì sèmper pù debolment a le ‘mpontadure de ca feumna, e dopo avérge fat zuràr pù de na bòta, che nó l’avròs zacolà con enzuni, a la fìn con tanta fadìgia, con
tanti pòer mì, el g’à contà ‘l brut caso. Cando che è nù ‘l momént de dìrge cì che l’era ‘l malfatór, g’à volèst che la Pepetua la zuràs en modo ancór pù solène; e
don Abondio come che l’à prononzià chel nòm, el s’è petà ‘ndrè sul s-cenàl de la ciarégia, con en gran sospìr, auzzàndo le man ensèma per comandar e ancia per
supliciar, disèndo: “per amor del ziél!”
“L’è de le sóe!” l’à sclamà la Perpetua. “Che brigante! oh che spòtico! Che òm senza timór de Dio!”
“Voléo tàser? o voléo rovinàrme dal tut?”
“Ma, se sén cì noi soli e nó né sènt enzuni. Come faràl po’, pòver padrón?”
“Vardà,” dis don Abondio, con na ós zidiósa: “ma vardà voi che bèl consìli che la sa dàrme chésta! La mé domanda come che farài, come che farài; come sé ‘l fus
ela che la è ente sto ‘mbròi e tociàs a mì tòr fòra éla.”
“Ma! mì ‘l giaveròssi bèn el mé pòr parér da dàrge; ma pò…”
“Ma dopo, sentìnte.”
“El mé consìli ‘l saròs che, sicome tuti i dis che nòs Vésco l’è ‘n sant’òm, e ancia n’òm de póls, che nó ‘l g’à paura de ‘nzun, e cando che ‘l pòl far star
al só pòsto sti spòtici, per difènder en curàt, l’è ‘l só pan; mì diròssi de scrìverge na bèla lìtera per contàrge tut, come en che modo… ”
“Voléo tàser? voléo tàser? Saràl consìli da dàrge a ‘n pòver’òm? Se i mé sbaràs na szopetàda ‘nla s-cena, Dio nó ‘l vòbia! el vesco me la ciaveròsel?”
“Bèn, bèn! le szopetàde nó se le da via mìgia come fus bòmbi no: e guai se tut le bòte che sti ciagni i sbàia i g’és da mòrder! E mì ài sèmper vìst che a
cì che móssa i dènti e che se fa rispetàr, a chel i gé pòrta rispèt; ma sicome el nó ‘l vòl mai dir la só resón, sen ridoti al punto che tuti i vèn, con
permesso a…”
“Voléo tàser?”
“Mì tasi sùbit: ma l’è segùr che, cando che ‘l mondo ‘l se acòrz che un, sèmper, ogni bòt, l’è pronto a ciàlar le…”
“Voléo tàser? Saràl da dir ste bazanàde adès?”
“Basta: ‘l gé penserà su stanòt; entant nó ‘l g’à da scomeziàr a fàrse mal da só pòsta, a rovinàrse la salute; el magnîa ‘n bocón.”
“Gé penserài mì,” à respondù brontolant don Abondio: “segùr; gé pensi mì, mì, g’ài da pensàrge.” E l’è nu ‘n pè, seitàndo: “nó vòi magnar engot; engot: g’ài
bèn àutri pensieri: el sai bèn che mé tocia a mì pensàrge. Ma! gévela da suzzéder pròpri a mì.”
“El mandia zó almen sto góz,” dis la Perpetua, che l’éva ‘mplenù n’àuter bicér. “El sa bèn che chésto ‘l gé còmoda zó el stómec’.”
“Eh, magiàri! Gé vòl ben àuter, gé vòl ben àuter, gé vòl ben àuter.”
Po’ l’à tòt la lum, e sèmper brontolànt: “na robéta da ‘ngot! a ‘n gialantòm come mì! e doman come saràla po’? e po’ àutre parole del zènere, el s’è
‘nvià per nar su ‘nla só ciàmera. Arivà su la sòlia, ‘l s’è voutà ‘ndré vèrs la Perpetua, l’à metù ‘l dé su la bócia, e ‘l dis, con en tòno sèrio:
“per amor del ziél!” e po’ l’è sparì.
Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! “Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm!” aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose. — Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. — Vedremo, — diceva tra sé: — egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo. — Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. — Che abbia qualche pensiero per la testa, — argomentò Renzo tra sé, poi disse: “son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.” “Di che giorno volete parlare?” “Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?” “Oggi?" replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. “Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.” “Oggi non può! Cos’è nato?” “Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.” “Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica...” “E poi, e poi, e poi...” “E poi che cosa?” “E poi c’è degli imbrogli.” "Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?" "Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio." "Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è." "Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?" "Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa," disse Renzo, cominciando ad alterarsi, "poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?" "Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.” “Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.” “Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?” “Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?” “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,...” cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. “Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch'io faccia del suo latinorum? “Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.” “Orsù!...” “Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...” “Che discorsi son questi, signor mio?” proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato. “Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.” “In somma...” “In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.” “Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?” “Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...” “Le ho detto che non voglio latino.” “Ma bisogna pur che vi spieghi...” “Ma non le ha già fatte queste ricerche?” “Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.” “Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare...” “Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma.... ma ora mi son venute.... basta, so io.” “E che vorrebbe ch’io facessi?” “Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.” “Per quanto?” — Siamo a buon porto, — pensò tra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, “via,” disse: “in quindici giorni cercherò,... procurerò...” “Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici...” riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: “via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...” “E a Lucia che devo dire?” “Ch’è stato un mio sbaglio.” “E i discorsi del mondo?” “Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.” “E poi, non ci sarà più altri impedimenti?” “Quando vi dico...” “Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.” E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente. Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa. “Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.” “Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.” “Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.” “Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?” — L’ho detto io, che c’era mistero sotto, — pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: “via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.” “Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.” “È vero,” riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, “è vero,” soggiunse, “ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?” “Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa.” “Chi è dunque che ci ha colpa?” domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta. “Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...” — Prepotenti! birboni! — pensò Renzo: — questi non sono i superiori. “Via,” disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, “via, ditemi chi è.” “Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due.” Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati. “Eh! eh! che novità è questa?” disse don Abbondio. “Chi è quel prepotente,” disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, “chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia?” “Che? che? che?” balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca. “Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?” “Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra.” “Penso che lo voglio saper subito, sul momento.” E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino. “Misericordia!” esclamò con voce fioca don Abbondio. “Lo voglio sapere.” “Chi v’ha detto...” “No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.” “Mi volete morto?” “Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.” “Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?” “Dunque parli.” Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire. “Mi promettete, mi giurate,” disse “di non parlarne con nessuno, di non dir mai...?” “Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.” A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: “don...” “Don?” ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all'indietro. “Don Rodrigo!” pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch'era costretto a metterla fuori. “Ah cane!” urlò Renzo. “E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?” “Come eh? come?” rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. “Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo.” E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: “avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.” “Posso aver fallato,” rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: “posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso...” Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, “giurate almeno...” gli disse. “Posso aver fallato; e mi scusi,” rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire. “Giurate...” replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante. “Posso aver fallato,” ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento. “Perpetua! Perpetua!” gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse. È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: “Perpetua!” La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato,” e i “non ho parlato,” tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, “son servito;” e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo. Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. — E Lucia? — Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso! Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: “lo sposo! lo sposo!” “Zitta, Bettina, zitta!” disse Renzo. “Vien qua; va su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’... dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.” La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commissione segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio. “Vo un momento, e torno,” disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, “cosa c’è?” disse, non senza un presentimento di terrore. “Lucia!” rispose Renzo, “per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.” “Che?” disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, “ah!” esclamò, arrossendo e tremando, “fino a questo segno!” “Dunque voi sapevate...?” disse Renzo. “Pur troppo!” rispose Lucia; “ma a questo segno!” “Che cosa sapevate?” “Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. ” Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: “non m’avete mai detto niente.” “Ah, Renzo!” rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri? Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come potè meglio, disse: “il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla.” Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo. Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero. “Un febbrone,” rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.
I conta che ‘l prìnzipe de Condè l’eva dormì come ‘n tas la nòt prima del dì de la batalia de Rocroi: el prinzép però, prima de tut l’era stràc’ come n’àsen; e po’ l’eva zà dat tuti i pefèi nezessàri e l’eva dezìso chel che ‘l géva da far la domàn dré. Don Abondio enveze nó ‘l séva àuter che la domàn dré el saròss sta na zornàda de batalia; e alór na gran part de la nòt i là passàda a ‘mpensàrse plén de angossa vergota da far. Nó fàrge caso a chel che i géva ‘ntimà, né a chel che i géva ‘ntimà e far chel matrimòni, l’era na ròba che nó se ‘n parlava nancia. Méterse ìo col Renzo per véder de nìrgen fòra en calche modo… per amor de Dio! “Nó ste lagiàrve s-ciampar na paròla… perché se no… ehm!” eva dìt un de chei dói robleri; e don Abondio, a sentìrse rebombàr chel ehm! enla testa, nó ’l pensava de segur de disubidìrge a na tal leze, ma adiritura ‘l se pentìva de aver zacolà en pòc massa co la Perpetua. S-ciampàr? Endo po’? E po’! Cante rogne, e canti conti da far! A ogni ‘mpensada che ‘l refudava, chel pover’òm el se svoutolava entel lèt. Ad ogni modo chél che gé pareva ‘l mèio o ‘l mén pézi, l’è sta chéla de gadagnar tèmp, e tiràr el Renzo per le lònge. G’è nù ‘n ment a propòsit che manciava pòci dì al tèmp proibì per far le nòzze; — e, se pòdi tègner calmo, per sti pòci dì, chèl putelón, g’ài dói mesi de calma; e, ‘nten dói mesi, pòl suzzéder tante ròbe. — L’à remenà tante de che scuse da tiràr fòra, e ancia se le gé parèva scuse da ‘ngot, el se convinzéva lostes col pensiér che la só aotorità el gé le avròs fate valer, e ancia che la só gran sperienza i l’averòs venzùda con en pòer putelòt ignorante. — Vederén, — el diséva ‘ntra de el: — el ‘l g’à ‘n ment la morósa, ma mì pensi a la mé pèl: el pù ‘nteressà son mì, lagiando star che son el pù prudènt. Caro fiòl, se tì sèntes el brìgol adòs, nó sai che fàrge; ma mì nó vòi nàrge de mèz. — Con sta ‘mpensada el s’è calmà e l’à podèst seràr òcel: ma che dormìda! Che cialciaròti! Róbleri, don Rodrìgo, ‘l Renzo, stradèle, chìpe, fùgie, corse, zigi, szopetade. Apena desmissiàdi, dopo na disgrazia, e per de pù ‘nte na rògna, l’è ‘n moment pròpri brut. Se pensa a la vita pazìfica de prima; ma ‘l pensier de la nova situazion el torna sùbit a fàrse sentir; e ‘l dispiazer l’è ancor pù fòrt. Passà che l’era chel moment de dolor, don Abondio l’à metù ‘nsema chel che l’eva ‘mpensà la nòt, e l’à pensà che l’era pròpri ‘nzì che gé voleva far, l’è levà, e po’ l’è sta ìo a spetar el Renzo con en pòc’ de paura e ancia con na zerta ansia. El Lorenzo, o come che i lo clamava tuti, el Renzo, nó ‘l s’à fat aspetar tant. Apena che g’à parèst de podèr presentàrse dal curat senza dàrge disturbo, l’è nà col coràzo de n’òm de vinti ani, che l’è dré a maridàrse con la so morosa. Fin da pòpo l’era restà senza parènti, e ‘l laurava a far el tessàder de la séda, laoro che i eva fat tuti ‘n la so famìlia; en mistér che ani ‘ndré el rendéva tant, ma che ‘nchei ani l’era zà dré a nar putòst mal; ma se un l’era brào del mister el podeva dar da viver onestament. El laoro dì per dì l’era sèmper de men; ma l’emigrazion entei paesi vizini de tanti laoranti, ‘mbibiadi da le promesse, da privilèzi, da bèle page, l’eva fat che per chei pòci che restava ‘ntel paes de laoro gé n’era ancor assà. En pù ‘l Renzo ‘l geva ‘n ciampét che ‘l deva via a laorar e che ‘l laorava ancia el, cando che la filanda l’era ferma; en modo che, per le so condizión se podeva dir che l’era ‘n bacanòt. Ancia se ‘n che l’an l’era stada ancor pù s-ciarsa del sòlit, e zà se scomenziava a patìr la fam, el Renzo che, da cando che l’eva metù i òcli su la Lùzia l’era deventà masador, el se la passava ben assà, e almen nó ‘l geva ‘l pensier de patìr la fam. El s’è presentà dinanzi a don Abondio, en ghingherli, con le plume de tanti colori sul ciapèl, col so pugnàl dal mànec’ bèl enla s-ciarsèla de le brage, con en far da bulo come tanti òumni ancia chièti de chel tèmp. L’azèt de don Abondio, dubiós e misteriós l’era la vicevèrsa de l’ardiment del putèl che l’era putòst aléger. — Che ‘l giàbia calche pensier en la testa, — l’à pensà ‘l Renzo, po’ ‘l dis: “son nù, sior curat, per savér a che ora che gé còmoda che sìente ‘n glésia.” “De che dì parlào po’?” “Come po’ de che dì? no se ricòrdel no che en fissà per ancòi?” “Ancòi?” dis don Abondio, come che i lo sentìs parlar per el prìm bòt. “Ancòi, ancòi… ciapìme, ma ‘ncòi nó pòdi.” “Ancòi no ‘l pòl? Che g’è sta po’?” “Prima de tut nó ston tant ben.” “Me desplàs; ma per chel che ‘l g’à da far gé vòl pròpi pòc’ temp, e pòcia fadìgia…” “E po’, e po’, e po’…” “E po’ che po’?” “E po’ g’è ‘n pòc’ de rògne.” “Rogne? Che rògne pòl èsserge po’?” “Gé voròss èsser entei me pani, per savér cante grane che g’è ‘nte ste ròbe, canti conti che g’è da far. Mì son massa bòn, nó fon àuter che tòr via i strumi, vardàr che vàgia tut ben per i àutri e po’ làgi ‘ndrè i mé mistéri; e mé tócia sentìr brontolade e ancia pézi.” “Ma, per amor del ziél, nó sté a tègnerme su le uzze, el me digia nèt e sclèt che che g’è.” “El seo voi cante, ma cante ciarte che gé vòl per far en matrimòni ‘n regola?” “Gé manceròs che mì nó sapia cante ciarte che gé vòl, dis el Renzo che ‘l scomenziava a ‘nnervosìrse, méo zà fat la testa come ‘n star sti dì passadi. Ma ades nó g’èra tut fat? nó è sta fat tut chel che gera da far? ” “Tut, tut, el diséo voi: perché, scoutàme cì, el coión son mì che lagi ‘ndré ‘l me dovér, per nó far tribular la pòra zènt. Ma adès… basta, sai ben mì chel che dìgi. Noi pòri curati sen tra l’ancùzem e ‘l martèl: voi geo prèssa; mì ve compatìssi, pòer putèl; e i superiori… bòn bòn, nó se pòl dir tut. E po’ sen noi che gé nén de mèz.” “Ma ‘l me spiegia ‘n bòt per tute chel che l’è st’àutra ciarta che gé vòl far, come che dis el, e la fon sùbit.” “El séo voi cante pégole che le splana via tut?” “Che vòlel che sapia mì de pégole pò?” “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,...” el scomenziava don Abondio a contàr su la ponta dei dédi. “Mé tògel per ziro?” dis el putèl. “Che voléo che me ‘m fagia po’ mì del vòs latinorum?” “Alor se nó seo le ròbe, lagià star, e fidave de cì che i le sa.” “Coràzo!...” “Déi Renzo, nó ste a ‘nrabiàrve, che mì son pronto a far… tut chel che dipént da mì. Mì, mì voròssi véderve contènt; vé vòi ben mì. Eh!... cando che pensi che stéveo enzì ben; che vé manciava po’? v’è sautà ‘n ment de maridàrve…” “Che me diséo su po’ sior curàt?” el Renzo l’è sautà su come ‘n bis, con na musara sbalordìda e rabiósa. “Ma no, digi per dir, ste calmo, digi per dir. Mì voròssi véderve contènt.” “E alor…” “Alora, caro mio, mì nó g’ài colpa, la leze nó l’ài mìgia fata mì. E prima de ruar su 'n matrimòni, noi sen obligiadi a controlar tante ròbe, per èsser seguri dal tut che nó gé sia pégole.” “Ma dai, diséme en bòt per sèmper, che pégola gè po’ ancora?” “Ste calmo, nó l’è ròbe da podér lézer enzì su dói pèi. A la fìn nó gé sarà ‘ngot, almen speri; ma però cògni far i me studi. La leze la parla da fàrse ciapìr: antequam matrimonium denunciet…” “Ve l’ài dit che nó vòi sentìr latin.” “Ma gé vorà ben che ve spiegia…” “Ma nó l’éo zà fate tute le vòsse tamisàde?” “Ve digi che tute chele che gévi da far nó l’ài fate” “Ma perché po’ nó l’éo fate a so tèmp? perché po’ m’éo dit che era tut ruà? perché po’ spetar… ” “Eco! me brontolào perché son massa bòn. Ài vardà de far tut per fàrve ‘n piazér e far pù prést: ma… ma ades m’è nù… bòn bòn, sai mì. ” “Ma che voròssel che féssite po’ mì?” “Che gébieo passienza per calche dì. Caro putèl, calche dì nó l’è migia l’eternità no: che gébieo passienza.” “Ma per cant po’?” — Sen a bòn punto, — l’à pensà don Abondio; e, con en far pù manieros possìbol, “dai, dai” el dis: “enten chìndes dì varderài… farai…” “Chìndes dì! chesta sì che l’è bèla! È sta fat tut chel che voléva el; è sta dezìso ‘l dì; è nù chel dì; e adès i vèn a dìrme che g’ài da spetar chìndes dì! e po’, col braz auzzà e batèndo ‘l pugn per aria, con na ós pù àuta e stizósa; "Chìndes…” e cissà che diauléri che ‘l giaveròs tacià a chel zèst, se don Abondio nó i l’avés blocà, zapàndoge l’àutra man, con premura: “dai, dai, nó ste a ‘nrabiarve no, per amor del ziél. Varderài, farài se l’è posìbol, ente na semmana…” “E a la Lùzia che dìrge po’?” “Che me son sbaglià mì.” “E la zènt che diràla po’?” “Disége pur a tuti, che ài sbaglià mì, da la prèssa, per el me bòn còr: petàme pur tuta la colpa adòs a mì. Seo contènt no? dai, per na semmana.” “E dopo, nó ge sarà mìgia ‘ncor àutre pégole no?” “Cando che ve digi…” “Bòn bòn: speterài per na semmana; ma ve digi sùbit che, passà chesta, nó me contenterài sol de zàcole. Entant, riverisco!” E con chesto ‘l se n’è nà fasèndoge a don Abondio na sverglòta en pòc’ pù ‘mprèssa del sòlit, e dàndoge n’oclada da fàrse ‘ntènder pù che riguardósa. En bòt che l’è sta fòr da la cialòngia, ciaminando malvolintéra, per el prìm bòt, vèrs la ciasa de la só morósa, con na rabia de chéle, e ‘l pensava sèmper a chel pròlec’; e i lo calcolava sèmper pù stravagante. L’azèt empazzà de don Abondio, chel parlar stentà e nervós, chéi dói òcli grisi che, ‘ntant che ‘l parlava, i vardava de cà e de là come se i aves bu paura de ‘ncontràrse con le paròle che ge nideva fòr da la bócia, chel cognér far tut de nòu per el matrimòni dezìso, ‘nzì fòr dai dènti, e pù de tut chel tiràr fòr sèmper cissà che gran ròba, ma senza dir engot de segùr; tute ste robe messe ‘nsèma le féva pensar al Renzo che ge fus sóta calche mistèro diferènt da chel che geva fat creder don Abondio. El putèl l’è sta ìo ìo per tornar de vòuta per obligiàrlo a dir tut; ma auzzàndo i òcli la vìst la Perpetua che la ciaminava inanzi a el, e che la néva ént enten ortesèl a pòci passi da la ciasa. Entant che la daverzéva l’us, i l’à saludàda e l’à fat en modo de blocàrla prima che la nes dént e, con chéla de ciavàrge fòr vergot de pù segùr, el s’è fermà a zacolàr con ela. “Bòn dì, Perpetua: ancòi avròssi sperà che saròssen stadi tuti pù alegri ensèma.” “Ma! Chel che Dio vòl, pòer Renzo.” “Féme ‘n piazer: chel benedet’òm del siór curàt el m’à contà zó en mùcel de bale che nó son sta bòn de ciapìr ben: spiegiàme voi mèio per chel che l’è che nó ’à podèst maridàrne ancòi.” “Oh! ve par che mì sapia i afari del mé padron?” — L’ài bèn dit mì che g’èra sota calche mistèro, — à pensà ‘l Renzo; e per véder se l’èra bòn de tiràrgel fòra ‘l dis: “dai, dai Perpetua; sen amìzi; diséme chel che séo, aidàge a ‘n pòer fiòl.” “Bruta ròba nàsser poréti, caro Renzo.” “L’è vera,” dis el Renzo, che ‘ntant l’era sèmper pù convinto de chel che ‘l sospetava; e vardando de ciavàrge fòra de pù su la chestión, “l’è vera, ma èl i prèti che g’à da tratar mal i poréti?” “Sentìme Renzo; mì nó pòdi dir engot, perché… nó sai engot; ma chel che pòdi seguràrve l’è che ‘l mé padron no ‘l vòl fàrge tòrti, né a voi né a ‘nzuni; el nó ‘l g’à colpa.” “Cì èl po’ alór che g’à la colpa?” à domandà ‘l Renzo, con furbìzia senza farlo véder, ansiós de sentìr vergot de pù. “Cando che vé digi che nó sai engot… pòdi bèn parlar per dofènder el mé padron; perché nó pòdi sentìr che i dìgîa che ‘l vòl el mal de calchedun. Pòr òm! se ‘l sbaglia l’è perché l’è massa bòn. A sto mondo g’è bèn àutri birbanti, spòtici, òumni senza timór de Dio…” — Spòtici! Birbanti! — el pensava ‘l Renzo: — nó ‘l pòl èsser i só superiori. “Déi,” el dis, entant che ‘l scondeva l’azitazión che la ge cresseva sèmper de pù, “déi diséme cì che l’è.” “Ah! voròsseo farme parlar; e mì nó pòdi parlar, perchè… nó sai engot: cando che nó sai engot, l’è come se avéssi zurà de tàser. Ancia se mé fésseo en suplìzi, mì nó daverzeròssi bócia. Ve saludi; perdén tèmp tuti dói.” Entant l’è nada ‘mprèssa ént entel’òrt e l’à serà l’us. El Renzo, ‘l geva respondù con en salut, ma l’è tornà de vòuta plan planin, che nó la se nascorzés de ‘ndo che ‘l voleva nar; ma cando che l’era lontan assà da ca bòna dòna, l’à pessegià; e ‘nten lampo l’era su l’us de don Abondio; l’è nà ent, dirèto entela saléta endó che i l’eva lagià ìo prima, e i l’à trovà, ‘l g’à córs encontra col far da bulo e i òcli stralunadi. “Ehi! ehi! che novità èl po’ chesta?” dis don Abondio. “Cì èl po’ sto spòtico,” dis el Renzo, con la ós de n’òm convinto de aver na risposta segùra, “cì èl po’ chel zèlbero che nó ‘l vòl che mì spósia la Lùzia?” “Che? che? che?” el bezgolava chel pòr òm, con na fazzada che de colp l’era deventata biancia e flapa come na sdraza tirada fòr da la lessìva. E brontolant, l’è sautà su da la sentadora per nar vèrs l’us. Ma ‘l Renzo, che ‘l se la spetava e l’era atènto, l’è sautà ìo prima de el, l’à zirà la clao, e ‘l se l’à metùda ‘n s-ciarsèla. “Ah! ah! adès el parlerà, sior curat? Tuti i sa i me afari, men che mì. Vòi savérli ancia mì, porconón. Come se clàmel po’ sto lazerón?” “Renzo! Renzo! per ciarità, sté atènto a chel che féo; pensà a la vòssa anima.” “Pensi che vòi savérlo sùbit adès ente sto momént.” E ‘ntant che ‘l diseva ‘nzì, e forse senza nascòrzerse, l’à metù man al cortèl che ge nidéva fòr da la s-ciarsèla. “Misericordia!” ‘l dis con en fil de ós don Abondio. “Vòi savérlo.” “Cì èl po’ che v’à dit…” “No, no; nó contàme pù tante bale. El pàrlia sclèt e sùbit.” “Me voléo mòrt?” “Vòi savér chel che g’ài dirito de savér.” “Ma se parli son mòrt. Nó giàla da prèmerme no la me pèl?” “Alor l’è mèio che ‘l pàrlia.” Chel “alor” i l’eva dit con na tal forza, e l’aspèto del Renzo l’era deventà ‘nzì spaventós, che don Abondio nó l’à podèst nancia emmazinàrse de disubidìr. “Me ‘mprometéo, me zurào,” el dis “de nó parlar con enzun, de nó dir mai… ?” “Ge ‘mprométi che se nó me diséo sùbit per sùbit el nom de sto bricón, fon en spròposit.” Con chéla, don Abondio, col mus e con i òcli de cì che g’à ‘n bócia la tenàia del ciavadènti, l’à proferì: “don…” “Don?” à ripetù ‘l Renzo, come per aidàr el malà a tràr fòra tut el rèst; l’era sgobà zó, con la récla dausìn a la só bócia, con i brazzi driti e i pugni ‘nseradi. “Don Rodrigo!” l’à prononzià ‘mprèssa l’obligià, sbrodolando fòra che pòce sìlabe e tirando la paròla, en pòc’ per el pipacul, e ancia perché, con ca pòcia atenzion che ge restava, a far en compromés tra la paura del Renzo e chela de don Rodrigo, empareva che ‘l voles nó dir ca parola, entel stes momento che ‘l cogneva dirla. “Ah ciagn!” el zigiava ‘l Renzo. “E come àl fat po’? Che g’àl dit po’ per… ?” “Come po’ eh? come po’?” à respondù, con na ós scasi da superbo, don Abondio che dopo chel gran sacrifìzi el se sentiva de èsser ‘n crèdit. “Come po’ eh? Voròssi che la vé fus tociada a voi, come che la m’è tociada a mì, che nó ge n’ampòdi ‘ngot; de segùr nó giaveròsseo tanti zìsmi per la testa.” E l’à scomenzià a contàrge cant che l’era sta brut encontrar che dói bruti zéfi; entant che ‘l parlava el se nascorzéva che ‘l geva tanta de ca rabia adòs, che fin alora l’era restata scònta per la gran fórla, entel stes tèmp vedendo che ‘l Renzo l’era ìo fermo co la testa bassa ‘ntrà la rabia e la confusion, gera nù na zerta alegria e ‘l dis: “eo bèn fat na bela opera! M’éo fat en gran piazér! En scherzét de sto tipo a ‘n gialant’òm , al vòs curat! en ciasa sóa! enten posto sacro! Na bèla braùra éo fat! Per farme dir la mé rògna, la vòssa rògna! chel che mì vardàvi de tègnerve scòndù per prudenza, per el vòs ben! E adès che ‘l séo? Vorossi bèn véder che mé fésseo…! Per amor del ziél! Nó scherzànte vè no. Cì nó l’è tòrt o resón; cì se trata de forza. E cando stadomàn ve devi ‘n consìli.. eh! Sùbit a sautàr su come ‘n bis. Mi vardavi de aver zudìzi per mì e ancia per voi; ma come se fa? Daverzéme almen; déme la me clao.” “Pòdi èsserme sbaglià,” g’à respondù ‘l Renzo, con en tono pù dolz vèrs don Abondio, ma sota sota se sentiva la gran rabbia che ‘l geva contra ‘l nemìzi che ades el seva cì che l’era; “pòdi èsserme sbaglià; ma ancia el, ‘l se métia la man sul còr, e ‘l pensia se ‘ntel me caso…” Disendo ‘nzì, l’eva tòt fòr la clao da la s-ciarsèla e ‘l neva a davèrzer la porta. Don Abondio el g’è nà dré e ‘ntant che ‘l Renzo ‘l zirava la clao ente la seradura, el g’è nà dausìn e con en vis serio e angossà, vardàndol entei òcli ‘l g’à auzzà i prime trei dedi de l’andrita, come per aidarlo ancia el, e ‘l g’à dit: “zuràme almen…”. “Pòdi èsserme sbaglià; el me scusia,” g’à respondù ‘l Renzo, daverzèndo l’us per nàrsen. “Zuràme…” l’à tornà a dìrge don Abondio, zapàndoge ‘n braz con la man che tremolava. “Pòdi èsserme sbaglià,” dis ancor el Renzo, liberàndose da don Abondio, e l’è partì come sbarà fòr da ‘n cianón, zonclando ìo la chestión, na chestión che, sicome tute le part le geva le só resón, l’aròs podèst durar ancia sècoi, come fus na chestión da lezùdi o da filosofi. “Perpetua! Perpetua!” à zigià don Abondio, dopo aver clamà ‘ndré per engot el Renzo. La Perpetua nó la respònt: don Abondio nó ‘l seva pù en che mondo ‘l fus. G’è tocià pù de na bòta a zènt bèn pù àuta ‘n grado de don Abondio de giatàrse en le pégole ‘nzì fastidiose, da nó savér pù che partìto tòr, e de dezìder de méterse entel lèt con la féver. Sto ripiégo, don Abondio nó la nancia dovèst nar a zerciàrlo, perché ‘l g’è nù da só pòsta. La paura del dì prima, la nòt petada via che nó l’eva serà òcel, la fórla che l’eva bu ente chel moment ìo, el pensier per el tèmp che geva da nìr, i à fat efèto. Azità e balùc’ el s’è petà su la só sentadora e l’à scomenzià a sentìr calche sgrisolón entei òssi, el se vardava le óngle e ‘l sospirava, e ogni tant el clamava con la ós che tremolava: “Perpetua!” A la fin la è po’ arivada con en gran ciapùs sota ‘l braz, e come nó fus suzèst engot. Ge sparagni al lezidor i lamenti, i bèrgemi, le acuse, le scuse, i “podéo aver parlà sol voi”, e i “no mì nó ài parlà,” ensoma tuti i pastìzi de ca parlada. Basta dir che don Abondio ‘l g’à ordenà a la Perpetua de méter la stangia a l’us e de nó davèrzer a ‘nzun per engot, e se calchedun batéva, de respònder da la finestra che ‘l curàt l’era nà entel lèt con la féver. Po’ l’è nà plan plan su per le s-ciale e ogni trei s-cialini ‘l diseva “ah son ben a pòsto adès; e ‘l s’è metù ‘ntel let, endo che ‘l lageren ìo.” Entant el Renzo ‘l ciaminava a passi enfuriàdi vèrs só ciasa, senza aver ciapì chel che ‘l geva da far, ma con na smania adòs de far vergot de strano e de tremendo. I lazeroni, i spòtici, tuti chei che ‘nte calunque modo, i fa del mal ai àutri, i g’à su la cossiènza, se nó basta ‘l mal che i combina, ancia chel che a ciàusa soa fa chei che è ofési. El Renzo l’era n’òm pazìfico e fòr dal tut da èsser en ribèle, l’era ‘n putèl sclèt e nemìzi de ogni ingiagn; ma ‘nchei momenti ìo, el so còr nó ‘l geva ‘n ment àuter che sassinar, la só testa nó la pensava àuter che ‘mmazinàrse ‘n tradimént. L’avròs volèst córer a ciasa de don Rodrigo, zapàrlo per el còl, e… ma po’ ge nideva ‘n ment che l’era ‘n ciastèl, plén de róbleri de ént e de fòra; e sol i amìzi e sèrvi ben cognossudi i podeva nar ent senza èsser vardadi da la testa ai pèi; che n’artesanèl che ‘nzun cognos nó l’avròs podèst nar ent senza farse véder e sora tut che el … el l’era forsi ancia massa cognossù. El se ‘mmazinava alor de tòr el só szòp, de scònderse dré a ‘n zesón, e spetar se ‘l passava da só pòsta; e ‘l se ‘mmazinava, scasi godèndo de ca ciativéria che ‘l géva adòs, de sentìr i passi, el pas de chel ludro, de levar la testa plan plan; véder chel canaia, puntar el szòp, tòr la mira e sbarar, véderlo crodàr per tera e trar come ‘n ciaurét, maledìrlo e po’ de corsa s-ciampar vèrs el confìn per méterse al segùr. — E la Lùzia? — apena che g’è nù ‘n ment chel nòm, en mèz a tute che fantasìe ciatìve, s’è fat strada pensieri pù chièti come che l’era ‘ntel caràter del Renzo. El s’è ricordà dei só pòri parènti, g’è nù ‘n ment el Sioredio e la Madona e i santi, l’à pensà a la consolazión che tante bòte l’eva provà a èsser senza peciadi grossi, a l’orór che tante bòte l’eva bù a sentìr de ‘n delìto; el s’è fat fòr da chel brut ensòni plén de spavènt e col rimòrs, e ‘ntel stes tèmp ancia solevà e contènt per aver sol emmazinà tuta ca ciativèria. Ma ‘l pensier de la Lùzia el se tirava dré tante autre preocupazión. Tute le speranze, tante promesse, en tèmp a nìr enzì sospirà e chel dì ‘nzì desiderà! Come far po’, che paròle dìr po’ per avisarla de ca bruta nòva? E che far po’ dopo? Come far po’ a sposarla contra la volontà de chel spòtico? Ensèma a tut chesto se feva strada ancia ‘l dùbi che don Rodrigo ‘l voles portàrgela via. E la Lùzia? Giaveràla dat a chel mostro ancia la pù pìzzola ocasión, en complimént magiari nozènt, el Renzo nó l’era bòn de bàter fòr da la testa sti pensieri. Ma ela sévela vergot? Come fével po’, chel ludro, a volérla per el senza che ela la se fus nascòrta? Saròssel arivà a tentarla en calche modo? E la Lùzia nó l’avròs mai dit engot a el? al só moros! Tut zapà da sti pensieri, l’è pasà dinanzi a só ciasa, che la era ‘n piaza, e, traversà tut el paés, el s’è ‘nvià vèrsa chéla de la Lùzia, che la era zó ‘n fónt, anzi en pòc’ fòra. Ca ciaséta la géva dinanzi ‘n cortìu putòst pìzzol che i la tegnìva separada da la strada, e l’era zircondàda da ‘n murét. El Renzo l’è nà ént entel cortìu, e la sentù en ronzàr de sèito che ‘l nidéva da na ciàmera su àut. El s’è ‘mmazinà che l’era le amighe e le comare, nude a parezar la Lùzia, e nó l’à volèst fàrse véder da chéle ìo, con cà notizia che ‘l géva ‘ntel còrp e sul mus. Na popàta che géra ìo ‘ntel cortìu, la g’è corsa ‘ncontra zigiando: “el spós! el spós!” “Tasi, tasi Betina!” dis el Renzo. “Vèi cì; vai su da la Lùzia e tìrela da na banda, e dìge ente na récla… ma varda che nó sèntia ‘nzun, e che ‘nzun dùbitia de ‘ngot, vè… dìge che g’ài da parlàrge e che la spèti entel ciamerìn zó bas e che la vègnia sùbit.” La putelòta l’è nada ‘n prèssa su per le s-ciale, tuta contenta e con n’ambizión de chéle per chel servìzi secrèt che i geva dat da far. La Lùzia en chel momént la nidéva fòr tuta spuzzéta da le man de só mama. Le só amighe i se la robàva una co l’àutra e i la tirava perché la se lagiàs véder; ela con en pòc’ de respèt, con ca moderazión che de sòlit g’à le contadine, che le se scònt el mus col gómbet sbassàndola su la sbòza, enfizzando le zìlie lònge e négre, ma ‘ntant grignàndo con la bócia. I ciavéi negri da putèla, spartidi da na rigia drìta e blancia sul vis, i era plegiàdi su de dré sul copìn, con tanti zércli de drézze infrizzade de spìle lònge de arzènt, che le féva corona come fus i razi de na ròda, come che le fa ‘ncor adès le contadine del milanés. Entórn al còl la géva na colana de granate con ogni tant en botón de òr: la géva ‘n corpèt de veludo ricamà a fiori e con le màngie separade e ligiade da bèi nastri: na vesta de séda, a plegiòte spesse e pìzzolòte. Dói ciàuzze rosse, dói s-ciarpéte ancia chéste de séda tute ricamade. Estra a chesto, che l’èra l’ornament che se usa per el dì de le nòzze, la Lùzia la géva chél de tuti i dì, chel de na beléza sèmplize, che ‘nchel dì l’era aumentada da tuta l’emozión che la féva véder sul mus: na zèrta contentezza e ancia n’azitazión che g’à sèmper le sposine, ma che però nó la rovina la beléza. La Betina la s’è petada dent ente chél ròz, la s’è svizinada a la Lùzia e la g’à fat entènder che la géva vergot da dìrge, e la g’à dit la só paroléta en la récla. “Vón e vèni, ‘n momént” l’à g’à dit la Lùzia a le feumne; e l’è nada zó bas en prèssa. A véder la musara del Renzo e ‘l só comportamént tut azità, “che g’è po’?” la dis, co l’impressión de terór che era suzèst vergota de brut. “Lùzia!” g’à respondù ‘l Renzo, “per ancòi, è nà tut a mónt; e Dio sol el sa cando che poderén èsser maridadi.” “Che?” la dis la Lùzia sbalordìda. El Renzo alor el g’à contà con pòce paròle la storia de ca doman: ela la scoutava co l’angóssa: e cando che la sentù ‘l nòm de don Rodrigo, “ah!” l’à sclamà, tuta rossa e tremolènta, “enfìn a chésto!” “Ma alor, voi el séveo…?” dis el Renzo. “Purtròpo!” à respondù la Lùzia; “ma enfìn a chésto!” “Ma che séveo po’?” “Nó sté farme parlar adès, nó sté fàrme plànzer. Vón a clamàr me mama e a mandar via le feumne: ge vòl che sìente cì da nòssa pòsta” Entant che la Lùzia la partiva, el Renzo l’à sussurà: “nó m’eo mai dit engot. Voutàndose ‘n àtimo la Lùzia la g’à respondù “Ah, Renzo!” El Renzo l’à ciapì sùbit che ‘l só nòm dit enzì ente chel moment, con chél tono ìo, da la Lùzia, el voleva dir: podéo dubitar che abia tasèst se nó l’era per vergot de sèri e che tornava a cont? Entant la bòna Agnese (la se clamava ‘nzì só mama de la Lùzia), che l’eva zà sospetà da ca paroléta enla récla, e avèndo vist sparìr só fiòla, l’era corèsta zó bas ancia ela per véder chel che g’era. La fiòla i la lagiada ìo col Renzo e l’è nada da che feumne che era ìo radunade, e dàndose na rezistrada con la ós, l’à dit mèio che la podéva: “el siór curat l’è malà; ancòi nó se fa ‘ngot.” Dit ste paròle i l’à saludade ‘nprèssa e l’è nada de nòu zó bas. Le feumne una al bòt le se n’è nade, e le se è sparpaiade a contàr el fato. Doi o trei le è nade enfìn su l’us del curat, per véder se l’era malà dalbòn. “En feurón,” à respondù la Perpetua da la finestra; e la notizia riportada a tute le àutre, l’à zoncià tut i ciastèi che le eva zà scomenzià a farse ente i só zervèi, ciastèi che adès i era deventadi ‘n mistèro ente i só discorsi.
Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. – A tua madre non dir niente d'una cosa simile! – Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule. – Parla, parla! – Parlate, parlate! – gridarono a un tratto la madre e lo sposo. – Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! – E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. – Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l'ultimo della filanda. Io raccontai subito... – A chi hai raccontato? – domandò Agnese, an-dando incontro, non senza un po' di sdegno, al nome del confidente preferito. – Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura...― Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre? Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima. – E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora! – E che t'ha detto il padre? – domandò Agnese. – M'ha detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, – proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s'era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da pensare... – Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto. – Ah birbone! ah dannato! ah assassino! – gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello. – Oh che imbroglio, per amor di Dio! – esclamava Agnese. Il giovine si fermò d'improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: – questa è l'ultima che fa quell'assassino. – Ah! no, Renzo, per amor del cielo! – gridò Lucia. – No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male? – No, no, per amor del cielo! – ripeteva Agnese. – Renzo, – disse Lucia, con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: – voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi. – Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...!― Lucia si rimise a piangere; e tutt'e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de' loro abiti. – Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pela-to, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia. – Lo conosco di vista, – disse Renzo. – Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d'uomo! Ho visto io più d'uno ch'era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui do-vevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quel-le cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. ― Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura. Giunto al borgo, domandò dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e v'andò. All'entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi –. Renzo fece un grande inchino: il dottore l'accolse umanamente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distri-buiti i ritratti de' dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d'allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s'alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt'anni addietro, per perorare, ne' giorni d'apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, ditemi il vostro caso. – Vorrei dirle una parola in confidenza. – Son qui, – rispose il dottore: – parlate –. E s'accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l'altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha studiato... – Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore. – Lei m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere... – Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa. – Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale. ― Ho capito, ― disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. ― Ho capito. ― E subito si fece serio, ma d'una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano. Così dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. – Dov'è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev'esser qui sicuro, perché è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco –. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: – il 15 d'ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo? – Un pochino, signor dottore. – Bene, venitemi dietro con l'occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand'espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno: – Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente. – E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh? – È il mio caso, – disse Renzo. – Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'ufficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh? – Pare che abbian fatta la grida apposta per me. – Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... una piccola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n'è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente. Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l'occhio, cercando di cavar il co-strutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato costui", pensava tra sé. – Ah! ah! – gli disse poi: – vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare, in un'occasione. Per intender quest'uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d'ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all'atto d'affrontar qualcheduno, ne' casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l'impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all'arbitrio di Sua Eccellenza. Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta. E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de' bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si rammenti d'aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto. – In verità, da povero figliuolo, – rispose Renzo, – io non ho mai portato ciuffo in vita mia. – Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c'è rimedio anche per quelle. D'ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito. Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un'attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand'ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l'ha intesa? l'è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver visto quella grida. – Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose? – Ma mi scusi; lei non m'ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è. Sappia dunque ch'io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest'estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s'era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta, per non tediarla, io l'ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo... – Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m'impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria. – Le giuro... – Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? Io non c'entro: me ne lavo le mani –. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo. – Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l'uscio; e, quando ve l'ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente. Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch'era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un'occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione. Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de' grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d'aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l'opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch'era accaduto. – Sicuro, – disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all'uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto – Deo gratias –. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l'imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto. – Oh fra Galdino! – dissero le due donne. – Il Signore sia con voi, – disse il frate. – Vengo alla cerca delle noci. – Va' a prender le noci per i padri, – disse Agnese. Lucia s'alzò, e s'avviò all'altra stanza, ma, prima d'entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un'occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità. Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: – e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos'è stato? – Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, – rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. – E come va la cerca? – soggiunse poi, per mutar discorso. – Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui –. E, così dicendo, si levò la bisaccia d'addosso, e la fece saltar tra le due mani. – Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte. – Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s'ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto. – E per far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, la mia donna? L'elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt'anni sono, in quel nostro convento di Romagna? – No, in verità; raccontatemelo un poco. – Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c'era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d'inverno, passando per una viottola, in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. ― Che fate voi a quella povera pianta? ― domandò il padre Macario. ― Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna. ― Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest'anno, la farà più noci che foglie ―. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, ― padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento ―. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav'uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch'era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de' frati. Que' giovinastri ebber voglia d'andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l'uscio, va verso il cantuccio dov'era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d'un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant'olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi. Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s'avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: – vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla chiesa. – Non volete altro? Non passerà un'ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio. – Mi fido. – Non dubitate –. E così detto, se n'andò, un po' più curvo e più contento, di quel che fosse venuto. Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de' cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl'infimi, ed esser servito da' potenti, entrar ne' palazzi e ne' tuguri, con lo stesso contegno d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d'esser alle mani tra loro, gl'inzaccherassero la barba di fango. La parola "frate" veniva, in que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d'ogni altr'ordine, eran oggetto de' due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d'umiltà, s'esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da' diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini. Partito fra Galdino, – tutte quelle noci! – esclamò Agnese: – in quest'anno! – Mamma, perdonatemi, – rispose Lucia; – ma, se avessimo fatta un'elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d'aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente... – Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, – disse Agnese, la quale, co' suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza. In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno. – Bel parere che m'avete dato! – disse ad Agnese. – M'avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! – E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava d'aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impiccio. – Ma, se il padre, – disse, – non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell'altro. Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. – Domani, – disse Lucia, – il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare. – Lo spero; – disse Renzo, – ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente. Co' dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire. – Buona notte, – disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d'andarsene. – Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente. – Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi. La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n'andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c'è giustizia, finalmente! – Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.
La Lùzia l’è nuda ént enla ciàmera sul somàs, entant che ‘l Renzo tut angossà, l’avisàva l’Agnese che i lo scoutava anc’ela angóssada. Tuti dói i s’è voutadi vèrs cì che ‘n séva de pù che lóri, per avér na spiegiazión che nó la podéva che èsser dolorosa: tuti doi i mossava, ‘ntel dolor, e con n’amor pur diferènt che i geva per la Lùzia, en fastìdi ancia chesto diferènt, perché l’aves tegnù scònt calche ròba e che roba! L’Agnese, ancia se la geva prèssa de sentìr parlar só fiòla, nó l’à podèst tegnìrse senza dàrge na brontolada. ― A tó mare nó dirge ‘ngót de na ròba del zènere! ― Ades vé digi tut ― à respondù la Lùzia, sugiàndose i òcli col grombiàl. ― Parla, parla! ― Parlà, parlà! ― tuti dói ensèma à zigià mare e spós. “Vèrzine Santissima!” l’à sclamà la Lùzia: “cì èl po’ che avròs credèst che le ròbe le podèss arivar enfìn a chésto!” E, con la ós róta dal sanglotìr, la g’à contà che pòci dì prima, entant che l’à nidéva de vòuta da la filanda, e l’era restada ‘ndré da le só compagne, g’era passà dinanzi don Rodrigo, ensèma a n’àuter siór; e che ‘l prim l’eva fat per tègnerla ìo a zàcole, che come che la contàva, nó lé era pròpi bèle; ma éla, senza dàrge fé, l'éva spessegià, e l’era arivada a zapàr le só compagne; e ‘ntant l’éva sentù chel’àuter siór sbotaciarse sbotaciàrse, e don Rodrigo che ‘l diséva: scometén. El dì dré, chésti i s’è fati trovàr ancór su la strada; ma la Lùzia l’era ‘n mèz a le àutre putèle, coi òcli bassi; e l’àuter siór che ‘l grignava come na vàcia, e don Rodrigo ‘l diséva: vederén, vederén. “Grazie a Dio,” dis la Lùzia, “chél dì ìo l’era l’ultim de la filanda. Mi g’ài contà tut subit…” “A cì po’ gé l’às contàda?” à domandà l’Agnese, che la g’èra nada su per el nas, volèndo savér cì che podéva èsser el confessór preferì dé só fiòla. “Me son confessada dal padre Tòfol, mama,” à respondù la Lùzia, con na osata calma come per domandàrge scusa. “G’ài contà tut, l’ultima bòta che sén nade ‘nsèma ‘nla glésia del convènt: e, se vé recordào, cà domàn, févi de tut per tiràrla ‘n lòngia, per tardivar chel tant che passàs àutra zènt del paés che néva da chéla, e ‘nzì da podér far la strada en compagnìa; perché, dopo chél bòt, le strade lé mé féva tanta de ca paura…” A sentìr el nòm del reverèndo padre Tòfol, el sentimént de rabia de l’Agnese él s’è ‘ndolzì. “Às fat benón” la dis “ma perché po’ nó g’às dit tut ancia a tó mama?” La Lùzia l’eva bu la só bona resón anzi doi: una de nó far patìr e spaventar ca pòra dòna de só mama, per na ròba che tanto nó l’avròs podèst trovàrge rimèdi; l’àutra de nó riszàr che la storia, che la géva da restar sepolìda, la nés da na bócia a l’àutra: tanto pù che la Lùzia la sperava che le só nòzze le avròs zonclà, en prinzìpi, ca bruta angiarìa. De ste dói resón però l’à parlà sól de la prima. “E a voi” l’à g’à dit po’ al Renzo, con cà osata de cì che vòl ricognósser a n’amìzi che l’eva bu tòrt: “e a voi g’évite da parlàrve de sta roba? Purtropo nidéo a savérlo adès!” “Ma che t’àl dit po’ ‘l padre?” à domandà l’Agnese. “El m’à dit de maridàrme ‘l pù prést possìbol, e che ‘ntant stàgîa dént da la me pòrta; e che pregîa ben el Sioredio; e che ‘l sperava che chél’ìo, nó vedèndome pù, ‘l m’averòs desmentegiàda. L’è stà ìo che mé son sforzada,” voutàndose de nòu vèrs al Renzo, ma senza vardàrlo ‘ntei òcli, e rossa come na brasa, “l’è stà ìo che ài fat la sfazzada, e che v’ài domandà mì de far pù prést che podéveo, e de ruàr su tut prima del tèmp che éven destinà. Cissà chél che eo pensà de mì! Ma mì vardavi ‘l ben de tuti, e 'nzì i m’éva consilià, e èri pù che segùra… e stamatina, nó avròssi pròpri ‘mpensà…” E cacì l’à troncà le parole con na bòna planzùda. “Ah candalùa! ah maledéto! ah sassìn!” el zigiàva ‘l Renzo, pestolàndo inanzi e ‘ndré per la ciàmera, e struciando ogni tant el mànec’ del cortèl. “Che giarbói, per amor de Dio!” la sclamàva l’Agnese. El putèl el s’è fermà de cólp davanti a la Lùzia che la planzéva; i l’à vardàda con amor, ma con na rabia de chéle, e ‘l dis: “chésta l’è l’ultima che ‘l fa chel sassìn.” “Ah! no, Renzo, per amor del ziél!” dis la Lùzia. “No, no, per amor del ziél! El Sioredio ‘l g’è ancia per la pòra zènt; come voléo che ‘l né aiùtia po’, se fén del mal?” “No, no per amor del ziél!” la ripetéva l’Agnese. “Renzo,” dis la Lùzia, con pù calma e pù fiducia: “voi gèo en mistér, e mì son bòna de laoràr, vèi che nén lontani che chél mostro nó ‘l sèntia pù parlar de noiàutri.” “Ah Lùzia! e dopo? Mì nó són ancór el tó òm e tì nó sés ancór la mé spósa! Sas tì se ‘l curàt el vorà farne le ciarte che sén liberi? N’òm come chel’ìo? Se fùssente maridadi, oh maledéta…!” La Lùzia l’à se metùda ancór a plànzer; e tuti tréi i è restadi ìo 'n silenzio, e ‘nte ‘n avelimént che l’èra tut el contràri dei àbiti da la festa che i g’éva adòs. “Sentìme, fiòi; déme fé a mì,” l’à dit, dopo ‘n bel pezzòt, l’Agnese. “Mì son nuda al mondo prima de voi; e ‘l mondo ‘n pocetìn el cognóssi ancia mì. Nó gé vòl spaventàrse pù de tant: el diàul nó l’è ‘nzì brut come che i dis. A noiàutri pòra zènt i glòmi i né ‘mpar pù ‘ngiartiàdi perché nó gé trovan el ciào; ma a le bòte en parér o la spòna de calchedun de lezù… sai bèn mì chel che vòi dir. Fè come che vé digi mì Renzo; né a Lecco; zercià ‘l dotor Azzecca-garbugli, contàge tut… Ma nó sté a clamàrlo ‘nzì, per amor del ziél: l’è ‘n soranòm. Gé vòl dìr siór dotór… Come sé clàmel pò adès? Nó mé vèn pròpri ‘n ment el só vero nòm: i lo clama tuti ‘nchél modo. Comunque, zercià chél dotór lònc’, sut, pelà, col nas rós e na màcla róssa su la gòuta.” “Mì ‘l cognóssi de vista” dis el Renzo. “Benón,” dis l’Agnese: “chel’ìo l’è na zima! Ài vist mì pù de un che l’era pù ‘ngiartià de ‘n poiàt enla stópa e nó ‘l séva endo che sbàter la testa, e, dopo esser sta n’oréta a càter òcli col dotór Azzecca-garbugli (me racomandi vèh, vardà de nó clamàrlo ‘nzì!), l’ài vist grignàrsela, ve ‘l digi mì. Togéve dré chéi càter pàiti, poréti! Che g’évi da tiràrge ‘l còl, per el trigét de doméngia, e portàgei; perché nó gé vòl mai nar con le man en man da chéi sióri. Contàge tut chél che è suzèst; e vederéo che ‘l vé dirà, su dói pèi, de che ròbe che a noi nó lé ne niròss en mént nància a pensàrge su per ‘n an.” El Renzo l’éva azetà sùbit sto parér pròpri volintéra; la Lùzia ància; e l’Agnese, orgoliósa de avérgel dat, l’à tòt su una al bòt dal polinàr che pòre bèstie, l’à metù ‘nsèma le só òt zate, come se la fés en mazét de fiori, e po’ i l’à plegiàde ént e strenzùde con en spac’, e i gé l’à consegnade ‘n man al Renzo; e ‘nzì, dat e abù parole de coràzo, l’è sortì da la man de l’òrt, per s-ciampàrge ai putelòti che se i l’avés vìst i g’è saròss córsi dré zigiando: el spós! el spós! Enzì, traversando i ciampi o, come che i dis da che bande, i lóci, el se ‘n néva per le stradéle de ciampagna, tut azità, e ‘ntant el pensava a la só disgrazia, e pensando al pròlec’ da fàrge al dotór Azzecca-garbugli. Lagi po’ pensar a cì che léz, come che le podeva star en viaz che pòre bestie, ligiade a ca maniera, tegnùde per le zate, co la testa ‘n zó, e per de pù enle man de n’òm, azità per tute le só passión, che ‘l sé sbrazzava entant che i pensiéri i gé buras-ciava ‘nla zùcia. L’andrizzava fòr drìt el braz per la rabia, po’ i lo auzzàva per la disperazión, i ló scorlava per aria, per sfida, e, ‘n tuti i modi el gé déva de chéi scorlóni, che ‘l féva sbalotàr che càter teste a spindorlón; entant che bèstie le sé ‘nzignava a beciàrse una co l’àutra, come che suzét de spés tra sòzi cando che ì è ente na situazión desperàda. Arivà che l’èra 'nla zitadina, l’à domandà ‘ndo che l’era la ciasa del dotór; calchedun g’à ‘nsegnà la strada, e ìo l’è nà. Entel nar ént entel palàz g’è nù ca gran sudizión che g’à i pòri òumni che nó à studià cando che i trova dinanzi a ‘n siór o a ‘n lezù, e po’ l’eva desmentegià tuti i pròlegi che ‘l s’éva preparà a dir; ma dàndoge n’oclàda ai pàiti, g’è nù coràzo. Nà ént en cosìna, el g’à domandà a la serva se se podéva parlar col siór dotór. Chésta cì l’à oclà le bestie, e, usada come che l’era a tòr ca sòrt de regiài, l’à g’à metù le man adòs, ancia se ‘l Renzo el tirava ‘ndré, perchè ‘l voleva che ‘l dotór el vedés e ‘l savés che ‘l géva portà vergot. L’è ciapità pròpri ‘ntant che cà feumna la diséva: “déme cì, e né inanzi”. El Renzo l’à fat na gran svérgla: e ‘l dotór el g’à fat en bòn azèt, e ‘l g’à dit “nidè pur avanti bon’òm,” e i l’à fat nar ént ensèma a el entel só studio. Sto studio l’era ‘n gran ciamerón, che ‘l geva su tréi parè i cadri dei dódes Cesari; la carta, l’era scuertàda da ‘n gran scafàl de libri vècli con su ‘n dé de pólver: en mèz, na tàula pléna 'n ciarte, de sfòi, de libréti, de avisi, con tréi o càter ciarége ‘ntorna, e da na banda na poltrona col s-cenàl àut e cadràt, refinida sui ciantóni da dói rizignòi de legn a forma de còrni, rivestida de coràm de vacéta, con tant de rebatini, che zèrti i era zà crodadi fòr da ‘n pèz, e cì e ìo i lagiava che la fòdra la se ‘nrizolàs. El dotór l’era vestì con en soraàbit ormai tut fluà, che per el passà ‘l g’èra ocorèst a Milan cando che g’èra calche causa pù importante. L’à serà l’us, e ‘l g’à fat coràzo al putèl con sté parole: “diséme ‘l vòs caso, bonòm.” “Voròssi dìrve na parola ‘n confidanza.” “Son cì,” g’à respondù ‘l dotór: “parlà pur”. E ‘l s’è comodà su la poltrona. El Renzo, en pè dinanzi a la taula, con na man entel cocùzzol del ciapèl, che ‘l féva zirar con l’àutra, ‘l dis: “voròssi savér da voi che eo studià…” “Diséme ‘l caso come che l’è,” à desmetù ‘l dotór. “Géo da scusàrme: noiàutri pòréti nó sén bòni de parlar ben. Donca voròssi savér…” “Benedéta zènt! séo tuti ‘nzì: envéze de contàr i fati, voléo far domande, perché géo zà le vòsse conclusión en mént.” “Scusàme, siór dotór. Voròssi savér se, a spaventàr en curàt, perché nó ‘l fàgîa ‘n matrimòni, g’è penale.” “Ài ciapì,” dis el dotór ‘ntrà de él, che però nó l’éva ciapì ‘ngot. “Ài ciapì.” E sùbit l'è deventà sèrio, ma pù che àuter, na serietà mista de compassión e de premùra; l’à strucià fòrt i làuri, fasèndo nir fòra na sigolàda che nó sé ciapìva bèn chel che la voléva dir, ma come che l’à scomenzià a parlar, s’à ciapì pù bèn. “Caso sèrio, caro putèl; l'è 'n caso prevìst. Eo fat bèn a nir da mì. L’è ‘n caso fàzile, zà preventivà entén zènto lezi, e… una pròpri l’an passà, del siór governatór. Adès vé fón véder, e tociàr con man.” Disèndo ‘nzì, el dotór, l’è levà su dal caregón, e l’à ficià le man en tut chél gazèr de ciarte, e ì l'à svoutolàde da sóta ‘n su, come se ‘l metés el gran entél star. “Endo èla pò adès? Vèi fòra, vèi fòra. Gé vòl aver massa ròbe a la man! Ma la doròs èsser cì de segùr, perché l’è na leze ‘mportante. Ah! eco, eco”. I l’à tòta ‘n man, i l’à desplegiàda fòr, l’à vardà la data, e, col mus ‘ncor pù serio, l’à sclamà: “el 15 de otóber 1627! Segùr; la è de l’an passà: leze fres-cia; l’è chéle che fa pù paura. Seo bòn de lézer, putèl?” “En pocetìn, siór dotór.” “Benón, nidéme dré con l’òcel, e vederéo.” Tegnèndo ca ciarta sventolàda per aria, l’à scomenzià a lézer, en zèrti tòci el sbrodolàva le parole e po’ ‘l sé fermàva a lézer pù plan e con tanto de zèsti àutre rige, conforma chel che gé féva còmot: “Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’ lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, ezètera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, ezètera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, ezètera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, ezètera ha risoluto che pubblichi la presente. E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... “sentìo?” di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... ezètera: Endo sés pò? ah! ecco; sentì cì: che seguano o non seguano matrimonii. Eh? “L’è ‘l mé caso,” dis el Renzo. “Sentì cì, sentì cì, g’è bèn àuter; e po’ dopo vederén la punizión. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, ezètera, che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tuto chésto ‘l g’à a che far con noi. Sì, sì, gé sén: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'ufficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?” “Empàr che i àbia fat la léze apòsta per mì.” Ah? èl verà no? sentì, sentì: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Nó sé gé s-ciampa: i g’è tuti: l’è come la val de Giosafàt. Sentì cì adès la punizión. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, ezètera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... na gnèna! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, ezètera. Gé n’è de ròba, ah? E vardà cì ‘nzì cì che à firmà: Gonzalo Fernandez de Cordova; e sóta Platonus e cì ancor: Vidit Ferrer: nó né mancia ‘ngot. Entant che ‘l dotór el lezéva, ‘l Renzo ‘l gé néva dré plan planìn co l’òcel, e ‘l vardava de ciapìrgen dént vergót, e ‘l vardàva de tègner a mént che parole sacrosante, chele che gé ‘mparéva le dovés èsser el só aiùt. El dotór, vedèndo ‘l só vantór pù atènto che stremì, el sé féva maravéa. “Che ‘l sia ‘n dritón stó cì”, el pensava ‘ntrà de él. “Ah! ah! Furbo” ‘l g’à dit dopo: “però vé séo fat taiàr el zuf. Séo ben sta fino vèh: però, a méterve ‘n le mé man nó ocoréva. El caso l’è serio, ma voi nó séo chel che son bòn de far ente zèrti casi. Per entènder sta butàda del dotór, gé vòl savér, o recordàrse che, alóra i róbleri de mistér, i litegiadóri de ogni sòrt, i g’èva l’abitudine de farse nìr el zuf, che po’ i sé tirava sul mus, come na viséra, cando che i enfrontàva calchedun, e che i pensava nezessàri masceràrse, e che la bulàda la fus de chele che gé voleva aver ardimént ma ancia prudenza. Le lezi nó lé era manciàde su sta moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all'arbitrio di Sua Eccellenza. Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta. E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Siché ‘l zuf l’era scasi na part de l’armadura, na mostrìna dei róbleri e dei slandróni; e per via de sto zuf, chesti i li clama zuffi. Sta parola i la dòpra ancor ancia sé adès entél dialèt l’è per dir piazzaròl e ‘ngot de pù: e forse nó gé sarà enzun da Milan, che nó i abia sentù dìrse can che i era pòpi, o i parenti, o ‘l maestro, o calche amico de ciasa, o calchedun tra i servi: l’è ‘n zuf, l’è ‘n zufét. “A dir la verità, da pòer fiòl,” à respondù ‘l Renzo “mì nó ài mai bù ‘l zuf en vita mia.” “Nó fén engot,” à respondù ‘l dotór, scorlàndo la testa, grignolènt tra ‘l maliziós e ‘l nervós. “Se nó vé fidào de mì, nó fén engot. Cì che dis bosìe al dotór, vedè putèl, l’è ‘n siòco che ‘l gé dirà la verità al zùdize. A l’avocàt gé vòl contàrge le ròbe zuste: po’ tócia a noi a ‘mbroiàrle. Se voléo che vé aiùtia, gé vòl che mé diségeo tut, da la A a la zeta, col còr en man, come cando che vé confessào. Géo da dìrme ‘l nòm de chél che v’à dat l’encombènza: el sarà de segùr n’òm de riguardo; e, ‘nde sto caso, mì narài da stó cì a far chel che l’è ‘l mé dovér. Nó gé dirai de segùr che séo sta voi a dìrme che ‘l v’à mandà el: fidàve. Gé dirai che vèni a supliciar la só protezión, per en pòer putèl acusà. E con él mé meterài d’acòrdi per ruar su l’afare en regola. Ciapìu ben che, se ‘l se la pòrta fòr el, séo salvo ancia voi. Se po’ ‘l fus tut colpa vòssa, nó ste a procupàrve, che mì nó mé tiri ‘ndré: n’ài zà tirà fòr da le pèzze tanti d’àutri e da rògne àuter che pézi… Basta che nó ébieo oféso na persona de riguardo, né sén ben ciapìdi, vé ‘mprométi de tiràrve fòr da le rògne: naturalmént con en pòc’ de spesa. Géo da dìrme cì che l’è l’oféso, come se dis: e, conforma la condizión, la calità, e l’umor de l’amico, gé vorà véder se né convièn farlo rigiàr drit protezèndolo, o trovàrge noi vergóta de penàle, e méterge ‘n pùles en la récla; perché, vardà, a manezàr ben le lézi, enzun g’à colpa, e ‘nzun l’è inozènt. Cant al curàt, se l’è n’òm de zudìzi, el starà su la sóa senza dir engót; se ‘nvéze ‘l fus en testón, g’è rimèdi ancia per chéi. Da ogni rògna se pòl nìrgen fòra; ma gé vòl n’òm che sa: e ‘l vòs caso l’è serio; serio, vé digi, serio: la léze la parla benón; e se la chestión se deve dezìderla tra la zustìzia e voi, enzì a càter òcli, ah séo bèn a posto. Mì vé parli da amìzi: le birbantàde gé vòl pagiàrle: sé voléo farla francia, bèzzi e sinzerità, dar fé a cì che vé vòl ben, ubidìr, far tut chel che vé sarà suzerì. Entant che ‘l dotór el diséva tute ste robe, el Renzo i lo vardava 'nciantà, come chel pìmperlo ‘n piazza che ‘l varda ‘n zugiadór de bussolòti, che, dopo che ‘l s’à ficià ‘n bócia metri e metri de stópa, el tira fòr metri e metri de nastro, che nó ‘l finìs mai. Cando che però l’à ciapì ben chel che ‘l dotór el voléva dir, e che straentendimént l’avés zapà, el g’à zoncià ‘l nastro ‘n bócia, e ‘l g’à dit: “ehi! siór dotór, ma che éo ciapì po’? l’è pròpri tut a la revèrsa. Mì nó ài spaventà enzun no; mì nó fón de sté robe, mì: e ‘l domàndia pur a tut el comun, e ‘l sentirà che nó ài mai bu a che far con la zustìzia. La brigantàda i mé l’à fata a mì, e vèni cì da el per savér chel che g’ài da far per aver la resón; e son pròpri contènt de aver vist ca léze. “Diàolo porco!” dis el dotór, coi òcli spalancadi. “Che refolòt mé féo su po’? Bòn bòn enzì l’è; séo tuti compagni: possìbol che nó sépieo mai dir le ròbe come che le è? “Ma ‘l mé scùsia; nó ‘l m’à dat el tèmp: adès vé conti mì come che la è nada. El g’à da savér che mì gévi da maridàrme ancòi,” e cì al Renzo gé nù ‘n gróp, “gévi da sposar na putèla, che gé parlavi ancór da stistà passada; e ‘ncòi, come gé digi, l’era ‘l dì stabilì col siór curàt, e éven dezìso e preparà tut ogni ròba per ben. Eco che ‘l curàt l’à scomenzià a tirar fòra zèrte scuse… bòn, per nó farla massa lòngia, mì l’ài fat parlàr che se ciapìssia, come che l’era zusto; e ‘l m’à dit che i géva proebì, se nó ‘l voleva zontàrge la pèl, de far sto matrimòni. Chél brigante de don Rodrigo…” “Eh sì dai valà!” l’à dit sùbit el dotór, tiràndo ensèma le zìlie, pirlando ‘nsu ‘l nas ros, e storzèndo la bócia, “eh dai valà! Che nidéo cì a spacàrme la testa con ste bale pò? Sti discorsi féli ‘ntrà de voiàutri, che nó séo bòni de pesar le parole; e nó sté nir cì a farli con en gialantòm che ‘l sa cant che le val. Néven, néven fòr da cacì; nó séo chel che ve ‘n diséo: mì nó mé ne ‘npazzi coi putèi: nó vòi sentìr zàcole de sta sòrt, zàcole per aria. “Vé 'l zùri…” “Fòr da le azze, vé digi: che fàrmen po’ mì dei vòssi zuraménti? Mì nó vòi savérgen, me ‘n lavi tute dói le man”. E ‘l sé lé fregiava pròpri come sé ‘l sé lé lavàs dalbòn. “Emparà a parlar: nó sé và a coionàr en gialantòm.” “Ma sentìme, sentìme,” el seitàva perengót el Renzo: el dotór, sèmper con na ós fòrta, i ló spenzéva con le man fòr da l’us; e, cando che i l’éva s-ciarà, la daverzù, l’à clamà la serva, e ‘l g’à ordinà: “dége ‘ndré sùbit a sto òm chel che l’à portà. Mì nó vòi engót, nó vòi engót.” Ca feumna nó l’éva mai obedì a n’órden compàgn, en tut el tèmp che l’era stada a servìr ente ca ciasa: ma i gé l’éva prononzià con na tal resoluzión, che nó l’à bazilà a obedìr. L’à zapà che càter pòre bestie, e i gé l’à date ‘ndré al Renzo, con n’oclada de compassión, come per dìrge: gé vòl ben che l’àbies fata grossa. El Renzo ‘l voleva far el complimetós; ma ‘l dotór nó la zedù nancia de ‘n zentimetro; e ‘l putèl pù sbalordì e pù enrabià che mai, la cognèst tòrse de vòuta le poiate che 'l dotór l'èva refudà, e tornar al só paes, a contàrge a le só feumne tuti i vantàzi de la só spedizión. Le feumne, ‘ntànt che l’era mancià, dopo che lé s’èra tiràde fòr i àbiti da la fèsta e metù chei dal dì de laóro, le s’èra metùde a consigliàrse de nòu, la Lùzia che la sanglotìva e l’Agnese che la sospirava. Cando che l’Agnese l’éva ben parlà de le gran soluzión che se sperava nidés dai consili del dotór, la Lùzia la diseva che gé voléva vardàr de aidàrse en tute le maniere; che ‘l padre Tòfol l’era n’òm da tègner da cont, e spezialmént cando che se trata de solevàr i poréti, de lagiàrge far a él; e che ‘l saròs sta na bela ròba fàrge savér tut chel che era suzèst. “Segùr,” la dis l’Agnese: e tute dói le pensava come far; sicome che nar lóre stesse al convènt, che l’era lontàn forsi càter chilometri, enchél dì nó le se la sentiva: e de segùr enzun che gés en poc’ de zudìzi, g’averòs consilià de farlo. Ma, ‘ntant che le vardava chel che se podeva far, le à sentù bàter su l’us, e ‘nchéla scasi sotaós ma che s’à ciapì ben en ― Deo grazias ―. La Lùzia, emmazinàndose cì che 'l podéva èsser, l’è corsa a davèrzer; e sùbit, l’à fat na sverglòta, è nù ént en zocolànte, con la só sacéta su la spala, e che ‘l tegnìva strénta per la zima ‘ntortolàda con tute dói le man sul stómec’. “Oh fra Galdino!” lé à dit le doi feumne. ― Sia lodato Gesu Cristo, ― dis el frate. ― Vèni ‘n zércia de le nós. “Vai a tòr le nós per i frati,” dis l’Agnese. La Lùzia l’è levada su, e l’è nada ‘n l’àutra ciàmera, ma, prima de nar ént, la s’è fermada dré la s-céna de fra Galdino, che l’era ìo drìt en pè che l’aspetava; e, metèndo ‘l dé su la bócia, l’à g’à dat n’oclada a só mare per fàrge ciapìr, ancia con na zèrta autorità che, per piazér, nó gé nidéss en mént de dir vergot. El frate da zércia, vardando co la cóa de l’òcel l’Agnese, el dis: ma, e la nòzza? Nó èrel ancòi? Ài vist per el paés en pòc’ de confusión, come sé gé fus na novità. Che è suzèst po’? “El siór curàt l’è malà, e gé vòl spostàr tut,” à respondù ‘n prèssa l’Agnese. Se la Lùzia nó la giavés dat ca oclàda la giaveròs respondù ente n’àutra maniera. “Come vala po’ con la zércia?” po' dopo la dis per tòrgerla via. “Mìgia tant ben, bòna dòna, mìgia tant ben no. Lé è tute cì”. El s’à tòt zó da adòs la sacéta fasèndola con dói man. “Lé è tute cì; e per méter ensèma sta gran méda, ài cognèst bàter e dés porte.” “Ma! l’è anàde magre, fra Galdino; e cando che se cògn mesurar el pan, nó sé pòl slargiàr nancia col rèst.” “Bòna dòna, sèo che rimèdi che g’è per far tornar i ani bòni? La ciarità. Eo sentù de chel miràcol de le nós, che g’è stà stiani, en chel convènt de la Romagna?” “A dir la verità, no, nó l’ài mai sentù, contàmel mò.” “Oh alora! Géo da savér che ‘n chel convènt, g’èra ‘n frate, che l’era ‘n sant, e ‘l se clamava padre Macario. En dì de invèrn, el passava per na stradèla, ente ‘n ciamp de ‘n nòs benefatór, en gran bòn òm ancia chesto, el padre Macario l’à vist sto benefatór dausìn a na gran nogiàra; e càter contadini con le zape per aria, che i scomenziàva a s-ciavar entorn a la planta per ciavàrla.” — Che gé féo a ca pòra planta? ― “à domandà el padre Macario.” ― Eh! padre, l’è ani e ani che nó la fa nancia na nós; e alór mì fón legna. ― Lagiàla star, dis el padre: vederéo che chest’an la farà pù nós che fòie. “El benefatór, che ‘l cognosséva cì che éva dit che parole, l’à ordinà sùbit a le òpere, che i slargiàs de nòu la tèra sóra le raìs; e, clamà ‘l padre, che ‘ntant el néva per la só strada, ‘l g’à dit,” — padre Macario, stautón farén a la mèza col convènt ―. “De ca profezìa era nà fòr la ós; e tuti i corìva a vardàr la nogiàra. Di fati, en primavéra, la era tut en fiór, e, a só tèmp, nós a bardèle. El bòn benefatór nó l’éva bu la sodisfazión de bàterle; perché l’era nà sul segrà prima de coìrle. Ma, se mé scoltào, el miràcol l’è sta tant pù grant. Chél bòn òm el g’éva ‘n fiòl tut de n’àutra pasta. Siché cando che è nù ‘l tèmp de bàter le nós, el frate da zércia l’è nà per scudìr la metà per el convènt; ma sto cì l’à fat a finta de nó savér engot, e anzi el g’à respondù da gran vilanàz, che nó l’éva mai sentù che i frati i fus bòni de far nós. El séo alór chel che è suzèst? En dì, (sentì chesta) chel baràba l’éva ‘nvidà arcanti dei só sòzi che i èra de la stesa risma, e, fraiànt, el contàva la storia de la nogiara, coionàndo i frati. Chei birbanti i à volèst nar a véder sta gran méda de nós; e i l’à menàdi su 'nla spléuzza. Ma sentìme cì: el davèrz l’us, el va vèrs el ciantón endo che l’éva emmuclà le nós, e ‘ntant che l’è dré a dir: vardà cì, vardà cì, e ‘l vàrda ancia él e ‘l vét… che po’? en bel mùcel de fòie de nogiàra séce. Nó èl sta n’esèmpi chesto no? E ‘l convènt envéze che zontàrgen el gé n’à gadagnà; perché, dopo che era suzèst sto fato, i frati da zercia i à tòt su tante de che nós, che n’àuter benefatór, che géva fat pecià el pòer zocolante, el g’à fat la ciarità de n’àsen al convènt, che i lo aiutàs a portar a ciasa le nós. E se féva tant de chel’òio, che ogni porét el nidéva a tòrsen, chel che gé féva al bisògn; perché noi frati sén come ‘l mar, che ‘l zapa aca da tute le man, e po’ i la tórna a dar fòr a tuti i ridi. A stó punto tórna fòr la Lùzia, col grombiàl enzì ciargià de nós, che la féva fadìgia a tegnìrlo, strenzéndo i dói ciantóni con i brazzi fòr driti. Entant che fra Galdino, tirà zó la sacéta da la spala, i la pozàva per tèra e i la desligiàva, per méter ént ca ciarità 'nzì bondante, só mare l’à fat en mus plén de maravéa e ancia ‘n pòc’ sevéra a la Lùzia, per tuta ca zenerosità; ma la Lùzia l’à g’à dat n’oclada, che la voleva dir: spetà che dopo ve spiégi tut. Fra Galdino nó ‘l séva pù che dir de complimenti, auguri, promésse, ringraziamenti, e, ciargià la sacéta su la s-cena, la fat per nàrsen. Ma la Lùzia, i l’à clamà, e l’à g’à dit: “pòssite domandàrve ‘n piazér; voròssi che gé diségeo al padre Tòfol, che giaveròssi premura de parlàrge, e se ‘l mé fa ‘l piazér de passàr cì el da noiàutre poréte, sùbit sùbit; perché noi nó podén nar enfìn a la glésia.” “Nó voléo àuter no? Nó passerà n’ora che ‘l padre Tòfol el sapia el vòs desidèri.” “Me fidi.” “Nó sté dubitar”. E dit enzì, el sé ‘nvià, en pòc’ pù gòbo e pù contènt, de can che l’era nù. A véder che na pòra putèla la mandava a clamàr, con tanta confidanza, el padre Tòfol, e che ‘l zocolante l’azetàva de fàrge chel piazér, senza maravéa e senza far tante storie, nó gé vòl pensar che sto padre Tòfol el fus en frate da ‘ngot, en fratón come tanti. Anzi l’era n’òm che g’éva n’autorità, sia ‘ntel convènt, che dapertut ìo ‘ntorna; ma le condizión dei frati le era tali che per lóri nó g’èra ‘ngot de massa bas o massa àut. Servìr i pù disgraziadi, e èsser servìdi dai caporióni, nar ént entéi palazzi e ‘nle talambàre con él stés portamént de umiltà ma ancia de serietà, èsser a bòte, entela stessa ciasa, come ‘n passatèmp, e na persona che sé nó la g’èra nó se dezidéva ‘ngot, domandar la ciarità per tut, e farla a tuti chei che nideva al convènt, a tute ste ròbe el frate l’èra usà. Per le strade, el podéva ‘ncontràr tant en prìnzipe che ‘n zinoclón, gé basava la pónta del cordón, che na sclapàda de desìpoi che, fasèndo finta de begiàr entrà de lóri, i gé ‘nlociàs la barba. La parola “frate” a chel tèmp la nideva pronunziàda col pù gran riguardo, ma l’era ancia desprèzzada: e i capucini, forsi pù de tuti i àutri ordini de frati, i era sozèti a tuti dói sti sentimenti, e i provava le doi fortune una contraria a l’àutra; perché, nó avèndo ‘ngot, essèndo vestìdi con la tònegia che l’era n’àbit fòr dal normale, mossàndo de pratigiàr la mission de l’obediènza, i se esponéva o a la venerazión o a l’ofésa, conforma l’umor e i divèrsi caràteri e l’empensàr de la zènt. Partì fra Galdino, l’Agnese l’à sclamà: “tute che nós! pròpri chest’an!” “Perdonàme mama,” g’à respondù la Lùzia; “ma se avéssente fat la ciarità come i àutri, ‘l fra Galdino l’averòss cognést nar entórna per le ciase cissà Dio per cant, prima de aver la sacéta pléna; Dio sól ló sa cando che ‘l saròs tornà de vòuta al convènt; e, con tut che zàcole che l’averòs fat, Dio sól lo sa se ‘l se saròs tegnù a mént…” “Às pensà benón; e po’ l’è tut ciarità che fruta sèmper,” l’à dit l’Agnese, che pur con i só difetòti, l’era na gran bòna feumna, che come se dis, la se saròs petada ‘ntel fòc’ per che l’unica fiòla, endo che l’eva metù tuta la só sodisfazión. Enchéla, è arivà ‘l Renzo, e nidèndo dént con na musara ‘nrabiada e ‘ntel stes tèmp avelìda, l’à petà i càter pàiti su ‘nte na tàula; e per chel dì l’è sta l’ultima ofésa a che pòre bestie. “Bel parér m’éo dat!” el g’à dit a l’Agnese. “M’éo mandà propri da ‘n gialantòm, da un che àida i poréti!” E ‘l g’à contà del só consulto col dotór. L’Agnese, sbalordìda de na ressuìda ‘nzì trista, la voléva dar d’antènder che ‘l só parér l’era bòn, e che ‘l Renzo no l’eva savèst far le robe come che lé néva fate; ma la Lùzia l’à blocà sùbit ca chestión, disèndo che éla la sperava de aver giatà n’aiùt miór. El Renzo l’à tòt ancia sta speranza, come che gé tócia a chéi che i è ‘nla disgrazia e ‘nla pégola. El dis: “Ma, se ‘l padre, nó ‘l gé trova ‘n rimèdi, el troverài mì, ente ‘n modo o ‘nte n’àuter.” Le feumne lé consiliava la paze, la pasiènza e la prudenza. “Doman,” la dis la Lùzia, “el padre Tòfol el nirà seguriènto; e vederéo che ‘l troverà calche rimèdi, de chei che noiàutri poréti nó sén boni nancia de ‘mmazinàrne.” “Spéri;” dis el Renzo, “ma, ad ogni modo, en calche maniera varderài de mandàr zó ancia chésta. Prima o dopo, se Dio vòl, a sto mondo gé sarà ancia zustìzia.” Con sti discorsi dolorósi, e tuti i fati che én contà fin cì, ancia chel dì l’èra passà; e ‘l scomenziava a nìr nòt. “Bòna nòt,” l’à dis avelìda come ‘n ciagn bastonà la Lùzia al Renzo, che nó l’era bòn de nàrsen da ca ciasa. “Bòna nòt,” g’à respondù ‘l Renzo, ancor pù avelì. “Né àiderà calche sant,” dis la Lùzia: “vardà sté atènto, e rassegnàve. La mare la g’à tacià àutri consili de chel tipo; e ‘l spós l’è sortì, col còr che ‘l batéva emprèssa, e ‘l sé ripetéva sèmper che paròle strane: ― se Dio vòl a sto mondo prima o dopo gé sarà zustìzia! ― Perché se sa che n’òm ciargià de tut chel dolór nól sa pù chel che ‘n se ‘n dis.
Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura. — Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? — Bisogna soddisfare a tutte queste domande. Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso. Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore. Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: “eh! io fo l’orecchio del mercante.” Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto. Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato. Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: “fate luogo.” “Fate luogo voi,” rispose Lodovico. “La diritta è mia.” “Co’ vostri pari, è sempre mia.” “Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.” I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti. “Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.” “Voi mentite ch’io sia vile.” “Tu menti ch’io abbia mentito.” Questa risposta era di prammatica. “E, se tu fossi cavaliere, come son io,” aggiunse quel signore, “ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.” “E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.” “Gettate nel fango questo ribaldo,” disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi. “Vediamo!” disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada. “Temerario!” gridò l’altro, sfoderando la sua: “io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.” Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sè, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla. “Com’è andata?” — È uno. — Son due. — Gli ha fatto un occhiello nel ventre. — Chi è stato ammazzato? — Quel prepotente. — Oh santa Maria, che sconquasso! — Chi cerca trova. — Una le paga tutte. — Ha finito anche lui. — Che colpo! — Vuol essere una faccenda seria. — E quell’altro disgraziato! — Misericordia! che spettacolo! — Salvatelo, salvatelo. — Sta fresco anche lui. — Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. — Scappi, scappi. Non si lasci prendere.” Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: “è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.” Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benchè l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo, (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento) che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, “consolatevi” gli disse: “almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo.” Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. “E l’altro?” domandò ansiosamente al frate. “L’altro era spirato, quand’io arrivai.” Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso. Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati. La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso. Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: “è un troppo giusto dolore.” Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo. Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. “Permettetemi, padre,” disse, “che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo.” Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, “venga domani,” disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato. Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: — sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione. — Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto. C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, nè veniva a quell’ umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: “io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.” Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, “alzatevi,” disse, con voce alterata: “l’offesa... il fatto veramente... ma l’abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S’alzi, padre... Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo.... un po’ impetuoso... un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizione di Dio. Non se ne parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura.” E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: “io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!” “Perdono?” disse il gentiluomo. “Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...” “Tutti! tutti!” gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un “bravo! bene!” scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: “padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’ amicizia.” E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, “queste cose,” disse, “non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’ aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono.” Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato. Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sè, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: — diavolo d’un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) — diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello. — La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano. Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’ umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo. Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva. Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni. Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: “oh padre Cristoforo! sia benedetto!”
El sol nó l’era ancor levà dal tut, can che ‘l padre Tòfol l’è partì dal convènt de Pescarenico, per nar su ‘nla ciaséta ‘ndo che i lo spetàva. Pescarenico l’è ‘n paesòt, su la sponda ‘nzancia de l’Adda, ma se pòl dir del lac’, arènt al pònt: en pugnàt de ciase, abitade perlopù da pes-ciadori, e dobàde cì e ìo da le ré destendùde a sugiàrse. El convènt l’era pozà (e chel ciasamént el g’è ancora) al de fòr e dinanzi al paés, con la strada che porta da Lecco a Bergamo, che gé passava ‘n mèz. El ziél l’era serén come l’ambra: man a man che ‘l sol el sé auzzàva dal de dré del mónt, se vedeva i só razi, da le zime dei monti al de là de la val, rodolàr, come se i se desplegiàs, zó per le còste, e ‘nla val. N’ariéta d’autón, la destaciàva dai rami le fòie passe del moràr, e i le portava a crodàr pòc’ lontàn da la plànta. De cà e de là, entéi vignalòti, sui rési ancor drìti, le fòie le sluséva con tute le tinte sul rós; la tèra lauràda da pòc’, negra come che l’era, la se distinguéva entéi ciampi de tópe biance che le slusegiàva per la rosàda. L’era tut en bel véder; ma ogni cristiàn che se vedéva, el tè féva 'n gran pecià. Ogni tant, se ‘ncontrava pouréti, sdrazzadi e che i era pèl e òssi, zèrti i era vècli del mistér, zèrti obligiàdi a slongiàr la man perché i era ‘n misèria. I passàva ziti dausìn al padre Tòfol, i lo vardava che i féva pietà, e, ancia sé i séva che da el nó i podèva sperar engót, perché en frate capuzin nó ‘l tociàva mai en soldo, i gé féva na svérgla de ringraziamént, per la limòsina che i eva zapà o che i néva a zerciàr al convènt. A véder i contadìni sparpaiàdi per i ciampi, l’era ancor pù dolorós. Zèrti i seumnàva, e per sparagnàr, i tréva fòr le soménze come 'l fus òr, e malvolintéra, l’era come riszàr el pan da magnar; zèrti i ‘mplantava la vàngia a stènto, e i voutàva flàci le bléste de tèra. Na pòpa magra ‘mpiciada, ìo a past, la tegnìva per la ciavézza na vaciòta sinigìda, e la vardava inànzi, e ògni tant la sé sgobàva ‘mprèssa a robàrge calche erba da magnar a ciasa, erbe che la gran fam géva ‘nsegnà che le era bòne ancia per la zènt. A ogni pas, tuti sti spetàcoi nó i féva che aumentàr la malancolìa del frate che zà ‘l ciaminava col brut pensiér de nar a sentìr calche disgrazia. ― Ma perché po’ ‘l sé togéva tant pensiér per la Lùzia? E perché po’, sùbit, al prìm avìso, el s’era movèst con tanta premùra, come sé i l’avés clamà el padre provinziàl? E cì èrel po’ sto padre Tòfol? ― A tute ste domande gé vòl dàrge sodisfazión. El padre Tòfol da *** l’era n’òm pù vizìn ai sesànta che ai zincànt’ani. La só testa pelàda, men che la coronàta de ciavéi che gé ziràva ‘ntórn, come che era tosà tuti i capuzini, ogni tant la sé levàva e la féva véder vergot de sevéro e de ansiós; e sùbit la sé sbassàva, en ségn de umiltà. El géva la barba biancia e lòngia, che gé scuertava le gòute e ‘l barbizòl, e che la mossàva ancor mèio el rèst del só vis che l’astinenza, che zà da ‘n gran pèz el pratigiàva, la gé aumentava la serietà. I só òcli s-ciavadi i vardava perlopù per tèra, ma a bòte, de cólp, i te fulminava; come dói ciavài col morbìn, menadi per la ciavézza da ‘n boiàr, e che i sa che con él nó i pòl vénzerla, però i fa lostes ogni tant, calche sgiambét, ma che i pàgia sùbit con na bòna tiràda del mòrs. El padre Tòfol nó l’èra sèmper sta ‘nzì, e nó l’era nància sta sèmper Tòfol: el só nòm de batésem l’èra Lodovico. L’era fiòl de ‘n marciàder da*** (tuti sti asterischi i là metùdi per paura chél che m’à contà tuta la storia) che, entéi ultimi ani, essèndo ‘n gran bacàn, e con chel fiòl ìo sol, la ‘mplantà ìo de laoràr e ‘l s’è metù a far el siór. Essèndose metù a far el sioràt, l’à scomenzià a avér en gran respét per tut el tèmp che l’éva petà via a laoràr. Sicome l’era ormai segùr de sta ròba, el féva de de tut per scònder via che l’era sta en merciandèl: e volintéra l’avròss volèst desmentegiàrlo ancia él. Ma la botègia, le stòfe, el lìber dei conti, el mètro, i era sèmper en la só testa, come l’ombra del Banco al Macbeth, ancia ‘ntant che ‘l magnava e ‘l bevéva, o che l’era con la só compagnìa de scrocóni. E nó sé pòl emmazinàrse l’atenzión che chésti i g’è metéva per schivar ogni paròla che podés fàrge nìr en mént al padrón de ciasa che ofrìva ‘l trigét, el só vècel mister. Per contàrnen una, en dì che i era dré a ruàr de magnàr, entél momento che se è pù alégri, can che nó sé pòl dir se è pù contènti i fraióni o ‘l padrón che eva ofèrto ‘l past, el sé godeva a coionàr un de chéi sòzi, el pù gran golosón del mondo. Chésto cì per risponder al schèrz, senza la minima intenzión de maliziar, anzi pròpi sclèt come ‘n pòpo, ‘l g’à respondù: «eh! caro mio, mì fón récle da comerziànte». Él pòver’òm el s’è acòrt sùbit che la paròla che l’éva dit nó la sonàva ben: la vardà, con na musara stralunada, chéla del padrón, che l’era putòst rabiósa: un e ancia l’àuter i avròs volèst tornar col mus de prima; ma ormai nó l’era pù possìbol. I àutri fraióni i pensava ‘ntrà de lóri de tòr via ca mèza vergogna, cambiando discórs; ma, ‘ntant che i pensava i taséva e ‘nte chél silènzi, el disonór l’aumentava. Tuti i era atènti a nó vardàrse un con l’àuter; ognun vedéva che tuti i pensava ‘l stes pensiér che tuti i voleva scònder. L’alegrìa, per chél dì ìo, l’era nada su per el ciamìn; e l’imprudènt, o a dirla pù sclèta, el scarognà, nó l’è pù sta ‘nvidà. Só pare del Lodovico l'à passà i ultimi ani a sto modo, sèmper con ste angósse, sèmper con ca paura de èsser coionà, e senza mai pensar che ‘l vénder nó l’è na ròba pù redìcola che ‘l compràr, e che ‘l mistér che ‘l géva rispèt de aver fat, i l’éva fat per tanti ani en mèz a la zènt, e senza tanti zìsmi. L’à tirà su só fiòl come ‘n nòbile, come che l’era a chei tèmpi, e per chel tant che la leze e le régole le gé permetéva, ‘l g’à fat dar lezion da maestri de lingua e de cavalerìa; e po’ l’è mòrt, e i l’à lagià siór e ‘ncór zovenòt. El Lodovico l’era nù su come se tira su ‘n nòbile; e ‘n mèz ai gratarécle ‘ndo che l’era cressù, i l’éva usà a èsser tratà con gran riguardo. Ma, cando che l’à volèst mesdàrse coi sioràti de la só zità, nó l’era pù come che l’era usà; e l’à ciapì sùbit, che, sé ‘l voléva èsser al par con lóri, come che giaveròs plasèst, ge convegnìva star ìo calmo, sbassàr le récle, star sèmper sóta e mandàrnen zó una de spés. En modo de viver enzì, nó ‘l néva d’acòrdi, né co l’educazion, e nancia col caràter del Lodovico. E alór en pòc’ secià, l’à arbandonà ca compagnia. Però a stàrge lontàn gé desplaséva; gé paréva che chesti i avròss dovèst èsser só sòzi; ma che però i l’averòs volèsti pù a la man. Sto misto de simpatìa e de rancòr vèrs i nòbili e ‘l nó podèr avér amìzi ‘ntrà ca zènt ìo, ma ‘n calche modo volér èsserge ént con chesti, el s’à metù a compèter coi lussi e ‘l splendór, vadagnàndose a sto modo antipatìe, invidie e redicoléz. El só caràter, onèst ma ancia spòtico, i l’éva portà a compèter su àutre ròbe ancór pù sèrie. El g’èva en sinzéro ribréz per le angiarìe e per le persecuzión: ribréz che ‘l cresséva ancór de pù per ca zentàia che i ne ‘n féva tante enten dì; e che l’èra pròpri chéi che nó ‘l podéva véder. Per calmar o per pratigiàr ste passión enten bòt sól, el togéva volintéra le part de ‘n pòr òm bastonà, el sé ‘ntestàva de far rigiàr drìt un de chéi buli, el sé ‘ntrometéva en le bègie, tiràndonse adòs n’àutra; man a man che ‘l néva avanti ‘nzì, l’è nù a èsser en protetór de la pòra zènt, e chel che ciastigiava ‘l padrón spòtico. L’era ‘n laóro fadigós; e podéo savér se ‘l pòer Lodovico, nó ‘l géva tanti de chei nemìzi, mistéri e pensiéri. Estra a le bègie con chésti, el tribulava de sèito con chel che l’era ‘l só caràter; perché a vénzerla ente una de che chestión (e per de pù ‘n chéle ‘ndo che ‘nvéze nó i la géva venzùda), el cognéva dopràr ancia él calche ‘mbròi o angiarìa, che però la só cossiènza nó la gé perdonava. El cognéva aver entórn en bel nùmer de róbleri; e, sicome ancia el ‘l gèva da portàrselo fòra e aver n’aiùt pù fòrt, el cognéva zernìrse i pù malandrìni, chei pù birbanti; e vìver ensèma a le canàie, per amór de zustìzia. Pù de ‘n bòt, o perchè l’era avelì dopo na chestión mal reussìda, o perché l’era sèmper con en pè levà per en perìcol, o perché l’era stuf de cognérse sèmper vardàr entórna, o stomegià de tuti chei lazeróni che ‘l géva ‘ntorn, col pensiér de ‘n domàn malsegùr, le sostanze che le sé asbassàva dì per dì sèmper de pù, a bòte per el ben a bòte per le só bulàde, per tut chesto, a bòte ‘l pensava de farse frate; che a chel’epoca l’era la strada pù còmoda per nó aver pù rògne. Ma ‘nfin ìo l’era sol fantasìe, pò è nù chel dì che l’à dezìso dal bon a ciàusa de n’azidènt, el pù serio che nó gé fus mai ciapità. En dì l’era con dói róbleri ente na strada de la só zità, ensèma a ‘n zèrto Tòfol che l’era sta giarzón ente na botégia e che dopo che i l’éva serada su, l’era deventà ‘l capo dei servi en ciasa del Lodovico. Sto òm l’arà bu zirconzìrca zincant’ani, e ancór da cando che l’era zóven, l’era afezionà al Lodovico, che l’éva vìst nàsser, e ‘ntrà la pagia e calche regiàl el gé deva da vìver a el e ancia da mantégner la só familia che l’era putòst numerosa. El Lodovico l’à vìst nìr da lontàn en tale, spòdec’ de professión, che nó l’éva nancia mai parlà ‘nsèma en vita sóa, ma che però el ge steva su le azze, e naturalmént l’era ricambià, siccome ente chel mondo ìo podér odiar e èsser odiadi senza cognóserse l’era ‘n vantàzi. Sto cì l’era ‘nsèma a càter róbleri, e ‘l nidéva inanzi drìt, col pas da supèrbo, con la testa àuta, con na musara da galiòto che la vardava da sóra ‘n zó. Tuti dói i ciaminava rasènt el mur; ma ‘l Lodovico (notaben) i ló sfioràva da l’andrita; e chesto, da sèmper, el te deva ‘l dirìto (varda tì endo che ‘l va a ficiàrse el dirìto!) de nó destaciàrte dal mur, per far passàr calchedun àuter; e a sta regola, a chel tèmp, i ge féva ‘n gran caso tuti. L’àuter però el pretendeva, al contrari, che ‘l dirito i ló giavés el, dato che l’era nobile e che al Lodovico gé tociàs portàrse en mèz a la strada per farlo passàr e tuto chésto per via de n’àutra leze. Siché, come che suzét ‘nte tante d’àutre chestión g’era dói regole che nó le neva d’acòrdi una con l’àutra e nó èra mai sta dezìso cala che fus chela che valeva; e chesto nó ‘l feva che ciausàr bègie tut le bòte che un de chéi testóni nó ‘l se ‘ncontràs con n’àuter ancór pù testàrt. I dói buli i sé nidéva ‘ncòntra, tuti dói rasènt el mur, dói fegùre encolàde al mur, ma che le sé movéva. Cando che i è stadi a na carta dal nas, el siór supèrbo, vardando da sóra ‘n zó el Lodovico, con la testa àuta, e con chel far da bulo, ‘l g’à dit, vilanamént: «lagiàme passàr». «Lagiàme passàr voi,» g’à respondù el Lodovico. «La ‘ndrìta l’è mia.» «Ma con chéi come voi, g’ài sèmper dirìto mì.» «Ma segùr, se la supèrbia de chei come voi, el fus léze per chei come mì.» I róbleri tant de un che de l’àuter i era restadi ìo fermi, tuti dré al só padrón, vardàndose de travèrs, con le man su le spade, e pronti a begiàr. La zènt che nidéva de cà e de là, la se tegnìva lontana, e la osservava ‘l fato; tuta ca fóla de zènt nó la féva che zaigiàr sèmper de pù l’empontadura de chei dói testóni. «Vèi cì ‘n mèz, manoàl vigliaco, che nó ses àuter; che tè l’ensegni mì come che se trata coi nòbili.» «Dìges na bosìa mì nó son vigliàco.» «E tì ses en bosiàdro a dir che mì ài dit bosìe.» Sta risposta cì la era de regola. «E, se tì fùstus en cavaliér, come che són mì,» g’à tacià chel siór, «te faròssi véder mì de cappa e spada, che a dìr bosìe ses tì.» «Chesta l’è na scùsa per schivàrve de passar ai fati ciàusa le vòsse paròle enzì sfazàde.» «Tirà stò birbànte 'n mèz a la strada,» l’à ordinà chel nòbile ai só róbleri. «Próvete!» l’à dit el Lodovico fasèndo ‘n pas endré, e metèndo man a la spada. «Ardìto!» l’à zigià l’àuter, sfodràndo la sóa: «Cando che la sarà enmaclàda del tó sànc, chésta mì la s-ciavizzerai.» E i s’è sautàdi adòs tuti dói; i servi de le dói pàrt, i s’è petàdi ‘nla barùfa per difènder i só padróni. El combatimént l’era besoàl, sìa per el nùmer, e ancia perché ‘l Lodovico el vardava de schivàr i cólpi, e a desarmàr el só nemìzi, putòst che a copàrlo; ma chel’ìo envéze el voléva pròpri copàrlo, a ogni cóst. El Lodovico l’éva zà zapà na stiletàda da una de che linzére, e na sgrafiàda soravia a na gòuta, e ‘l só nemìzi l’era dré a dàrge adòs per mazàrlo; el Tòfol, vedèndo ‘l só padrón entel perìcol, l’è nà col só cortèl adòs a chél nobile spòdec’. E sto cì, con tuta la ràbia che ‘l g’eva ent, el s’è voutà contra de el, e i la ‘nfrizzà con la spada. A véder enzì, el Lodovico, nó ‘l g’à pù vist, e l’à ‘mplantà la soa enla pànza del siór, che l’è crodà per tèra en fin de vita ensèma al pòer Tòfol. I róbleri del nobile, visto che l’era finida, i è s-ciampadi a giàmbe levade, smassacràdi: chéi del Lodovico redùti mal ancia lori, nó essèndoge pù ‘nzun da bàter, e per nó restàr empegoladi ‘ntrà la zènt, che zà la coréva ìo curiosa a véder, i è s-ciampadi da n’àutra banda: e ‘l Lodovico el s’è giatà ìo da só pòsta con chéi dói mòrti per tèra, en mèz a tuta ca fóla. «Com’èla stada po’? ― L’è un. ― I è dói. ― El g’à fat n’àsola ‘n la panza. ― Cì èl po’ che i à mazzà? ― Chel spòdec’. ― Oh, Maria Vèrzine, che gazèr! ― Cì che se le zércia i le trova. ― Basta na bòta e le pàges tute. ― L’à ruà ancia el. ― Che cólp! ― L’è na bruta fazènda. ― E chel’àuter disgrazià! ― Iòs! Che spetàcol! ― Salvàlo, salvàlo. ― L’è metù mal ancia el. ― Nó ‘l vedèo no come che l’è conzà, el pèrt sanc da tute la man. ― Che ‘l s-ciàmpia, che ‘l s-ciampia. Che nó ‘l se làgîa zapàr.» Tute ste paròle, l’era chele che se sentìva mèio en tuta ca trebiliana de la fóla e le voléva dir tute la stessa ròba; e, col consìlio de calchedun, è nù di fato ancia l’aiùt. Chel fato l’era suzèst vizìn a na glésia dei capuzini, che l’era, come tuti i sa, el refugio pù segùr per nó fàrse zapàr dai sbìri, e da tut chel complesso de ròbe e de zènt che se clamava zustìzia. El Lodovico ferì e che l’era perdù via, l’è sta portà da la zènt en ca glésia; i frati i l’à tot da le man del pòpol, con la racomandazión: «l’è ‘n gialantòm, l’à copà ‘n lazerón supèrbo: i l’à fat per difènderse: i l’à tirà ‘n mèz per i ciavéi». Prima de chel dì el Lodovico nó l’éva mai copà ‘nzun; e, ancia se i delìti a chéi tèmpi i suzzedeva de spes, e che tuti i era usadi a sentìr dìr de copaménti, epur a véder chel’òm che era mòrt per salvàrlo, e l’àuter che i l’éva copà pròpri el, l’à bù n’impressión che nó i l’éva mai provà prima. El só nemìzi per tèra col mus che l’era passà de cólp da furiós e ciatìo a mòla mòla da mòrt, l’è sta na ròba che g’à cambià enten àtimo, la só cossiènza. Strozzegià al convènt, nó ‘l seva nancia el endo che l’era, e chel che ‘l feva; e cando che ‘l s’è fat fòra el s’è giatà enten lèt de l’infermerìa, en le man de ‘n frate zerùdec’ (de sòlit i frati capuzìni i gé neva un per ogni convènt), che ‘l gé metéva su fasséte su le dói ferìde che l’éva zapà ‘ntel regòi. L’incombènza de chel padre l’era de assìster chéi che era en fìn de vita, e l’era nà de spés per le strade a far sto servìzi, e ancia sto bòt i l’éva clamà sùbit endo che g’era sta la barùfa. Cando che l’è tornà de vòuta ente l’infermeria del convènt, l’è nà dausìn al lèt endo che i eva metù el Lodovico l’à dit: «consolàve,» «almén l’è mòrt confessà, e ‘l m’à dit che ‘l vé perdona e de domandàrve ‘l vòs perdón». Al pòer Lodovico ste parole le g’à fat nir en mént ancor de pù l’angóssa e ‘l rimòrs per chel che l’éva combinà, e ‘ntel stes tèmp na gran compassión per chel’òm che l’éva copà. «E l’àuter?» l’à domandà po’ al frate. L’àuter l’èra apena mòrt, cando che son arivà mì.» E ‘ntànt fòr dai portóni e ìo ‘n ziro al convènt, s’era binà en mùcel de curiosi: però apena che è arivà i sbiri i à parà via tuta ca zènt e i s’è metùdi arènt al portón, en modo che ‘nzun podés nir fòr senza che ‘l fus vìst. En fradèl del mòrt, dói só cosìni e ‘n só zio anziàn, i s’era presentàdi armadi ‘n fin ai denti con dré na sclapada de róbleri; i s’èra metùdi a far la guardia ìo intorn e i osservava, col far da spòtici, i curiosi che s’era binà ìo e che nó i fidava a dir: la gé sta ben; ma i lo géva scrìt sul mus. Apena che ‘l Lodovico el s’era tirà su, l’à clamà ‘n frate confessór, e ‘l g’à domandà ‘l piazér de zerciàr la vedova del Tòfol, e de domadàrge perdón a só nòm per èsser sta la ciàusa, ancia se nó i l’éva volèsta, de chel che era suzèst, e, ‘ntel stes tèmp, che ‘l giaveròs pensà el a mantègner la famìlia. Pù che ‘l pensava ai só fastìdi, pù gé nidéva ‘l desidèri de farse frate, pensiér che g’era nù àutre bòte per el passà: gé pareva che ‘l Sioredio ‘n persona i l’aves metù su ca strada ìo dàndoge ‘n segn de la só volontà, fasèndolo ciapitar ‘nten convènt, pròpri ‘nchel momènt, e l’à fat la sèlta. L’à fat clamàr el frate guardian, e ‘l g’à confessà ‘l só desidèri. Per risposta, el g’à dit che ‘l doveva star atènto a tòr dezisión senza pensàrge su; se però l’era pròpri chel che ‘l desiderava, nó i l’avròs refudà. E alor, l’à fat nir en notaio, ‘l g’à ‘ndetà na donazión de tut chel che ge restava (che l’era ‘n gran patrimòni) a la familia del Tòfol: na sóma a la védoa come se ‘l fus na contradòta, e ai òt fiòi del Tòfol ‘l rèst che l’éva lagià. La sèlta del Lodovico l’èra zùsta al vèrs per i frati, che, avèndol ospità, per colpa sóa i géva na bèla rògna. Mandàrlo fòra dal convènt voleva dir méterlo en le man de la zustìzia, che l’era come dàrgel en bócia ai só nemìzi e chésto nó se podéva nància tòrlo ‘n considerazión. Avròs volèst dir che i frati i perdeva tut el crèdit che i géva col pòpol e po’ i saròs stadi critegiàdi da tuti i capuzìni de l’univèrs per aver volèst trasgredìr el dirìto de tuti, i se saròs tiràdi adòs el fastìdi del Vésco che ‘l se sentiva ‘l tudór de chel dirìto. Da l’àutra, la famìlia del mòrt, che l’era potènta assà e che la géva ancia aleati nòbili e che la géva l’intenzión de vendiciàrse, e tuti chéi che se fus metùdi per travèrs i l’avròs consideradi nemìzi. Sta storia però nó la dis che ai parènti gé ‘nteressàs tant del mòrt e nó ‘mpar nancia che i abia planzù pù che tant: la storia la dis sol che tuti i era ciàudi per avér tra le man el sassìn o vìo o mòrt. Sicome sto sassìn l’era deventà frate capuzìn, el comodàva via ogni ròba. Enten zèrto modo l’era come se ‘l se fus pentì, come se ‘l se fus dat da só pòsta la punizión, el se togéva la colpa de tut, e ‘l se ritirava dal mondo, ensoma l’era ‘l nemìzi che eva molà le armi. E po’ ancia i parènti del mòrt i podeva, se i voleva, vantàrse che ‘l Lodovico l’era nà frate perché l’era desperà e per el terór de èsser vendicià. At ogni modo, véder sto òm redùrse a pèrder tut chel che ‘l géva, tosàrse la testa, ciaminàr coi pèi descóuzi, dormìr su ‘nten paión, vivér a domandàr la ciarità, el podéva èsser en bel castìgo, ancia per l’oféso pù orgoliós. El padre guardiàn el s’è presentà dal fradèl del mòrt, con la só umiltà sclèta e dopo mili complimenti a ca famìlia lustrissima, e promesse de far tut chel che l’era possìbol far per contentàrla, el g’à parlà del pentimént del Lodovico, e de la só sèlta de fàrse frate, fasèndoge ciapìr sóta sóta che la só famìlia la podeva èsser contenta e che comunque che gé plasés o nó, gè voleva tòrla come na ròba ormai fata. El fradèl el déva la testa ‘ntéi muri, e ‘l capuzìn el lagiava che se smamìs tut, e ogni tant, per tègnerlo calmo, el diséva «l’è ‘n dolór massa zust». Comunque l’à fat entènder che la só famìlia l’avròs fat tut per tòrse na sodisfazión: e ‘l frate guardian, qualunque ‘l fus stà la só opunión, nó ‘l g’à dit de no. A la fìn l’à domandà che chel che eva copà só fradèl el fus spedì for da la zità. El guardian, che l’éva zà stabilì chesto, fasèndo a finta de ubidìrge ‘l g’à ‘mpromès che i l’avròs mandà ente n’àuter convènt, e la fazènda la s’è ruàda ìo. Contenta ca famìlia, che la ge ‘n nidéva fòr con tut el só onór; contenti i frati che i eva salvà n’òm e ancia ‘l bòn nòm e senza fàrse nemìzi; contènti chéi cavalieri dal bòn marcià che i à vist n’afare che ‘l s’era ruà su benón, contènt el pòpol che la à vist chel’òm benvolù da tuti ciavà fòr da le rògne, e che l’era stimà ancia per la só conversión, e sóra tut era contènt el Lodovico, che pur entél dolór el scomenziava n’àutra vita de penitènza e al servìzi dei àutri, che la podés se nón varìr del tut, almen pagiàr el malfat e slizerìr el rimòrs. El géva ‘l sospèt che la zènt la pensàs che la só dezisión de nar frate i l’avés tòta per paura; ma la g’è passada sùbit, pensàndo che ancia se i l’aves empensada ‘nzì, l’era na zusta punizión, na penitènza che ‘l se meritava. A sto modo a trent’ani, l’à metù la tònegia; e dovèndo cambiar nòm, per tòrnen n’àuter, el n’à sèlto un che gé recordàs ente ogni momént, la penitenza che ‘l géva da soportar: e ‘l s’à clamà fra Tòfol. Apena finì la funzión e che ‘l s’era metù la tònegia da frate, el guardian el g’à ‘ntimà che ‘l saròs nà a far el noviziàt a ***, zènto chilometri lontàn, e che ‘l saròs partì el dì dré. El frate l’à fat na gran svérgla, e l’à domandà ‘n piazér. «Permetéme, padre, che prima de partìr da sta zità endo che ài copà n’òm, e ‘ndo che rèsta na famìlia che ài oféso tant, che pòdia almen consolàrla, che pòdia almen fàrge véder el gran dispiazér che g’ài de nó podér remediar al dan, che pòdia domandàrge scusa a só fradèl de chel che ài copà, e che ‘l Sioredio se i lo vorà el gé fagia passar el rancór.» Al guardian gé pareva che ‘n pas enzì, estra che èsser bòn, el podeva conzìliar sèmper de pù ca famìlia col convènt; e l’è nà sùbit da chel siór, a dìrge del desidèri de fra Tòfol. El nobile nó ‘l se spetava sta domanda e ‘l sa fat gran maravéa, da na banda g’è nù ancór de pù ‘l nervóso, ma da l’àutra g’à fat ancia piazér. Dopo avérge pensà su n’àtimo, «Che ‘l vègnia doman», el dis e po’ ‘l g’à dit l’ora. El guardian l’è tornà de vòuta e ‘l g’à dit a fra Tòfol che i eva azetà de véderlo. Chel nobile l’à pensà sùbit de dir a tuti de ca pòsta col frate, perché ‘nzì ‘l só crèdit enla só famìlia e ancia ‘ntra la zènt el saròs cressù; e per de pù ‘l saròs sta na bela pazìna ente la storia de la só zenìa. El g’à fat savér en prèssa a tuti i parènti che ‘l dì dré a mezdì i se fus tegnùdi liberi che i era ‘nvidadi a só ciasa. A mezdì ‘l palàz l’era ‘n formigiàr de sióri e sióre vècli e zóni: en ciarnevàl de gran mantèi, de plume e de spade scorlànt, en mòverse lizér de coléti inamidadi a plegiòte, en strozzegiàr de palandrane ricamade. Le ciàmere, el cortìu e la strada l’era ‘n formigiàr de sèrvi, de giarzóni, de róbleri, e tanti curiosi. Fra Tòfol el s’è acòrt de chel bordèl e ‘l s’è ‘mmazinà sùbit la ciàusa e g’è nù ‘l pipacùl; ma dopo ‘n pezzòt, l’à pensà ― Ben ben: l’ài copà ‘n piazza a la presènza de tanti só nemìzi: l’è stà ‘n scàndol e chésto l’è ‘l castìgo. ― E alór coi òcli bassi, ensèma al frate che lo compagnàva de flànc’ l’è passà dal portón de ca ciasa, l’à traversà ‘l cortìu tra tuta ca fóla sfazzada che i lo vardàva da la testa ai pèi; l’è nà su per le s-ciale e ‘n mèz a n’àutra fóla de sióri che cando che ‘l passàva i sé féva da na banda, tuti i ló osservàva e a la fin l’è arivà dinanzi al padrón de ciasa; sto cì, zircondà dai parènti pù strénti, l’era ìo en pè su drit en mèz a la sala, el vardàva per tèra col barbizòl per aria, con la ‘nzància el struciàva el mànec’ de la spada, co l’andrìta el strenzéva el bàver del mantèl sul stómec’. A bòte sé vét sùbit sul mus e ‘ntéla condóta de n’òm, chél che ‘l sènt énter enla só cossiènza, e na fóla che i lo vedéss, tuti i daròs el stés zudìzi. Ancia ‘l mus e ‘l portamént de fra Tòfol i mossàva clar a tuti chéi che g’era ìo presenti, che nó ‘l s’èra fat frate e nancia che ‘l fus ìo ‘nchél pòsto per paura e chesto l’à scomenzià a méterlo d’acòrdi con tuti. Cando che l’à vist el fradèl de chel che l’éva copà, l’à pessegià e ‘l s’è metù ‘n zinoclón ai só pèi, l’à metù le man a crós sul stómec’, e sbassàndo la pelàda l’à dit ste paròle: «mì son chel che à copà só fradèl. El Sioredio ‘l sa che gé ‘l daròssi de vòuta ancia a costo de morìr mì; però nó podèndo far àuter che domandàrge scuse inutili e tardìve, el sùplichi, per amor de Dio, de azetàrle». Tuti i òcli i era per el novìzi e per l’òm che ló scoutàva; tuti i era con le récle su drìte. Cando che fra Tòfol l’à ruà de parlar l’è levà su ‘n pè, e per tuta la sala se sentìva ‘n sussùrar de pietà e de respèt. El nòbile che ‘l cognéva mossàr bontà al pòer frate, ma che ‘l tegnìva scònta la rabia, l’era restà da che paròle; sgobàndose zó vèrs el zinoclatòri ‘l dis: «l’ofésa… el fato… ma la telàra che portào… ma nancia sól per chésto, ancia per voi… Padre levà su… Me fradèl… nó pòdi negiàrlo… l’era ‘n cavaliér… l’era n’òm… en pòc’ ribèle… en pòc’ nervós. Ma tut ciàpita per volér del Sioredio. Nó se ‘n pàrlia pù… Ma padre, nó ‘l stàgia ìo ‘nzinoclà». Po’ i l’à zapà per i brazzi e i l’à tirà su. Fra Tòfol en pè ma sèmper coi òcli bassi l’à respondù: «ma mì alór pòdi sperar che el ‘l m’àbia perdonà! E se g’ài el perdon da el, da cì èl po’ che nó pòdi speràrlo? Oh, se podéssite sentìr da la só bócia sta parola, perdón!» «Perdón?» el dis el nòbile. «El nó ‘l gé n’à de bisògn. Ma sicome i lo desìdera, segùr, segùr, mì gé perdóni de tuto còr, e tuti…» «Tuti, tuti!» i zigiàva ensèma i presènti. Sul mus del frate s’à vist sùbit na gran sodisfazión, ma se vedéva ancia tanta umiltà e dispiazer per el mal che l’éva fat e che sol el Sioredio podèva conzàr. El nòbile, el s’è ‘ngropà, el g’à trat i brazzi al còl, e ‘l g’à dat e l’à rizevù el bas de la paze. Da tuti i ciantóni del salón s’à sentù: «brao! benón!» e tuti i s’è svizinadi al frate. Entant e nù i sèrvi, con tanta de ca ròba bona da magnar e da béver. El nòbile el s’è tirà da na banda col fra Tòfol, che ‘l féva ségn de volér nàrsen e ‘l g’à dit: «padre el se tògîa su ancia el vergot; el me dàgîa na prova de amicizia». E i l’à servì prima de tuti i àutri; ma el el s’è tirà da na banda, da bòn òm benarlevà, «ste ròbe,» ‘l dis «nó le è pù per mì; però nó vòi nancia refudar i vòssi regiài. Son dré a partìr: se pròpri ‘l vòl el mé fàgîa portar en panét, da podér dir che ài godèst de la vòssa ciarità, de aver magnà ‘l só pan, e de aver bù ‘l vòs perdon». El nòbile sèmper engropà, l’à ordenà che i gé portàs el pan, è ciapità sùbit en cameriér, tirà come ‘n ciauzzòt, che g’à portà ‘l panét su ‘nten piat de arzènt e i gé l’à presentà al padre, che i l’à tòt la ringrazià e i l’à metù ‘nla bussacia. Po’ l’à domandà de podér nàrsen, l’à brazzà de nòu el padrón de ciasa, e tuti chei che g’èra ìo dausìn e per liberàrse l’à fat en pòc’ de fadìgia; l’à cognèst combàter ancia ‘nle anticàmere per tòrse via dai servi e ancia dai róbleri che i gé basava la tònegia, ‘l cordón, el ciapùz; el s’è trovà ‘nla strada portà come ‘n trionfo, compagnà da na fóla de pòpol, enfìn al portón de la zità; e l’à scomenzià a nar a pè vèrs el posto endo che l’avròs fat el só noviziàt. El nòbile, fradèl del mòrt, e tuta la parentèla che i se spetava de godérse l’orgòi de smusàr el padre Tòfol, i s’è trovadi ‘nveze contènti del perdón e de l’indulgenza vèrs chel frate. La compagnìa l’è stata ìo ancór per en pèz en alegrìa e calma come nó era mai suzèst, a far discorsi che prima de nar ente ca ciasa ‘nzun s’èra ‘mmazinà de far. Envéze de tòrse la sodisfazión de umiliàr e de vendicàrse, i discorsi i era tuti per lodar el novìzi, per èsser nadi d’acòrdi, per aver bù passienza. Calchedun che per la zincantesima bòta l’avròs contà ca storia del conte Muzio só pare, che ‘l géva strupà la bócia al marchés Stanislao che l’era chel bulo che tuti i cognoss, enveze i eva discorèst de le penitenze, e de la passiènza straodenaria de ‘n fra Simón mòrt tanti ani prima. Partìda che l’era la compagnìa, el padrón, engropà, el pensava ancor con maravéa, chel che l’éva ‘mparà, e chel che pròpri el l’éva dit; e ‘ntrà i denti ‘l brontolava: ― can da l’òstrega de ‘n frate! (gè vòl che scrivégen le só paròle prezìse) ― diàolo de ‘n frate! se ‘l restàva ìo ancora ‘n pezzòt en zinòcel, scàsi scàsi gé domandàvi scusa mì, che ‘l m’eva copà ‘l fradèl. ― La nòssa storia la conta pròpri che da chel dì, chel siór l’è sta en pòc’ pu prudente, e ‘n pòc’ pu a la man. El padre Tòfol el ciaminava, con na consolazión che dopo chel dì tremendo nó l’avròs pù provà, e che per scanzelàrlo el doveva consacrar tuta la só vita ‘ntrégia. Ogni novìzi ‘l géva la consegna del silènzio, e i lo rispetava senza nascòrzerse, tanto l’era intento a pensar a le fadìge, ai sacrifìzi, e le umiliazión che l’averòs patì per scanzelàr el só pecià. El s’è fermà, entórn a mezdì, da ‘n benefatór e l’à magnà con en zèrto apetìt el pan del perdón; ma ‘l n’à sparagnà en tòc’, e i l’à metù ‘nla bussacia, con chela de tègnerlo per sèmper come ‘n recòrt. El nòs scòpo nó l’è chel de contàrve la storia de la só vita da frate, disén sol che l’osservava, sèmper con bòna volontà e gran riguardo i servìzi che i ge deva ordine de far, de prediciàr, e de assìster i maladi en fin de vita e ‘l vardava ancia de far àutre opere bòne che ‘l s’eva ‘mpensà el: comodar le bègie, e protézer i perseghitàdi. L’era chésto ‘l só talènt, e senza che ‘l se n’ascorzés, el mossava ancor la só vècla abitudine, e ‘n svanzaròt de spìrit da bulo, che le umiliazión e le penitènze nó le era stade bòne de smorzar dal tut. Can che ‘l parlava de sòlit l’era calmo e cossienziós; ma cando che se tratava de zustìzia e de verità combatùda, l’òm el se azitava de colp, come prima de nar frate e ‘l cognéva sforzàrse de star calmo. Tuta la só condóta e ‘l só portamént i mossàva da na bànda ‘n caràter sfèrs, rebùf, e da l’àutra na volontà che de sòlit la venzéva, el steva sèmper con le récle su drìte. En só compàgn e amìzi, che i ló cognosséva ben, en bòt i l’éva paragonà a che paròle, come che se dìs malgrazióse, che a bòte i le pronunzia ancià i pù benarlevadi, magiàri coi denti strénti, ma che però le se fa ciapìr benón come cando che le è dite ‘ntrége. Se na pora putèla che nó 'l cognosseva nancia, come ‘ntel caso de la Lùzia, l’avés clamà 'l só aiùt, el saròss córs en prèssa. Sicóme po’ èstra l’era pròpri la Lùzia, el s’è presentà ancór pù segùr, perché i la cognosséva e i la prezziava per el fato che la fus nozènta, e l’era zà ‘n pensiér per i perìcoi che la n’éva ‘ncontra, e ‘l géva na santa rabia per ca angiarìa che g’èra ciapità. Per àuter, sicome i l’éva consigliada el, per redur el pézi, de nó far véder engot, e de star ìo calma, el géva paura che chel consìli l’avéss procurà calche efèto stòrt; e alór a la prèssa de far en piazér che i lo géva ‘ntél sànc, ente sto caso se taciàva 'l scrùpol angóssiós che de spes tormenta la bòna zènt. Entant che sen stadi ìo a contàr la storia de padre Tòfol, l’era arivà e l’à vardà ent da l’us; le doi feumne, le à molà l’aspi che le era dré a far ziràr e sgringenar, le è levade ‘n pè, e le à dit ensèma: «oh padre Tòfol! Che ‘l sia benedét!»
Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e appena ebbe traguardate le donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non erano fallaci. Onde, con quel tuono d’interrogazione che va incontro ad una trista risposta, levando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: “e bene?” Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a fare scusa dell’avere osato...., ma egli si avanzò, e postosi a sedere sur un deschetto a tre piedi, troncò tutte le scuse, dicendo a Lucia: “quietatevi, povera figliuola. E voi,” disse poi ad Agnese, “contatemi che cosa c’è!” Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua trista relazione, il frate diventava di mille colori, e quando alzava gli occhi al cielo, quando batteva i piedi. Terminata la storia, si coperse il volto con ambe le mani e sclamò: “o Dio benedetto! fino a quando....!” Ma senza compiere la frase, rivolto di nuovo alle donne: “poverette!” disse: “Dio vi ha visitate. Povera Lucia!” “Non ci abbandonerà, padre?” disse questa, singhiozzando. “Abbandonarvi!” rispose. “E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un... Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.” Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi. — Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta. — Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò. Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla pietà. “Le hanno detto..., padre?” gli domandò Renzo, con voce commossa. “Pur troppo; e per questo son qui.” “Che dice di quel birbone...?” “Che vuoi ch’io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t’abbandonerà.” “Benedette le sue parole!” esclamò il giovane. “Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse...” “Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò.” “Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?... bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano...” A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’andava intrigando e imbrogliando: “volevo dire... non intendo dire... cioè, volevo dire...” “Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici... quali amici!... che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure...” A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione solenne, gli occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: “quando pure... è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?” “Oh sì!” rispose Renzo. “Quello è il Signore davvero.” “Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti lascerai guidar da me.” “Lo prometto.” Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: “bravo figliuolo.” “Sentite, figliuoli,” riprese fra Cristoforo: “io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete.” Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S’avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare. Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo. Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro. — Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli disse: “padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male.” Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse: “non è lei... il padre Cristoforo di Pescarenico?” “Per l’appunto.” “Lei qui?” “Come vedete, buon uomo.” “Sarà per far del bene. Del bene,” continuò mormorando tra i denti, e rincamminandosi, “se ne può far per tutto.” Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s’aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, “ehi! ehi!” gridò: “non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti.” Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poichè lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: “venga, padre, venga.” Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali. L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse. “Da sedere al padre,” disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. “Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza,” soggiunse poi, con voce più sommessa, all’orecchio di don Rodrigo. “Bene, bene, parleremo;” rispose questo: “ma intanto si porti da bere al padre.” Il padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: “no, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi.” Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino. “L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei;” riprese a urlare il conte Attilio: “perchè quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione...” “Ma questo” replicava, non meno urlando, il podestà, “questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacchè il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto…” “Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime...?” “Con buona licenza di lor signori, ” interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti: “rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza. ” “Bene, benissimo,” disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata il far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate. “Ma, da quel che mi pare d’aver capito,” disse il padre, “non son cose di cui io mi deva intendere.” “Solite scuse di modestia di loro padri;” disse don Rodrigo: “ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.” “Il fatto è questo,” cominciava a gridare il conte Attilio. “Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino,” riprese don Rodrigo. “Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta...” “Ben date, ben applicate,” gridò il conte Attilio. “Fu una vera ispirazione.” “Del demonio,” soggiunse il podestà. “Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.” “Sì, signore, da cavaliere,” gridò il conte: “e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perchè le premano tanto le spalle d’un mascalzone.” “Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.” “Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo...” “Risponda un poco a questo sillogismo.” “Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo...” “Piano, piano, signor podestà. ” “Che piano?” “Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. — E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perchè non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?” “Io...” rispose confusetto il dottore: “io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice... qui il padre...” “È vero;” disse don Rodrigo: “ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?” “Ammutolisco,” disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione. “Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre,” disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria. “Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo,” rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore. “Scuse magre:” gridarono i due cugini: “vogliamo la sentenza!” “Quand’è così,” riprese il frate, “il mio debole parere sarebbe che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate.” I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati. “Oh questa è grossa!” disse il conte Attilio. “Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.” “Lui?” disse don Rodrigo: “me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?” In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sè medesimo: — queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto. “Sarà,” disse il cugino: “ma il padre... come si chiama il padre?” “Padre Cristoforo” rispose più d’uno. “Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.” “Animo, dottore,” scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, “animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.” “In verità,” rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, “in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.” Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate. Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un’altra. “A proposito,” disse, “ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.” Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perchè accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perchè gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato. “Non son lontano dal credere,” disse il conte Attilio, “che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi...” “Non creda, signor conte, non creda,” interruppe il podestà. “Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perchè il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa...” “Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni...” “Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e...” “E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se...” “Il nome legittimo in lingua alemanna,” interruppe ancora il podestà, “è Vagliensteino, come l’ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che...” “Mi vuole insegnare...?” riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli diè d’occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza. “Vagliensteino mi dà poco fastidio; perchè il conte duca ha l’occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell’umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le cattive. Ha l’occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il chiodo, come l’ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent’anni, per sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol essere: e teste come la testa d’un conte duca, ce n’è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei,” proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po’ maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: “il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare con qualche cognizion di causa; perchè quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino cosa bolle in pentola di tutte l’altre corti; e tutti que’ politiconi (che ce n’è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l’ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que’ suoi fili tesi per tutto. Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca...” Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche da’ versacci che faceva il cugino, si voltò all’improvviso, come se gli venisse un’ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco. “Signor podestà, e signori miei!” disse poi: “un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio.” Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perchè tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sè. “Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore!” esclamò, alzando il bicchiere. Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que’ tempi, per significare il favorito d’un principe. “Viva mill’anni!” risposer tutti. “Servite il padre,” disse don Rodrigo. “Mi perdoni;” rispose il padre: “ma ho già fatto un disordine, e non potrei...” “Come!” disse don Rodrigo: “si tratta d’un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch’ella tenga dai navarrini?” Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro. A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far con parole. “Che ne dite eh, dottore?” domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: “dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza.” “Ben detto! ben definito!” gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d’accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. “Non c’è carestia,” diceva uno: “sono gl’incettatori....” “E i fornai,” diceva un altro: “che nascondono il grano. Impiccarli.” “Appunto; impiccarli, senza misericordia.” “De’ buoni processi,” gridava il podestà. “Che processi?” gridava più forte il conte Attilio: “giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.” “Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.” “Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti.” Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicchè le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli. Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza nè di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poichè la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene; s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: “eccomi a’ suoi comandi;” e lo condusse in un’altra sala.
Pròpri ‘l padre Tòfol el s’è fermà su drìt su la sòlia, e apena vìst le feumne, l’à dovèst nascòrzerse che le so sensazión le era propri come che ‘l se leva ‘mmazinàde. Sichè la domandà, auzzando la barba lòngia col zèsto de trar endré la testa, e savèndo zà che la risposta la era trista e ‘l dis: “e alor?” La Lùzia sùbit l’a s’è metùda a plànzer. So mama la s’è fata avanti con chela de domandàrge scusa…, ma ‘l padre el s’è sentà zó su ‘n scagnèl a trei pèi, l’à fermà sùbit che scuse, disèndoge a la Lùzia: “ste calma, pòra fiòla. E voi,” el dis po’ a l’Agnés, contàme chel che g’è!” Entant che ca la bòna dòna la gé contava pù ben che la podéva la situazión, el frate ‘l deventàva de mili colori, e ogni tant l’auzzàva i òcli su sót, o ‘l batéva i pèi per tèra. Ruà la storia, ‘l s’è scuertà 'l mus con tute dói le man e l’à sclamà: “o Dio benedét! enfìn a cando…!” Ma senza finìr che parole, el g’à dit a che pòre feumne: “poréte, el Sioredio l'à volèst méterve a la prova. Pòra Lùzia!”. “Nó ‘l ne abandonerà migia, Padre?” la dis la Lùzia sanglotànt. El padre l’à respondù: “Arbandonàrve! con che fazza poderòssite po’ domàndar al Sioredio vergot per mì se ve arbandonàssi? voi ente ste condizion! pròpri voi che Chel su sora ‘l me consegna! Nó ste disperàrve: che ‘l Padreterno ‘l vàrda ‘n zó: el vét tut: El el pòl dopràr ancia ‘n pòr òm d’angot come che son mì per confónder en… Vardàn, pensàn a chel che se pòl far.” Entant che ‘l parlava, l’à pozà ‘l gómbet anzànc’ sul zinòcel, l’à metù ‘l vis enla man, e con l’andrìta l’à strucià la barba e ‘l barbizzòl, come per tègner ferme e ‘nsema tute le potenze de l’anima. Ma pù che ‘l ge pensava su con atenzión e pù ben el se nascorzéva che ‘l caso l’era pròpri complicà, e cant che i era s-ciarsi, dubiosi e malsegùri i remèdi. — Mèterge ‘n pòc’ de vergògna a don Abondio e fàrge ciapìr che nó ‘l feva ‘l só dovér? La vergògna e ‘l só dovér nó i conta ‘ngot per el, che l’è plén de riòma. E fàrge paura? Ma che paura pòdite fàrge po’ mì che la sia de pù de na szopetada? Dìrge tut al Cardinal Vesco, e supliciar la só aotorità? Gé vòl en mùcel de tèmp: e po’, che far po’ ‘ntant? E dopo? E ancia se ‘l fus che sta pòra putèla nozènte la podés maridàrse, saròssel assà per fàrgela passar a chel ‘òm? Cissà chel che poròs combinar? E dàrge contra? Ma come po’? Ah, se podéssite, se podéssite tirar da la mia i frati de cacì, chéi da Milan, el pensava ‘l pòver frate! Ma! nó l’è n’afàre da tuti i dì; resteròssi da me pòsta arbandonà. Chel galiòto ‘l fa véder de èsser amìzi del convent, ‘l fa véder de èsser protetór dei zocolanti: e i só róbleri nó èi nudi pù de ‘n bòt a refugiàrse da noiàutri? Saròssi mì sol sul bal; me zaperòssi ancia del ribèle, de l’embroión che vòl méter el bèc’ entei afari dei àutri, de un che tàcia rògne; e, per nó dir che forse poderòssi ancia far pù dani che àuter con na mòssa sbagliada per la situazion de sta pòra putèla. — Pesà per bèn tut chel che l’era ‘l bòn e ‘l trìst de tute le ‘mpensade, la ròba mióra da far g’à parèst chela de ‘nfrontar pròpri don Rodrigo, e vardar se l’era bòn de fàrge passàr chel brut pròposit, col pregiar, provar, se fus possìbol a spaventàrlo metèndoge dinanzi l’infèrn. A la malparàda se poròss almen véder enfìn endo che ‘l poròs arivar entele so mire, ciapìr de pù de le so intenzion, e da ìo tòr na soluzion. Entant che ‘l frate l’era dré a masnar tuti chei pensieri, ‘l Renzo, che nó l’era bòn de star lontan da ca ciasa, e ognun pòl endovinar el perché, l’è ciapità su l’us; ma, vìst el padre sora pensier, e le dòne che gé feva ségn de nó disturbàrlo, ‘l s’è fermà su la sòlia, en silenzio. Auzzà ‘l vis, per dìrge a le feumne chel che ‘l geva ‘n ment, el frate ‘l s’è acòrt che ‘l g’èra ìo e i l’à saludà enten modo che voleva fàrge sentìr la sòlita afezión, ancor pù sinzéra perché ‘l ge feva ancia pecià. “Giàle zà dit…, padre?” El g’à domandà ‘l Renzo, con la ós engropada. “Purtròpo; l’è ben per chel che son cì.” “Che dìgel po’ de chel lazerón…?” “Che vòs che te digia po’ de chél mostro? Nó ‘l g’è cì a sentìr: che serviròssele po’ le me parole? Te ‘l dìgi a tì Renzo, tì che te fìdes del Sioredio, e che ‘l Sioredio nó ‘l te arbandonerà mai.” “Benedéte le só parole!” l’à sclamà ‘l putèl. “El nó l’è de segùr de chei che ge dà sèmper tòrt a la pòra zènt. Ma ‘l siór curat, e chel siór dotór da le ciàuse pèrse…” “Nó vai a remenàr chel che nó pòl servìr a àuter che azitàrte ancor de pù e per engot. Mì son en pòer frate; ma te digi de nòu chel che g’ài zà dit a ste feumne: per tut chel che pòdi, vardi de nó arbandonarve.” “Oh, el nó l’è de segur come i sòliti amìzi! Zacolóni! Cando che la neva per el vèrs zust, i era tuti pronti ancia a zontàrgela per mì; ah sì, sì… i saròs stadi da la me part ancia contra ‘l diàul. Se avéssite bu ‘n nemìzi?... bastava che ge l’avéssite fat ‘ntènder; e l’avròs ruà sùbit de magnar pan. E adès, se ‘l vedés come che i se tira ‘ndré…” Enchel momént, auzzàndo i òcli vèrs el padre, l’à vist che l’era tut preocupà, e l’à ciapì sùbit de aver dìt chel che l’era mèio tàser. Volendo comodàrla via, ‘l se ‘ntrigiava e ‘l se ‘mbroiava co le so man: “volevi dir… nó volevi dir… putòst, volevi dir…” “Che voléves dir po’? Che po’? tì che evés zà scomenzià a far nar de mal el me prozèto, prima ancor de scomenziàrlo via! Bòn per tì che te sés rendù cont en tèmp. Che! Tì néves a zerciàr amìzi… che amìzi estra! Che nó i t’averòs podèst aidàr, nancia se i voléva! E zerciàves de pèrder Chel sol che pòl e che vòl aidàrte! Sas no che ‘l Sioredio l’è amìzi de chei che trìbula, che se fida de El? El sas no che a tiràr fòr le óngle el por òm nó ‘l gé vadàgna mai? E ancia se ‘l fus…” A sto punto, l’à zapà per en braz el Renzo struciàndogel fòrt: el só aspèto, senza perder la severità che ‘l geva, el mossàva ‘n gran dispiazer, l’à sbassà i òcli, la só ós l’è deventada lènta e fonda come sotatèra: “ancia se fus… l’è ‘n gadàgn tremendo! Renzo! te fìdes de mì?... ma no che dìgite su po’, de mì, che son ‘n omét, en fratìn? Vòs fìdàrte del Sioredio?” “Ma segùr!” à respondù ‘l Renzo. “Chel l’è ‘l vero Sior.” “Bòn; alor emprométeme che nó naràstus a ‘nfróntar o a zinzegiàr enzun, che te lageràstus guidar da mì.” “L’amprométi.” La Lùzia l’à fat en gran sospìr, come se i giavés tòt via cissà che ciàrgia da adòs; e l’Agnese la dis: “brào putèl.” “Sentìme, putèi,” dis el fra Tòfol: “mì ancòi narài a parlàrge a chel’òm. Se ‘l Sioredio ‘l gé tócia ‘l còr, e ‘l ge dà forza a le me paròle, ben: se no, Chel su sora ‘l ne darà modo de giatàr n’àuter remèdi. Voi entant, sté cì dabèni, dénter da le vòsse porte, vardà de nó baderlar con enzuni, nó féve véder. Stasera o al pù tardi doman matina, me farai véder mì.” E po', l’à zonclà tuti i ringraziamenti e le benedizión, e l’è partì. El s’è ‘nvià vèrs el convènt, e l’è arivà zust a ora a ciantàr la sesta entel coro, l’à disnà e ‘l s’è metù sùbit en viaz vers la tana de ca bèstia che ‘l voleva provàr a domestegiàr. El palazòt de don Rodrigo l’era ‘n pòc’ fòr de man, l’era na sòrt de fortìn enzima a un de chei tanti dòssi sparpaiadi su ca costéra. Chel’un che à lagià scrìt sta storia, a sta notìzia (l’averòs fat meio scrìver el nòm) el ge tacia che sto posto l’era sora ‘l paesòt dei spósi lontan càter o zìnc’ chilometri e sei dal convènt. Ai pèi del dòs, da ca banda che vàrda vèrs mezdì e vèrs el lac’ g’era ‘n muclét de ciasòte, abitade dai contadini de don Rodrigo; l’era come la capitale pìzzola de chél regno pizzolòt. Bastava passàr ìo per ciapìr sùbit en che condizión che viveva ‘l paes. Dando n’oclada dent entei somassi de che ciase che le geva ‘l portón davèrt, se vedeva tacià sui muri szòpi, szòpi de chèi col trombón fòr enzìma, zape, restèi, ciapèi de paia, redesèle e fias-céti da la pólver, trati ìo ‘ncalche vèrs. La zènt che se ‘ncontrava l’èra tut oumnazi tracagnòti e ‘ngrintadi con en gran zuf rebaltà su la testa serà ent ente na redesèla; vècli che eva perdù le zane, che ‘mpareva sèmper pronti ancia sol a vardàrli a mossàr le zanzìve; donère con zèrte fazze da òm, e con zèrti brazzi giaiàrti pronti per nìr dopradi cando che la lénga nó l’era assà: e perfìn entei zògi che feva i pòpi per la strada se vedeva che g’èra vergot de sfazzà e de disonèst. Fra Tòfol l’à traversà ‘l paesòt e l’è nà su per na stradèla a ghìda, e l’è arivà su ‘nte ‘n planét, dinanzi al ciastèl. La porta la era serada, ségn che ‘l padrón l’era dré a disnar e nó ‘l voléva èsser disturbà. Le pòce finestre che vardava su la strada le era putòst pìzzole e le geva i scuri a scorlón e smassacradi dal tèmp, però le geva le so ‘nferiade per difènderse, e chele che era al pianotèra le era ‘nzì àute che n’òm su le spale de n’àuter el saròs arivà su a stento. — Cacì g’era ‘n gran silenzio; un che fus passà per caso l’averòs pensà de èsser ente na ciasa arbandonada, se nó l’aves fat caso de fòra a càter creature, doi vive e doi morte che le podèva far sospetar che ge fus calchedun. Doi grant agolìni, con le ale spalancade e con la zùcia a spindorlón, un che eva perdù le plume e l’era mèz rozià dal tèmp, chel’àuter ancor bòn e con tute le só plume, tuti doi i era ‘ncloudadi sul portón; po’ su ‘nten doi bance che era ìo, doi róbleri sdravacadi un da banda e un da l’àutra che i féva la guardia e i aspetava de èsser clamadi per magnar i svanzaròti del siór padrón. El padre ‘l s’è fermà su drìt, e l’aspetava che calchedun i lo clamàs; ma un de chei doi galiòti l’è nù ‘n pè e ‘l dis: “padre, padre, ‘l vègnia pur avanti: cacì nó fen mai spetar i franzescani: noi sen amìzi del convènt: e mì son sta entel convènt, cando che de fòr per mì nó l’era aria bòna; e se i m’aves tegnù la porta serada, la saròss nada pròpri mal.” Disèndo ‘nzì, l’à dat doi colpi col batòcel del portón. A sentìr chei bòti de là enter se à sentù sùbit urli e zìgi de ciagnazzi e ciagnòti; e po’ pocì momenti dopo, è arivà brontolant el vèzzo servo; ma come che l’à vist el padre, ‘l g’à fat en grant inchino, l’à vardà de tègner calme le bestie con le man e ancia con la ós, e l’à fat nar ént el frate ente’n cortìu putòst strentòt e pìzzol e l’à serà la porta. Po’ i l’à compagnà ente na saléta, e vardàndol con na zèrta maravéa e respèt, el dis: “ma èl… el padre Tòfol da Pescarenico?” “Sì, son propri chel.” “Pròpri el cì?” “Come che vedéo, bòn òm.” “El sarà per far del ben.” El seghitava a mormorar entrà i denti, e ‘nviàndose ancora, el dis: “del bèn, se pòl fàrnen dapertut.” Traversade doi o trei saléte scure, i è arivadi su l’us de la sala endo che i féva trigét. Cacì gera ‘n gran rumór desordenà de piróni, de cortèi, de bicéri, de piati, e pù de tut ós stonade, che le se deva sora una con l’àutra. El frate l’aròs volèst nàrsen e dré a l’us el chestionava col servo per far en modo che i lo lagiàs ente ‘n calche ciantón de la ciasa enfìn che i eva ruà de magnar, ma ‘nte chela s’è daverzù l’us. En zèrto conte Tìlio, che l’era sentà zó davanti (l’era só cosìn del padron de ciasa, e de chesto en zà dit senza nominarlo), come che l’à vist na crapa pelada e na tònegia, e come che ‘l s’è nascòrt che ‘l frate ‘l voleva spetàr enfìn che i eva ruà ‘l disnar, l’à zigià: “ehi, ehi! reverendo padre, nó ‘l né s-ciampia no: avanti, avanti. ” Don Rodrigo, nó l’eva ciapì pròpri ben cì che l’era chel che era nù a trovarlo, epur, per no sai che impression, de ca visita l’aròs pròpri fat a men. Ma sicome chel materiós del Tìlio l’eva fat chel grant saluto, a él nó ge convenìva tiràrse ‘ndré; e alor ‘l dis: “el vègnia, padre el vègnia pur.” El padre l’è nà avanti, fasendo ‘n inchino al padron, l’à respondù con tute doi le man ai saluti de chei che era a tàula. L’òm onèst dinanzi al crudél, en zènere ne plas (nó dìgi a tuti) emmazinàrsel con la testa àuta, con i òcli che vàrda segùr, drìt, col stómec’ en fòra, con na bòna parlantina. A dir la verità però, per fàrge tòr chel portamént ìo, ge vòl che ge sia tante robe metùde ensema, che però tute adùn le suzét pòce bòte. Sichè nó ste farve maravéa se fra Tòfol, pur con la só cosiènza pù che a posto, pur con chel fortìssim sentimént de zustìzia per ca càusa che l’era dezìso a sostègner, pur avendo ‘n sentimént misto de ribréz e de compassión per don Rodrigo, epur l’era ìo con na zèrta sudizión e plen de respét, pròpri davanti a don Rodrigo, che l’era ìo a tàula, a só ciasa, entel só règno, zircondà dai só amìzi, da tanti onori, e con tanti segni de la só potènza, frate Tòfol l’era ìo con en mus da far morìr su la bócia a chiunque en piazér o ‘n consìlio, na corezión, o na brontolada. Da na banda g’era sentà zó chel conte Tìlio che l’era só cosìn, e, se ocór dìrlo, l’era só sòzi de sbaracade e de brigantade, che l’era nù da Milan en vizilatura per pòci dì pròpri da el. A man zància da n’àutra banda de la tàula, gera ìo, con grant aotorità, ma con na baldanza e ‘n zèrto sai-tut-mì, el siór podestà, pròpri chel che en pràtigia, ge saròs tocià de far zustìzia al Renzo Tramaglino, e a méter su l’atènti don Rodrigo, come s’à vist prima. Davanti al podestà, con en far da rufiàn come mai pù, gera sentà zó ‘l nòs dotor Azecca-garbugli, col tabàr néger, e col nas pù rós del sòlit: davanti ai doi cosìni, g’era doi òumni che nó se sa cì che l’era, e de chesti la nòssa storia la dis sol che nó i féva àuter che magnar, sbassar la testa, grignar e dir sèmper de sì per aprovar ogni ròba che aves dit un de chei a tàula, a men che n’àuter nó ‘l ge contradisés. “Dége da sentàrse zó al padre,” dis don Rodrigo. En sèrvo l’à portà sùbit na ciarégia, e su chesta s’è sentà zó padre Tòfol, disèndo calche scusa al padrón per èsserse presentà ente n’ora sfazzàda. Po’ ‘l g’à dit con na ós setìla ente na récla a don Rodrigo: “Voròssi parlàrve a càter òcli, cando che ve fa còmot, per n’afare de na zèrta ‘mportanza.” “Bòn, bòn parleren;” l’à respondù: “ma ‘ntant portàge da béver al padre.” El padre ‘l voleva schivàrsela dal béver con ca zènt; ma don Rodrigo, l’à auzzà la ós en mèz a chel traboldéri che l’era scomenzià de nòu, e ‘l zigiava: “ma no, demóscol, nó ‘l me farà migia sto tòrt; nó s’à mai vìst che ‘n ciapuzìn l’è ciapinà da sta ciasa, senza avér tastà ‘l me vin, e nancia che ‘n seciacoioni che ge resti vergot senza avérge fat tastàr la legna dei me bós-ci.” Ste parole le à ciausà gran risade de tuti, e per en momént le à zonclà na chestion che se tratàva entrà cas combriccola. En sèrvo, portando su ‘nten cabarè ‘l fiàsc’ de vin e un de chei biceróni lòngi a forma de càlize, i l’à esebì al padre; chesto, nó volèndo far complimenti con l’òm che ge premeva tègnerse en bòna, el s’à trat fòr el vin e ‘l s’è metù a béverlo plan planìn. “La stima del Tasso nó la val engot per la só resón, caro siór podestà riverì; anzi l’à ge va còntra,” l’à tornà a urlar el conte Tìlio: “perché chel’òm sapiente, chel grant’òm che l’era, che ‘l seva a menadé tute le régole de la cavalarìa, l’à scrìt che ‘l viàder de l’Argante, prima de sfidar i cavaliéri cristiani, l’avés bù da domandar el permés al bòn Buglione…” “Ma ‘l Buglione” ge ribatéva, sèmper a urli, ‘l podestà, “chesto l’è ‘n de pù, en sèmplize de pù, n’ornament de ‘n poeta, perché ‘l viàder per só natura nó se pòl tociàrlo, come che dis el dirìto de tute le zènt del mondo, jure gentium: e, senza zerciàr tante ròbe, i lo dis ancia el provèrbi: el viàder nó ‘l porta pena. E i provèrbi, caro siór conte, l’è la sapienza de tute le zent. E ‘l viàder nó avèndo dit engot a só nòm, ma avèndo sol presentà la sfida scrita…” “Ma vòlel ciapìr che chel viàder l’era n’àsen sventà, che nó ‘l cognosséva le regole del vìver…?” “Col vòs permesso, cari sióri,” s’à ‘ntrometù don Rodrigo, che nó l’averòs volèst che ca chestión la nés inanzi massa: “domandan al padre Tòfol; e po’ che tuti i stàgîa al só decrèt.” “Ben, benón,” dis el conte Tìlio, che ge pareva fus na ròba educada far dezìder na chestion de cavalarìa a ‘n ciapuzìn; però ‘l podestà, che l’era ‘l pù s-ciaudà ‘n ca discussion, el stentava a calmàrse, e l’à metù zó na zèrta fazzada che ‘mpareva che la voles dir: piazzarolàde. “Ma, da chel che me par de aver ciapì,” dis el padre, “nó l’è robe che mi doròssi ‘ntèndermen no.” “Le solite scuse de moderazion che tirào fòr voi padri;” ‘l dis don Rodrigo: “ma nó ‘l me s-ciamperà. Dai mò! el sen ben che el nó l’è nù al mondo con la tònegia adòs, el sa ben chel che l’è ‘l vìver del mondo. Dai, dai: la chestion l’è chesta.” “El fato l’è che,” el scomenziava a zigiàr el conte Tìlio. “Caro cosìn, lagiàme parlar mì, che son fòr da la chestion,” el dis don Rodrigo. “Eco la storia. En cavalier spagnòl l’à mandà na sfida a ‘n cavalier milanés: el viàder, nó avendo trovà ‘l destinatàri ‘n ciasa, l’à consegnà la sfida a só fradèl del cavalier; e sto fradèl l’à lezù la sfida, e ‘n tuta risposta l’à bastonà ‘l viàder. Se trata…” “Ben date, ben sestàde,” à urlà ‘l conte Tìlio. “L’è sta pròpri na grant empensada.” “Del demòni,” g’à tacià ‘l podestà. “Bastonar en viàder! Persona sacra! Ancia el padre, ‘l me dìgia se chesta pòl èsser n’azion da cavalier.” “Sì, siór, pròpri ‘nzì, da cavalier,” zigiava ‘l conte: “e lagiàmel dir, che mì me n’antèndi de chel che ge convièn a ‘n cavalier. Oh, se ‘l fus sta pugni, saròs sta n’àutra fazènda; ma ‘l baston nó ‘l ge sporcia le man a ‘nzun. Chel che nó son bòn de ciapìr l’è perché ve prèm enzì tant le spale de ‘n lazerón.” “Cì èl po’ che v’à parlà de le spale, caro siór conte? El ‘l me met en bócia spropòsiti che nó m’è nancia passà per le tane del zervèl. Mì ài parlà del caràter, no de le spale. Mi parli sora tut del dirìto che g’à le zènt. Ma per piazer, ‘l me dìgia cì ‘n pòc, se i viàdri che i antichi Romani i mandava a ‘ntimar le sfide ai àutri pòpoi e i domandava de podèr taciàr fòra ‘l pefèl. El me tróvia en scritór sol che l’abia scrit che ‘n viàder dei Romani ‘l sia sta bastonà.” “Che g’ài da che far po' con noi i ufiziài dei Romani? zènt che néva a la bòna, e che ‘nte ste robe i era ‘ndré, ma ‘ndrè polìto. Ma a dar fé a le lezi de la cavalarìa d’ancòi, che l’è la pù zusta, dìgi convìnto che ‘n viàder che ‘l se risza a méterge ‘nle man a ‘n cavalier na sfida, senza avérge domandà ‘l permesso, l’è ‘n sfazzadón da castigar eccome se l’è da castigar, da bastonar, eccome se ‘l saròs da bastonar…” “El me respòndia mò a sto rasonament.” “Ma ‘l scóltia, ma ‘l scóltia, ma ‘l scóltia.” Bastonar un che l’è disarmà l’è n’ato da viliaco; atqui ‘l viàder de quo l’era senza armi; ergo…” “Plan, plan, siór podestà.” “Che plan po’?” “Plan, ge digi: che nidéo a dìrme su po'? Ato da viliaco l’è ferir un con la spada, dal de dré, o sbaràrge na szopetada ‘nla s-cena: e, ancia per chesto, a bote se poròs… ma stente a la chestion. Améti che chesto el pù de le bòte ‘l pòdia clamàrse ato da viliaco; ma postàrge càter bèle bastonade a ‘n lazerón! La saròss ben bèla che ge voles dìrge: varda che te bastoni: come che se ge diròs a ‘n gialantòm: man a la spada. — E el, siór dotor riverì, enveze che grignàr sóta i bafi, per fàrme ciapìr che l’è da la mia, perché po’ nó ‘l sostègn le me resón, con la so bèla bàtola, per aidàrme a convìnzer sto siór?” “Mì…” dis confondù el dotor: “mì me godi a scoutar sta discussiontra lezùdi; e ringrazi ‘l caso che l’à dat ocasion de na ghera tra gran sapienti enzì ‘nteressante. E po’, mì nó me n’entèndi e nó pòdi dar en zudìzi: la siorìa lustrìssima l’à zà dezìso cì che g’à da èsser el zùdize… el padre cì…” “L’è vera;” dis don Rodrigo: “ma come feo po’ a pretènder che ‘l zùdize ‘l pàrlia, entant che i letegianti nó i vòl tàser?” “Mì ston zito,” dis el conte Tìlio. El podestà l’à strucià i làuri, e l’à auzzà la man, come per rassegnarse. “Oh, sia ringrazià ‘l ziél! El dìgia pur, padre,” dis don Rodrigo, serio, ma con na ponta da tòi per ziro. “Mì me son zà scusà, col dir che pròpri nó me n’antèndi de ste robe,” à respondù fra Tòfol, dàndoge ‘ndré ‘l bicér al servo. “Scuse magre:” urlava i doi cusìni: “Volèn la sentenza!” “Bòn, bòn se l’è ‘nzì,” dis el frate, “el me parér che val pòc’ el saròs che nó giaveròs da èsserge né sfide, né viadri, né bastonade.” I slapóni i s’è vardàdi un co l’àuter sbalordìdi. “Oh, chesta l’è ben grossa!” dis el conte Tìlio. “El me scùsia, padre, ma l’è grossa. Se vét che el nó ‘l cognos el mondo.” “El?” dis don Rodrigo: “voléo che vé ‘l dìgia n’àutra bòta: i lo cognos, ecome, caro cusìn, tant che voi: el verà o no padre? I lo dìgia, i lo dìgia, àl fat o no a só speriènza?” Enveze che risponder a sta domanda sdolzinada, ‘l padre ‘l s’à dit a se stes na paroléta entrà de él: ― cheste le te vèn a tì; ma ricòrdete, frate, che nó ses cì per tì, e che tut chel che tócia tì sol, nó ‘l và sul cont. “Sarà,” dis el cusìn: “ma ‘l padre… come se clàmel po’ ‘l padre? ” “Padre Tòfol” à respondù pù de un. “Ma, padre Tòfol, padrón lustrissim, con sti vòssi prezèti, ‘l voròss rebaltar el mondo da sota ‘n su. Senza sfide! Senza bastonade! Adio crèdit de ogni ciasa: tuti i lazeróni perdonadi. Per fortuna che tuto chesto l’è ‘mpossìbol.” “Animo, dotor,” g’è s-ciampà fora a don Rodrigo, che ‘l voleva a tuti i costi spostar la lita dai doi primi litegianti, “animo, a voi, che a dar resón a tuti seo en campion. Volen ben véder come che faréo a dàrge reson a padre Tòfol.” “A dir la verità,” à respondù ‘l dotor, tegnèndo ‘l pirón su drìt per aria, e parlando vèrs el padre, “a dir la verità nó son bòn de ciapìr come che padre Tòfol, che l’è ‘nsema perfèt òm de glesia e ancia òm de mondo, nó l’abia pensà che la só sentenza l’è sì bòna, anzi bonissima e zusta prediciada zó dal pùlpit, ma, vardà che ‘l digi con tuta la prudenza veh, nó la val engot, ente na lita de cavalarìa. Ma ‘l padre ‘l sa mèio de mì che ogni roba l’è bona entel momento zust; e mì credi che sta bòta l’abia volèst cavàrsela, con en schèrz, da la pégola de cognér dar na sentenza.” Che se podéva risponder po’ a rasonamenti toti da la sapienza dei antìchi, ma sèmper ancor bòni? Engot: e ‘nzì à fat el nos frate. Ma don Rodrigo, per volér emplantar ìo la chestion, el n’à ‘nviada via n’àutra. “A proposit,” el dis, “ài sentù che a Milan zira ós che i era dré a nar d’acòrdi.” El lezidor el sa che ‘nchel an se combateva la ghèra per dezìder cì che geva da comandar entel ducato de Màntua, sicome cando che è mòrt el Zènzele Gonzaga, che nó ‘l geva ritadìni lezìtimi, l’era nà ‘n man del duca de Nevers, só parènt pù vizìn. El Luizi XIII, cioè ‘l cardinal de Richelieu, el tegnìva la part de sto duca, prìnzipe che l’era só divòt, e che ‘n pràtigia l’era franzés: enveze el Filìpo IV, cioè ‘l conte d’Olivares, che tuti i clamàva el conte duca, nó i lo voleva ìo ‘nchel pòsto, pròpri perché l’era franzés; alor el geva fat ghèra. Sicome chel ducato l’era ‘n fèodo de l’impero, le doi part le se deva da far, con ati, con reclami, con sfide a l’imperator Ferdinando II, la prima perché la gé des l’incarico al duca; la seconda perché i ge la negiàs, anzi che i la aiutàs a paràrlo via da chel ducato. “Me par de aver ciapì,” dis el conte Tìlio, “che che fazènde le pòdia èsserse comodade. Sài calche vergot…” “Mah, nó ‘l crédia siór conte, nó ‘l crédia,” s’à ‘ntromes el podestà. “Mì cì ‘ntel mé ciantón, sai ben come che la è; perché ‘l sior ciastelàn spagnol, che ‘l me vòl enzì ben, e sicome l’è fiòl de un protèt dal conte duca, el sa tut de ste robe…” “Ge digi che mì a Milan me suzét ogni dì de parlar de ste chestion con personazi ben pù àuti ‘n grado; e sai ancia che ‘l papa, ‘nteressà come che l’è perche i fàgia la paze, l’à fat le só propòste…” “L’è ben enzì che ‘l g’à da èsser; la fazènda la è ‘n regola; el papa ‘l fa ‘l só dovér; en papa ‘l cògn sèmper comodar le robe tra doi prinzipi cristiani; ma ‘l conte duca ‘l g’à la só politica, e…” “E, e, e; sal el, caro siór, come che i la vét ente sto mement l’imperator? Crédel che a sto mondo nó ge sia àuter che Màntua? Le ròbe che ‘l g’à da pensàrge le è tante, caro siór. Per esèmpi sal enfin a che punto l’imperator el pòl fidarse del só prinzipe de Valdistano o de Vallistai, o come che i lo clama, e se… ” “El nòm zust enla parlada todes-cia,” dis el podestà “l’è Vagliensteino, come che l’ài sentù proferìr tante bòte dal nòs siór comandante spagnòl. Ma ‘l stàgia pur calmo, che…” “Vòlel ansegnàrme a mì…?” tornava a dir el conte; ma don Rodrigo ‘l g’à fat i òcli, per fàrge ‘ntènder che, ‘ntel só ‘nterès, l’amplantàs ìo de contradir. El conte l’à tasèst, e ‘l podestà, come se ‘l fus sta ‘n bastiment desenflopà da l’aca bassa, l’à seghità a la granda, senza fermarse con la so parlantina. “Vagliensteino ‘l me dà pòc’ fastìdi; perche ‘l conte duca el g’à òcel a tut e per tut; e se Vagliensteino ‘l vòl auzzàr la grésta, l’è ben bòn de farlo rigiàr drìt, con le bòne o con le ciatìve. El g’à òcel per tut ve digi, e le man lònge; e se i l’amponta, come che i là ‘mpontada, e l’è zusta, da gran politico come che l’è, che ‘l siór duca de Nivers nó ‘l g’àbia da méter raìs a Màntua, el siór duca de Nivers le raìs a Màntua nó i le meterà mai; e ‘l siór cardinal Riciliù ‘l farà ‘n bus ente l’aca. El me fa nìr ancia da grignar chel siór cardinal, a volèrge dàrge contra a ‘n conte duca, contra n’Olivares. Ve digi la verità, voròssi èsserge enten doizènto ani per sentìr chel che dirà chei che vèn dopo, de sta bela pretesa.” “Ge vòl àuter che invidia: ge vòl testa: e teste fine come chela de ‘n conte duca, ge n’è una sola al mondo. El conte duca, cari sióri,” el podestà el neva avanti, a fèri molàdi, ancia con en pòc’ de maravea che enzun lo contradisès: “el conte duca l’è na vècla bólp, parlando con rispèto, che ‘l faròs perder la tracia a calunque: e cando che empar che ‘l péndia da l’andrìta, stai pur segùr che ‘l va a man zancia: e ‘nzì ‘nzun pòl dir de cognósser i so intènti; e ancia chei che cògn eseguirli, chei che scrìu i pefèi, nó i ge’n ciapìss dént engot. Mì pòdi parlar perché vergot sai; chel brào òm del siór comandante spagnòl ogni tant el parla con mì e ‘l me fa calche confidanza. El conte duca, enveze, ‘l sa tut de chel che bói enla marmìta de tute le àutre cort; e tuti chéi politicanti (che ge n’è ben ancia de drìti, nó se pòl negiarlo) cando che i à apena ‘mmazinà ‘n progèto, ‘l conte duca i l’à zà ‘ndovinà, con ca testa fina che ‘l g’à, con che furbarìe scondùde, con chè taiòle che l’à metù dapertut. Chel pover’òm del cardinal Riciliù ‘l tenta de cà, el snasa de là, el sgéngia, ‘l se ‘nzìgna: e dopo? Cando che l’è sta bòn de trovar na soluzion el trova sùbit n’àutra soluzion zà bel e fata dal conte duca…” Dio sol lo sa cando che ‘l podestà l’averòs emplantà ìo de prediciar; ma don Rodrigo, stizzà ancia dai zèsti che feva só cosìn, el s’è voutà de cólp vèrs en servo, come ge fus nù cissà che ‘mpensada, e ‘l g’à dit che ‘l portàs en zèrto fiàsc’. “Siór podestà, e cari sióri!” el dis: “na bicéra al conte duca; e me saveréo a dir se sto vin l’è dégn del personazi.” El podestà l’à respondù con na svérgla, come per dir che nó ‘l vedeva l’ora de sentìrse dir enzì; perché tut chel che se feva o che se diseva de ben e bòn del conte duca, ge pareva che ‘n pòc’ l’era ‘n compliment ancia per el. “Che don Gasparo Guzman, conte de Olivares, duca de san Lucar, gran privato del re don Filìpo ‘l grant, nòs siór! el vìvia mili ani!” l’à sclamà auzzàndo ‘l bicér. Privato, per cì che nó i lo savés, l’era na parola che se usava dir a chei tempi per dir el preferì da ‘n prìnzipe. “Che ‘l vìvia mili ani!” tuti ‘n coro. “Dégen fòr ancia al padre,” ‘l dis don Rodrigo. “El me scùsia;” à respondù ‘l padre: “ma ài zà dat disturbo assà, e nó poròssi…” “Come po’!” dis don Rodrigo: “se parla de béver en bicér al conte duca. O vòlel far créder che ‘l tègn dai navarrini?” Enzì i clamava alór, per schèrz, i franzési, dai prìnzipi de Navarra, che i eva scomenzià, col Rico IV, a regnar sora la Franza. Con che parole, l’era mèio béver. Tuti chei slapóni i è nudi fòr con le sóe, a fàrge complimenti al vin; men che ‘l dotor, che, con la testa àuzzàda, coi òcli sbaradi, con i làuri struciadi, ‘l diseva tant de pù de chel che l’averòs podèst far con le parole.. “Che diséo po’ dotor, ah?” à domandà don Rodrigo. Tirà fòr dal bicér en nas ancor pù ros e lùster del bicér stes, el dotor la respondù, dàndoge sora bèn a tute le sìlabe: “dìgi, proferìsi, e prèdici che sto cì l’è l’Olivares de tuti i vini: censui, et in eam ivi sententiam che ‘n rosòlio ‘nzì nó se ‘l trova ‘n tuti i vintidoi regni del nòs siór el re, che ‘l Sioredio i lo consèrvia: dichiari e proferìsi che i pasti del lustrìssim siór don Rodrigo i vénz le zéne de l’Eliogabalo; e che la ciarestìa l’è proibìda e confinada per sèmper da sto palàz, endo che sta e regna ‘l pù grant splendor.” “Bèn dit! ben presentà!” i zigiava, a na ós sola, i sòzi: però ca parola, ciarestìa, che ‘l dotor eva dit fòr a caso, l’à fat en modo che tuti i pensàs pròpri a ca bruta ròba; enzì tuti i parlava de ciarestia. E su chesto i neva tuti d’acòrdi almen sul pù gros; ma ‘l fracàs l’era forse pù fòrt che se i fus stadi en discòrdia. I parlava tuti ‘nsema. “Nó g’è ciarestìa,” diseva un: “l’è chei che se ciapara tut…” “E i pistóri,” ‘l diseva n’àuter: “che i scònt el gran. Empiciàrli.” “Apunto; empiciàrli, senza misericordia.” “Ge vòl bòni prozèssi,” zigiava ‘l podestà. “Che prozèssi po’?” l’urlava pù fòrt el conte Tìlio: “coparli tuti. Zapàrnen trei o càter o zìnc’ o sei, de chei che la zènt la cognos come i pù sióri e i pù ciagni, e po’ ‘mpiciarli.” “Esèmpi! esèmpi! senza esèmpi nó se fa ‘ngot no.” “Empiciarli! empiciarli!; vederéo che dopo sàuta fòr gran da tute le part.” Cì che fus passà per na féra, e ‘l se fus trovà a sentìr el conzèrto de na compagnìa de zarlatàni, cando tra na sonada e l’àutra i próva ‘l só strumént, fasèndol zigiar pù che ‘l pòl, per sentìrlo pròpi ben en mez al rumor dei àutri, el pòl emmazinarse come che i neva d’acòrdi chei discorsi, se se pòl clamàrli ‘nzì. Entant se seghitàva a trar fòr e po’ ancor trar fòr de chel vin; e lodar chel vin el se mesdava come che l’era zusto, a le sentènze de leze colòmica; sichè le parole che se sentiva pù de spes l’era: ambrosia, e ’mpiciarli. Entant don Rodrigo ‘l deva oclade a l’unico che nó diseva ‘ngot; e i lo vedeva sèmper ìo fermo, senza dar segn de azitazion né de aver prèssa, senza far véder che l’era ìo che l’aspetava; però convinto a nó nàrsen da ìo prima de èsser scoutà. I l’avròs mandà volintéra a spas, e fat a men de chel consulto; però paràr via ‘n ciapuzìn, senza avérge dat òra, nó ‘l feva part de le regole de la só politica. Sicome la seciadura nó se podeva schivàrla, l’à dezìso de tòrla sùbit a pèto, e de liberàrsen; l’è levà su da tàula, e ancia tuta ca alegra combrìcola de mezi ‘mbriàgi, ma senza desméter el bacàn. Po’ la domandà ‘l permés ai envidadi e l’è nà tut complimentós arènt al frate, che sùbit l’era levà ‘n pè come tuti; e ‘l g’à dit: “eccome ai só comandi;” e i l’à portà ente n’àutra sala.
“In che posso ubbidirla?” disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati. Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: “vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo... la coscienza, l’onore...” “Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende.” Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: “se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire...” e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, ” non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo...” “Eh, padre!” interruppe bruscamente don Rodrigo: “il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.” Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: “lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è nè vile nè spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma...” “Sa lei,” disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, “sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh!” e continuò, con un sorriso forzato di scherno: “lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi.” “E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente...” “In somma, padre,” disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, “io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo. Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: “la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.” “Ebbene,” disse don Rodrigo, “giacché lei crede ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...” “Ebbene?” riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole. “Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.”“Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.” A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due. “La vostra protezione!” esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: “la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.” “Come parli, frate?...” “Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.” “Come! in questa casa...!” “Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno...” Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: “escimi di tra' piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.” Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda. “Villano rincivilito! ” proseguì don Rodrigo: “ tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo.” Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia. Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch’era venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da quarant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del padre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perchè, sebben di massime e di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due qualità: un’alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del cerimoniale, di cui conosceva, meglio d’ogni altro, le più antiche tradizioni, e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai arrischiato d’accennare, non che d’esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qualche rimprovero tra i denti a’ suoi colleghi di servizio; i quali se ne ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi dell’antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n’eran fatte; dimodochè riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza risentimento. Ne’ giorni poi d’invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d’importanza. Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: - padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle. “Dite presto, buon uomo.” “Qui no: guai se il padrone s’avvede... Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani al convento.” “C’è qualche disegno?” “Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l’anima mia.” “Il Signore vi benedica!” e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. “Il Signore vi ricompenserà,” proseguì il frate: “non mancate di venir domani.” “Verrò,” rispose il servitore: “ma lei vada via subito e… per amor del cielo... non mi nomini.” Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell’ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì. Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sè, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare. Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più liberamente, e s’avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. — Ecco un filo, pensava, un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo! — Così ruminando, alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benchè sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, e arrivar poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco. Intanto, nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de’ quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il desinare; Renzo sul punto d’andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e, quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini: “Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre,” a quel vostra Lucia si riscosse, “io m’impegno di cavarvi di quest’impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo, quantunque sia quell’uomo che è.” Lucia rimase lì, e la guardò con un volto ch’esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e Renzo disse subitamente: “cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può fare.” “Non è vero,” proseguì Agnese, “che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?” “C’è dubbio?” disse Renzo: “maritati che fossimo... tutto il mondo è paese; e, a due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino m’ha fatto sollecitare d’andar là a star con lui, che farei fortuna, com’ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta, gli è... che serve? perchè il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme, si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell’unghie di questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N’è vero, Lucia?” “Sì,” disse Lucia: “ma come...?” “Come ho detto io,” riprese la madre: “cuore e destrezza; e la cosa è facile.” “Facile!” dissero insieme que’ due, per cui la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente difficile. “Facile, a saperla fare,” replicò Agnese. “Ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia.” “Come sta questa faccenda?” domandò Renzo. “Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.” “Possibile?” esclamò Lucia. “Come!” disse Agnese: “state a vedere che, in trent’anni che ho passati in questo mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno contro la volontà de’ suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all’erta; ma i due diavoli seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e furon marito e moglie: benchè la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre giorni.” Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: chè, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza. “Se fosse vero, Lucia!” disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole. “Come! se fosse vero!” disse Agnese. “Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani.” “Ah no! non ci abbandonate,” disse Renzo. “Parlo così, perchè la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia madre.” Queste parole fecero svanire il piccolo sdegno d’Agnese, e dimenticare un proponimento che, per verità, non era stato serio. “Ma perchè dunque, mamma,” disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, “ perchè questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo? ” “In mente?” rispose Agnese: “pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare.” “Perchè?” domandarono a un tratto i due giovani. “Perchè... perchè, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene.” “Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta?” disse Renzo. “Che volete ch’io vi dica?” rispose Agnese. “La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose... Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel abbiate, nè anche il papa non glielo può levare.” “Se è cosa che non istà bene,” disse Lucia, “non bisogna farla.” “Che!” disse Agnese, “ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’ tuoi parenti, per prendere un rompicollo... ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato...” “L’è chiara, che l’intenderebbe ognuno,” disse Renzo. “Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa,” proseguì Agnese: “ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre? — Ah figliuola! è una scappata grossa; me l’avete fatta. — I religiosi devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.” Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: “quand’è così, la cosa è fatta.” “Piano,” disse Agnese. - “E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? chè, benchè sia pesante di sua natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall’acqua santa.” “L’ho trovato io il verso, l’ho trovato,” disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto. “Son imbrogli,” disse Lucia: “non son cose lisce. Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo l’ha detto. Sentiamo il suo parere.” “Lasciati guidare da chi ne sa più di te,” disse Agnese, con volto grave. - “Che bisogno c’è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto. Al padre racconteremo tutto, a cose fatte.” “Lucia,” disse Renzo, “volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il giorno e l’ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po’ d’ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta.” E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un’aria d’intelligenza, partì in fretta. Le tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fin allora, non s’era mai trovato nell’occasione d’assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: “volete restar servito?” complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone. “Vi ringrazio,” rispose Renzo: “venivo solamente per dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare all’osteria, e lì parleremo.” La proposta fu per Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacchè, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L’invitato non istette a domandar altro, e andò con Renzo. Giunti all’osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacchè la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: - se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande. “Parla, parla; comandami pure,” rispose Tonio, mescendo. “Oggi mi butterei nel fuoco per te.” “Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato.” “Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M’hai fatto andar via il buon umore.” “Se ti parlo del debito,” disse Renzo, “è perchè, se tu vuoi, io intendo di darti il mezzo di pagarlo.” “Dici davvero?” “Davvero. Eh? saresti contento?” “Contento? Per diana, se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta. Ma...” “Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.” “Di’ su.” “Ma...!” disse Renzo, mettendo il dito alla bocca. “Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci.” “Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?” “Tu vuoi ch’io venga per testimonio?” “Per l’appunto.” “E pagherai per me le venticinque lire?” “Così l’intendo.” “Birba chi manca.” “Ma bisogna trovare un altro testimonio.” “L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere?” “E da mangiare,” rispose Renzo. “Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare?” “Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello.” “Domani...” “Bene.” “Verso sera...” “Benone.” “Ma...!” disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca. “Poh...!” rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto. “Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio...” “Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace.” “Domattina,” disse Renzo, “discorreremo con più comodo, per intenderci bene su tutto.” Con questo, uscirono dall’osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de’ concerti presi. In questo tempo Agnese, s’era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa andava opponendo a ogni ragione, ora l’una, ora l’altra parte del suo dilemma: o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perchè non dirla al padre Cristoforo? Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn? interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili. Lucia tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con l’autorità, a ciò che si vuol da lui. “Va bene,” disse Agnese: “va bene; ma... non avete pensato a tutto.” “Cosa ci manca?” rispose Renzo. “E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature.” “Come faremo?” disse Renzo, un po’ imbrogliato. “Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete.” “Benedetta voi!” esclamò Renzo: “l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto.” “Ma tutto questo non serve a nulla,” disse Agnese, “se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.” Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere. “Io non so che rispondere a queste vostre ragioni,” diceva: “ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie,” e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: “io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perchè far misteri al padre Cristoforo?” La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: “bada bene, ve’, di non dirgli nulla.”
“De che èl po’ che ‘l g’à bisògn?” el dis don Rodrigo, emplantà ‘n pè en mez a la sala. El tono de le so parole l’era tale; ma ‘l modo che i l’eva proferìde, le voleva dir nèt e sclèt, varda ben cì che g’às dinanzi, pesa le parole e fai prést. Per dàrge coràzo al fra Tòfol, nó podeva èsserge àuter de pù segur e zèrto, che parlàrge en modo superbo. El che l’era ìo con en pè levà, che ‘l zerciava le parole, e ‘l feva nar coi dedi i grani de le ave marie del rosari che tacià via sul cordon, come se ‘n caluna de chele el speràs de giatàr le parole per scomenziar via a parlar; chel far de don Rodrigo, el g’à fat nìr sùbit su la lénga pù paròle del bisògn. Però pensàndo ancia che, per nó far nar tut a mont, sia i fati sòi, ma sora tut i fati dei àutri, l’à corezù le parole che sùbit per sùbit g’era nù ‘n ment de dir e prudènte e con con grant umiltà ‘l dis: “son cì a domandàrge n’ato de zustìzia, a ‘mpregiàrlo de far na ciarità. Zèrti òumni disonèsti i à metù fòra ‘l nòm de vossiorìa lustrissima, per fàrge paura a ‘n pòer curat, per encriciàrge de far el só dover e per sotométer doi pòri nozènti. El el pòl con na parola convìnzer chesti, el pòl far en modo de dar de vòuta al derito la so forza, e solevar chei che è dré A subìr na ‘nzì crudele angiarìa. El el pòl; e podèndol… la cosiènza, l’onor…” “El me parlerà de la me cosiènza cando che nirai a confesarme da el. E po’ cant al me onor el g’à da savér che cì che lo difènt son mì e sol mì; e calunque che ‘l se riszas a méter el bèc’ ente le chestion del me onor, el ritegneròssi come n’ardito che vòl ofènderlo.” Fra Tòfol, che l’era restà colpì da le parole de chel siór, che ‘l zerciava de trasformar ente n’ofèsa le sóe, en modo da ‘nviar via na bègia ‘nzì da tègnerlo lontan dal fato pù ‘mportante del discorso, el s’è sforzà pù che ‘l podéva a star calmo e l’à pensà de mandàr zó tut chel che ge saròs plasèst de dir a l’àuter, e sùbit tegnèndo la ós bassa l’à dit: “se ài dit vergot che ge desplas, l’è sta de segùr senza volérlo. El me corézia pur, el me bróntolia pur se nó son bòn de parlar come se deve; ma per piazer el me scóltia. Per amor del ziél, per chel Sioredio, che tuti prima o dopo gen da ‘ncontrar…” e ‘ntant che ‘l diseva chesto, l’èva tòt tra le man na testòta de schèletro de legn taciàda via a la só corona e ‘l ge metéva davanti ai òcli, “nó ‘l se ‘mpóntia a negiàrge na zustìzia ‘nzì fàzile e che ca pòra zènt g’à dirito de aver. El vàrdia che ‘l Sioredio ‘l g’à sèmper i òcli per i poréti, e che le só orazion, i só lamenti i è scoutàdi lassù. L’inocènza l’è potente al só… “Ehi, padre!” l’à taià vilanament don Rodrigo: “mì ge pòrti rispèt a l’àbit che ‘l pòrta: ma se g’è na ròba che poròs fàrmel desmentegiàr saròs de véderlo ‘ndòs a un che ‘l se risza de nìrme ‘n ciasa a farme la spia.” Con sta parola ‘l frate ‘l s’è ‘nzispà e l’è nù rós come na brasa da la rabia: però l’è restà calmo, come cì che tòl zó na medizìna amara, e l’à dit: “nó ‘l pòl créder de segùr che mì pòdia èsser na spia. En cossiènza el sènt che ‘l pas che fón mì cì nó l’è de ‘n viliàco né vergognós. El me scóltia siór don Rodrigo; e vòbia ‘l ziél che nó vègnia chel dì che ve pentìo de nó avérme scoutà. Nó ‘l métia ‘l so crèdit… cal po’ crèdit, siór don Rodrigo! cal po’ crèdit dinanzi ai òumni! E dinanzi al Sioredio! El el pòl far tant cazó; ma…” “Sal el,” dis don Rodrigo, sautàndo su con rabia, ma ancia con en pòc’ de terór, “el vàrdia che, cando che me vèn la spizza de scoutar na prèdicia son bon de nar en glésia, come che fa i àutri? Ma a me ciasa! Oh!” e po' ancor con chel mèz sorisét fàus da tòr per ziro: “el me trata da pù de chel che son. El prediciadór en ciasa! I la g’à sol i prìnzipi.” “E chel Sioredio che ge domanda cont ai prìnzipi de la parola che ‘l ge fa sentìr entei so palazi; sèmper chel Sioredio el ge offre ades la só misericordia, mandàndoge ‘n só ministro, senza meritàrsel e gran pòver òm, ma sèmper só ministro, a pregiar per na nozènta…” “Ensoma, padre,” dis don Rodrigo, entant che ‘l féva per nàrsen, “mì nó ciapìssi chel che ‘l vòl dir: nó ciapìssi àuter che dev’èsserge per mèz na calche putelòta che ge prèm assà. El vàgia pur a far le só confessión a cì che ge plàs a el; e nó ‘l se tògia la libertà de ‘nzigerar pù che tant en gialantòm.” Come che don Rodrigo l’à fat per mòverse, ‘l frate ‘l s’è metù dinanzi, ma con gran rispèt; e auzzà le man come per supliciar e per tegnìrlo ìo ‘ncor ‘n pòc’, l’à respondù: “zèrto che la me prèm, l’è vera, ma nancia de pù che el; l’è doi anime che una e l’àutra me prèm pù del me sanc. Don Rodrigo! mì per el nó pòdi far àuter che pregiar el Sioredio; e ‘l farài con tut el còr. Nó ‘l me dìgia de no: nó ‘l vorà mìgia tègner ente l’angóssa e ‘ntel teror na pòra nozènta no. Na só parola la pòl sistemar tut.“ “Bòn bòn,” el dis don Rodrigo, “se ‘l crét che mì pòdia far tant per sta persona; sicome ‘l ge tègn enzì tant a sta persona…” “E alor?” el dis ansios el padre Tòfol, che però el comportament de don Rodrigo nó i lo convinzeva pù che tant, ancia se le parole che l’eva dit le podeva dar calche speranza. “Alor i la consìlia de nìr cì e de méterse sota la me protezion. De segùr nó ge mancerà engot, e nó ge sarà ‘nzun che ‘l giaverà l’ardiment de dàrge da dir, la va del me onór de cavalier.” A sta proposta, el frate l'è sautà su come 'n bis', e sicome ‘l s’èra tegnù a stento ‘nfin a chel moment, l’è sbrocià. Tuti chei propòsiti de star prudente e de èsser paziènt i è nadi su per el ciamìn: l’òm che l’era ‘n bòt el néva d’acòrdi con chel nòu; e ge vòl dir che ‘nchei casi ìo fra Tòfol el valeva pròpri per doi. “La vòssa protezion!” l’à sclamà, dando ‘ndré doi passi, postàndose plen de orgòi sul pè ‘ndrìt, e metèndo la man endrita sul flànc’, l'à arcià la zancia col dé for drìt vèrs don Rodrigo, e ‘mplantàndoge adòs doi òcli enfuriadi: “la vòssa protezion! L’è meio che ébieo parlà ‘nzì che m’ébieo fat sta proposta a mì. Adès seo nà sora la bròcia; e nó me feo pù paura.” “Come pàrles pò, tòi frate?...” “Parli come che se ge parla a ‘n luteràn, e che nó ‘l pòl pù far paura. La vòssa protezión! El sévi bèn che ca pòra nozènta la è sota la protezión del Sioredio; ma voi, pròpri voi me ‘l féo véder adès con tanta segurezza, che nó g’è pù bisògn de riguardo a parlàrven. La Lùzia, digi: el vedéo che mì pronónzi sto nòm a testa àuta, e vardàndol entei òcli.” “Ma come pò! ente sta ciasa…!” “Sta ciasa la me fa pecià: la g’à sora la maledizión. Vederéo bèn se la zustìzia del Sioredio la giaverà riguardo de càter préde, o sudizión de càter sbìri. Voi credéo che ‘l Sioredio l’abia fat na criatura compagna al só aspèto, per dàrve la sodisfazión de tormentarla! Voi credéo che ‘l Sioredio nó ‘l sia bòn de difènderla! Voi éo disprezzà ‘l só avìso! Ve sèo palesà per chel che séo. El còr del Faraón l’era dur come ‘l vòs; e ‘l Sioredio ì l’à spezzà. La Lùzia la saròs segùra con voi: ve ‘l dìgi mì che son en pòer frate; e cant a voi, sentìme bèn chel che ve ‘mprométi. Nirà ‘n dì…” Don Rodrigo l’è restà ìo enfìn cì ‘ntra la rabia e la maravéa, sbarlordì, senza giatàr àutre parole; ma cando che l’à sentù proferìr na profezìa, a la rabia se g’à tacià sota sota en misteriós spavènt. L’à brancà per aria ca man spaventosa, e auzzàndo la ós, per strupàrgela a chel malaugurà profèta, l’à urlà: “vame fòr dai pèi, vilanàz sfazzàdón, fratón fàuss col capùz.” Ste parole ‘nzì sclète le à calmà sùbit ente ‘n àtimo ‘l padre Tòfol. A l’idea de strapàz e de vilanarìa, che l’era ‘nla só testa enzì bèn e da tant tèmp, ge nideva naturale l’idea de dolor e de silenzio, e a chel complimént che geva fat chel spòdec’, ge s’è smorzà ogni spìrit de rabia e de passion, e nó g’è restà àuter che scoutar con calma chel che a don Rodrigo ge saròs plasèst de taciàrge. Sichè plan plan l’à ritirà la man da le zàte de chel gialantòm, l’à sbassà la testa e l’è restà ìo fermo, come n’àrbol azità che ruà de soflàr el vènt ente la boras-cia, el mét en sèsti i só rami, e ‘l zapa la tompèsta come Dio la manda. “Vilanàz piòcel refat!” dis ancor don Rodrigo: “tì pàrles enzì. Ma ringrazia la tònegia che g’às su le spale da lazerón, e che ‘l te salva da le caréze che se ge fa a chei come tì per ensegnàrge come che se parla. Per sto bòt vai fòr co le tó giambe; e po’ farén i conti.” E ‘l g’à ‘nsegnà con superbia, na pòrta ìo davanti de chela che i era nudi ént; el padre Tòfol l’à sbassà la testa, e ‘l se n’è nà, lagiando ìo don Rodrigo a mesurar, come ‘n leon en giàbia, el ciamp de batalia. Cando che ‘l frate el s’eva serà la porta dré ‘l cul, l’à vist ente la sala ‘ndo che l’èra dré a nar ént, n’òm che s’è tirava ‘ndré plan plan, struciàndose dré al mur per nó èsser vist da la ciàmera de la fasolada ; e la cognossù chel servo vècel che era nù a davèrgerze ‘l portón su la strada. Chesto cì l’era ‘n ca ciasa almen da carant’ani, sichè prima che nassés don Rodrigo; l’era nà a servìr ancor só pare, che l’era tut n’àutra pasta de òm. Mòrt só pare, el fiòl l’à sfratà tuta la servitù, e però sto servo cì el se l’eva tegnù perchè l’era zà vècel, ma ancia perché, se bèn col padrón el fus come dal dì a la nòt, el sgalivava sto difèt con doi calità: el gran crèdit che ‘l ge deva a ca ciasa, e po’ nó ge n’èra de pù bravi can che g’èra da far azèti; el cognosséva meio de qualunque, tute le tradizion ancia le pù antiche, e tute le part ancia le pù pìzzole. El pòer vècel nó l’averòs mai bù ‘l coràzo de dìrge sul mus chel che ‘l pensava e men che men de critegiàrlo de chel che ‘l vedeva tuti i dì: a la pù el feva na calche crìtegia, calche brontolàda ‘ntra i denti coi só compagni de laoro; ma chésti i lo grignava fòr, e anzì i se godéva a zaigiàrlo su chel punto, per fàrge dir vergot de pù de chel che ‘l voléva e po’ per sentìrlo lodar ancor i tempi cando che ‘nte ca ciasa se viveva da gialantòm. Le só brontolade le arivava enle récle del padrón sèmper compagnade da gran risade en modo tale che l’era deventà el zambèl de tuti. Entei dì che g’era feste o calche ‘nvidà de riguardo, chel vècel el deventava ‘n personazi serio e che deva importanza. El padre Tòfol i l’à vardà ‘ntel passàr, i l’à saludà, e l’è nà per la só strada; ma ‘l vècel ‘l g’è nà dausìn e ‘n pòc’ misteriós l’à metù ‘l dé su la bócia, e po’ con chel dé ‘l g’à fat segn de nàrge dré ente n’àndit scur. Cando che i è stadi ìo ‘l g’à dit sota ós: ― padre, ài sentù tut, e g’ài bisògn de parlàrge. “Presto diséme, bon òm.” “Cacì nó pòdi: guai a mì se ‘l padrón el se nascòrz… Ma mì sai tante ròbe; e vardi de nìr doman al convènt.” “Gial en ment calche vergot?” “Vergot en l’aria g’è de segùr: ài zà podèst nascòrzerme. Ma ades vardi de savér de pù e speri de nìrgen sora a tut. El me làgia far a mì. Me tócia véder e sentìr de che ròbe…! ròbe de fòc’! Son ente na ciasa…! Però mì voròssi salvàrme l’anima.” “El Sioredio el ve ‘mbenedìsia!” E disendo sota ós ste parole, el frate la metù la man su la testa biancia del servo, che, ancia se l’era pù vècel de el, el gé steva ìo inchinà dinanzi, come se ‘l fus so fiòl. “El Sioredio a so tèmp el ve pagerà,” dis el frate: “Vardà de nìr doman al convènt.” “Vèni, vèni,” à respondù ‘l servo: “ma ‘l vàgia via sùbit e… per amor del ziél… nó ‘l fàgia ‘l me nòm.” E disèndo ‘nzì, el s’è vardà ‘ntorn, e l’è sortì, da n’àutra banda de chel’àndit, ente na saléta, che la portava entel cortìu; e vist che nó g’èra ‘nzun, l’à clamà fòr el frate, che con n’oclada ‘l g’à respondù mèio che con zento parole. El servo ‘l g’à mossà da ‘ndo che ‘l geva da nar fòr; el frate, senza dìr àuter, l’è partì. Chel’òm l’èra sta ìo a scoutàr su l’us del só padron: ével fat ben? E fra Tòfol fével ben a lodarlo per chesto? A vardar le regole pù sèmplizi e che de sòlit le val sèmper, l’è na ròba putòst bruta; ma per chel caso ìo nó se podéva seràr n’òcel no? e po’ per che regole pù sèmplizi e che de sòlit le è sèmper azetàde ge pòl èsser casi che se pòl seràr n’òcel? L’era chestión serie; ma ‘l lezidor el la penserà come che ‘l vòl. Noi nó gen intenzion de dar zudìzi: ne basta aver fati da contàr. Embòt che l’è sta fòra, e voutà le spale a ca ciasàzza, fra Tòfol ‘l podeva tirar el flà pù ben, e ‘l s’è ‘nvià ‘n prèssa zó per la chìpa, col mus tut ros, avelì e sot sora, come tuti i pòl emmazinarse, per chel che l’eva sentù, e per chel che l’eva dit. Però ca esebizión del vècel che nó ‘l se spetava, l’era sta per el en gra soliévo: ge paréva che Chel su sóra el giaves dat na prova che se podeva véder de la só protezion. — Eco ‘n fìl, el pensava, en fìl che la providènza la me mét enle man. E pròpri ‘n ca ciasa ìo! e senza che mì me ‘nsognàsite de zerciàrlo! — E ‘ntant che ‘l masnava sti pensieri, l’à levà i òcli e l’à vist el sol che era dré a nar zó e che ‘l tociava zà la zima del mont, e l’à pensà che ormai de chel dì restava pròpri pòc’. Alor, ancia se ‘l sentìva mal dapertut per via de tuti i strapazi de ca zornada, l’à pessegià ancor de pù, per podér portàrge na nòva, chela che fus, ai só protèti, e po’ arivar al convènt prima che fus nù nòt: che per àuter l’èra una de le régole pù severe che geva i frati capuzini. Entant, enla ciasòta de la Lùzia, i eva pensà e ‘mmazinà prozèti, che ne convièn dìrge al lezidor. Dopo che era partì ‘l frate, chei trei i era restàdi ìo senza dir engot; la Lùzia trista la preparava disnàr; el Renzo l’era ìo per nàrsen ente ogni momént, per tòrse via da ela che l’era ‘ngropada, ma però nó l’era bòn de destaciàrse; l’Agnese l’emparéva tuta zapàda a l’àspol che la féva ziràr. Ma, sota sota l’era dré a maduràr na trovada; e, cando che g’è parèst che la fus madura, l’è nuda fòr con ste parole: “Sentìme putèì! Se voléo aver còr e braùra cant che ge ‘n vòl, se voléo fidàrve de vòssa mare,” come che l’à dit vòssa la Lùzia l’à s’è fata fòr, “mì me don da far a tiràrve fòr da sta pégola, forse mèio e pù prest del padre Tòfol ancia se l’è l’òm che l’è.” La Lùzia l’è restàda ìo col vis plen de maravéa pù che de fidament per na pensada enzì bela; e ‘l Renzo ‘l dis sùbit: “còr? braùra? disé, disé pur che che se pòl far.” Dis l’Agnese: “Nó èl vera no, che se fùsseo sposadi ‘l saròs en bel pas inanzi? E che a tut el rest se troveròs pù fazilment en rimèdi?” “G’è da dubitar?” dis el Renzo: “Maridàdi che fùssente… tut el mondo l’è paes; e, cì a doi passi, entela bergamasca, cì che laóra a far el tessàder i lo tòl a brazi avèrti. Nó séo cante bòte che me cosìn el Bórtol el m’à domandà de nar a star ìo da el, che faròssi fortuna, come che à fat el: e se mì nó g’ài mai dat fé, l’è perché… ma nó serve? l’è perché el me còr l’era cì. Maridàdi, se va tuti ‘nsèma, se mét su ciasa ìo e se viò en santa paze, for da le sgrìnfe de sto spòtico, lontan da la tentazion de combinàr calche spropòsit. Èl vera no, Lùzia?” “Sì,” la dis la Lùzia: “ma come po’?” “Come che ài dit mì,” a dit só mama: “còr e astuzia; e la ròba l’è fàzile.” “Come dìrlo!” i dis tuti doi ensèma, ma per lori la chestión, senza spiegiàrsel, adès l’era deventàda pròpri difìzile. “Fàzile, per cì che è bòn de fàrla,” g’à replicà l’Agnese. “Scoutàme ben, che vardi de fàrvela ‘ntènder. Mì ài sentù dir da zènt che sa, e che anzi enten caso l’ài vìst pròpri mì, che, per far en matrimòni, ge vòl sì ‘l curàt, ma nó l’è nezessàri che i lo vòbia, basta che ‘l ge sia.” “Com’èla sta fazènda?” à domandà ‘l Renzo. “Scoutàme e sentiréo. Ge vòl doi testimòni dritóni e che i vàgia d’acòrdi. Se và dal curàt: però ge vòl fàrge n’emprovisàda, che nó ‘l g’àbia ‘l tèmp de s-ciampar. L’òm el dis: siór curàt, chesta l’è la mé spósa; la feumna la dis: chesto l’è ‘l me òm. Ge vòl che ‘l curàt el sèntia, che i testimòni i sèntia; e ‘l matrimòni l’è bel e fat, sacrosànt come se i l’aves fat el papa. Cando che le parole le è stade dite, el curàt el pòl urlar, zigiar, far tut el rebaltón che se vòl; l’è inutile; séo òm e feumna.” “Possìbol?” l’à sclamà la Lùzia. “Come po’!” la dis l’Agnese: “ma nó voréo migia pensar che, ‘nten trent’ani che ài passà a sto mondo prima che voi nasséseo, nó abia ‘mparà ‘ngot no.” La ròba l’è come che ve la digi mì: tanto che na me amica, che la voleva tòr un contra la volontà dei sòi, fasèndo enchel modo ìo, l’è arivada sul so. El curàt, che g’èra nà ‘n pùles enla récla, el stéva atènto; ma chei doi diàuli ì à savèst far le ròbe enzì ben, che i l’à zapà entel moment zust, i à dit le parole, e i è deventadi òm e feumna: ancia se dopo apena trei dì ca poréta la s’èra pentìda.” L’Agnese la geva resón, sia per el fato de podérlo far, sia per el perìcol de nó èsser bòni: perché sicome enzuni doprava na ‘mpensada tale se nó l’era zènt che eva bù calche ostàcol o sgnapada per la strada ordenaria, i pàroci i steva su con le récle ben atenti a schivarse ca situazion sforzada; e ancia, se per caso un de chei prèti ‘l se fus trovà davanti a doi sposi enzì, compagnadi dai testimòni, el feva de tut per liberàrsen, come ‘l Proteo da le man de chei che voleva fàrge far le profezìe per forza. “Se ‘l fus vera, Lùzia!” dis el Renzo, vardàndola col vis come per supliciarla. “Come pò! se ‘l fus vera!” la dis l’Agnese. “Ancia voi credéo che mì dìgia fandògne. Mì me fon en càter per voiàutri, e nó me credéo: bòn bòn; ranzàve da vòssa pòsta alor: mì me ‘n lavi le man.” “Ah no! nó ste ‘mplantàrne cì adès no,” dis el Renzo. “Parli ‘nzì perché sta ròba la me par ancia massa bèla. Me méti enle vòsse man; mì ve tègni pròpri come se fùsseo me mama.” A ste parole l’Agnese, che ‘n pòc’ la g’èra nada su per el nas, l’à desmentegià sùbit chel proponiment che, a dir la verità nó l’averòs mai fat per dal bòn. “Ma perché po’ alor, mama,” dis la Lùzia, col só far en pòc’ respetos, “perché po’ nó la g’è nuda ‘n ment al fra Tòfol?” “En ment?” à respondù l’Agnese: “vòs che nó la ge sia nuda ‘n ment no! ma nó l’avrà volèst parlàrnen.” “Perché?” à domandà ensèma a l’emprovisa i doi putèi. “Perché… perché, se voléo savérlo i prèti i dis che nó ‘l saròss pròpri na bèla ròba da far.” “Ma com’èla po’ che na ròba che nó la va ben fata, cando che l’è fata l’è fata ben?” dis el Renzo. “Che voléo che ve dìgia po’ mì?” à respondù l’Agnese. “La leze i l’à fata lori, come che g’à plasèst fàrla; e noi pòra zènt nó podén ciapìr tut. E po’ cante ròbe le va ben en pràtigia e le è sbagliade ‘n teoria… Ecco; l’è come dàrge ‘n pugn a ‘n cristian. Nó l’è na bela roba; ma, ‘n bòt che ge l’éo dat, nó pòl tòrgel nancia ‘l papa.” “Se l’è na ròba che nó sta ben far,” dis la Lùzia, “nó ge vòl fàrla.” “Ma sì!” dis l’Agnese, “nó voràstus mìgia che te dàgia ‘n consìli contra ‘l timor de Dio no? Se ‘l fus contra la volontà dei tó parenti, che nó i vòl che tògies en s-ciavizzacòl… ma, contenta mì, e per tòr sto brào fiòl; e cì che met tute ste angiarìe l’è ‘n birbante; e ‘l siór curàt…” “L’è ‘nzì palesàda che i la ciapiròs tuti,” dis el Renzo. La dis l’Agnese: “Nó ge vòl parlàrgen al fra Tòfol, prima de farla fòra, e ‘n bòt che l’è fata e che la è reussìda, che pénses che ‘l te dìgia po’ ‘l padre? ― Ah pòpa! Me l’éo fata pròpri grossa. ― I preti i cògn parlar enzì. Ma crédeme a mì che sota sota l’è content ancia el.” La Lùzia, nó l’à podèst dir àuter a chel resonament, però nó la era ‘ncor convìnta: ma ‘l Renzo, tut resoluto, ‘l dis: “se l’è ‘nzì, la ròba l’è fata.” “Plan, plan,” la dis l’Agnese. – “E i testimòni? Ge vòl trovar doi che i è d’acòrdi ma che ‘ntant i stàgia ziti! E po’ emprovisàrse dal siór curàt che l’è doi dì che l’è serà ént en ciasa? E fàrlo star ìo? perché ancia se l’è péger de so, de segùr a véderve comparìr tuti canti ensèma, ‘l deventerà lèst come ‘n giat e ‘l ve s-ciamperà come ‘l diàul da l’aca santa.” “L’ài trovà mì ‘l modo, l’ài trovà,” dis el Renzo, batèndo ‘l pugn su la tàula, fasèndo scorlar piati e scudèle parezàdi per el disnar. E po’ l’à spiegià le só intenzion, che l’Agnese l’à aprovà ‘n tut e per tut. “L’è sfrugnade,” dis la Lùzia: “nó l’è ròbe da far. Enfìn adès sen nadi avanti onestament: l’è mèio che néntie avanti con fede, e ‘l Sioredio ‘l ne aiderà: el padre Tòfol i l’à dit. L’è mèio sentìr el só parér.” “Làgete compagnar da cì che ‘l né ‘n sa pù de tì,” dis l’Agnese, che la féva sul serio. – “Perché po’ ge vòl domandar opunión? El Sioredio ‘l dis: aiùtete, che mì te aiuti. Al padre ge conterén tut, a ròbe fate.” “Lùzia,” dis el Renzo, “nó voréo mìgia tiràrve ‘ndré ades no? Nó évente fat tute le nòsse ròbe da bòni cristiani? Nó doròssente zà èsser mì ‘l to òm e tì la me feumna? El curàt nó ével zà fissà el el dì e l’ora? De cì èla po’ la colpa, se adès cognén enzignàrne come che podén? No, nó vé tireréo endré. Vón e vèni con la rispòsta.” Saludando la Lùzia con n’ato de racomandazion e po’ l’Agnese con l’aria da cautrìn l’è partì ‘mprèssa. Le tribolazion le fa nar el zervèl: e ‘l Renzo che sul sintér drìt e plan de la só esistenza viazàda enfìn a alór, nó ‘l s’era mai giatà ente la situazión che l’era, e ‘l s’eva ‘nventà una de le sóe che la giaveròs fat onor ancia a ‘n zùdize. L’è nà drìt come ‘n fil, come che l’eva ‘mpensà, vèrs la ciaséta de ‘n zèrto Tòni, che l’era ìo arènt; i l’à giatà ‘n cosìna ‘ntant che col zinòcel sul s-cialìn del foglàr el tegnìva ‘n man l’ór del paròl che l’eva metù su le brase, e ‘l mesdava con la glava na polentòta grìsa de formentón. Só mare, ‘n fradèl, la spósa del Tòni, i era sentàdi zó a tàula; trei o càter popàti ‘n pè arènt a só pare i spetàva coi òcli fissi sul paròl che nidés ora de trar fòr la polènta. Nó g’èra l’alegrìa che ge doròs èsserge a véder el disnar can che se se l’à gadagnà con fadìgia. La polènta l’era tanta canta che che l’an ìo se podéva magnar, ma no de zèrto canta che ge ‘n avròs volèst per l’apetìt dei vantori. Tuti i enfissava coi òcli de sbiéc’ famadi luzzi, la polènta che la geva da èsser assà per tuti. Entant che ‘l Renzo ‘l saludava tuta la famìlia, ‘l Tòni l’à tràt fòr la polènta sul taiér de fòu ìo pronto a zapàrla: emparéva na luna pìzzola en mèz a ‘n zércel de vapór. Le feumne per complimént le g’à domandà al Renzo: “voléo fermàrve a magnàr en bocón?” en compliment che ogni contadìn de la Lombardia, e cissà de canti àutri pòsti! ‘l fa sèmper a cì che lo giàta ‘ntant che ‘l magna, ‘l fus ancia ‘n sioràz che l’è apena levà su ténc’ da la tàula, e per el el fus l’ultim bocón. “Ve ringrazi,” à respondù ‘l Renzo: “vèni sol per dìrge na ròba al Tòni; anzi se vòs Tòni per nó dàrge da dìr a le tó feumne podén nar a disnar a l’ostarìa e te parlerài ìo.” El Tòni che nó ‘l se spetava chel vada e l’era pròpri contentón; le feumne e ancia chei pòri pòpi (che su l’emplenìr la panza i eva emparà sùbit a far i conti) ancor de pù perché nó i à vist malvolintera che ge ‘n fus un de men da spartìr la polènta e estra un che l’era de zaco. Siché ‘l Tòni nó ‘l se l’à fat dir doi bòte e l’è nà col Renzo. Arivadi a l’ostarìa del paes, i s’è sentàdi zó, ‘n tuta comodità e da só pòsta, perchè la gran misèria l’eva desusà i avantóri de chel posto de lovarìe; i s’à fati portar chel pòc’ che se trovava e i à svoidà ‘n fiàsc’ de vin; po’ ‘l Renzo con en far misteriós el dis al Tòni: - se me fas en piazeròt, mì vòi fàrten un pù grant. “Parla, parla pur; comàndeme pur,” à respondù ‘l Tòni, svidàndose fòr en bicér. “Ancòi per tì me peteròssi ‘ntel fòc’.” “Tì g’às en dèbit de vintizìnc’ lire col siór curàt, per el fit del só ciamp, che lauràves l’an passà.” “Ah, Renzo, Renzo! tì me rovìnes la zornada. Con che ròba me vènes fòra po' adès? M’às fat passar el bonumor.” El Renzo: “Se te parli del dèbit, l’è perché, se vòs, mì g’ài en ment de dàrte ‘l mèzo per pagiàrlo.” “Dìges dalbòn?” “Dalbòn sì. Ah? saròstus contènt no?” “Contènt? Ostizia, se saròssi contènt! Demò per nó véder pù chei zestàzzi, e chei mòti con la testa che me fa ‘l siór curàt ogni bòt che ne ‘ncontràn. E po’ sèmper: Tòni, ricòrdete vè: Tòni, cand’èl po’ che ne vedén per chel’afàre? Adiritura cando che ‘l fa la prèdicia el me fìcia chei òcli adòs e mì g’ài scasi paura che ì lo dìgia zó dal pùlpit, che i lo sèntia tuti: che vintizìnc’ lire! Che le sia maledete che vintizìnc’ lire! E po’ ‘l doròs dàrme de vòuta la colana de òr de la me sposa, che barateròssi con tanta polenta. Ma…” “Ma, ma, se tì vòs fàrme ‘n piazeròt, le vintizìnc’ lire le è zà bel e che pronte. ” “Dìme, dai.” “Ma…!” dis el Renzo metèndo ‘l dé su la bócia. “Ocór che me dìgies ste ròbe? me cognósses ben no?” “El siór curàt l’è dré a tiràr fòr en mùcel de pégole senza sugo per tiràr en lòngia ‘l me matrimòni; mì ‘nveze voròssi far emprèssa. I m’à dit che se ne presentàn davanti a el noi doi spósi con doi testimòni, e disèndo mì: chésta l’è la me spósa, e la Lùzia: chesto l’è ‘l me marì, el matrimòni l’è bel e fat. M’às ciapì?” “Vòs che vègnia mì a far da testimòni?” “Apunto.” “E tì me pàges le vintizìnc’ lire?” “Enzì g’ài en ment.” “Coión cì che mància.” “Però ge vòl trovar n’àuter testimòni.” “L’ài trovà. Chel pìnco de me fradèl el Zervàso el fa chel che ge dìgi mì. Tì ge pageràstus ben da béver no?” “E da magnar,” à respondù ‘l Renzo. “Prima ‘l portàn cì con noi a béver na taza. Ma saràl bòn de farla?” “Ge ‘nsegni mì: sas ben che la só part de zervèl l’ài tòta mì.” “Doman…” “Bón.” “Vèrs l’embrunìr…” “Benón.” “Ma…! dis el Renzo, metèndo de nòu el dé su la bócia.” El Tòni plegiando la testa su la spala e auzzàndo la zancia come a dir nó fàme tòrt, el dis: “Poh…!” “Ma, se la tó spósa la te domanda, che la te domanderà de segùr…” “De bosìe, son en dèbit mì con la me feumna, e pròpri tant, che nó sai nancia se ariverài a nar pari. Calche sbrómbola ge giaterài fòr, tanto da fàrla star col còr en paze.” Dis el Renzo: “Doman matina discorerén con còmot, per méterne d’acòrdi ben su tut.” Con chesta, i è partìdi da l’ostarìa, el Tòni ‘nvià vèrs só ciasa, studiando la fandògna da contàrge a le só feumne, e ‘l Renzo a rènder cont dei pati che l’eva tòt. Entant l’Agnese l’eva sfadigià assà e perengót a convìnzer só fiòla. Chesta la contradìva ogni resón e la tiràva fòr adès una e po' l’àutra part del só gran dubi: o la ròba l’è disonèsta e alor nó ge vòl fàrla; o nó la è, e perché alór nó dìrla a padre Tòfol? El Renzo l’è arivà tut contènt, l’à fate l só rapòrto, e a la fìn l’à sclamà: ahn? Come per dir: sónte o nó sónte n’òm mì? se podéva trovàrnen un mèio? Ve saròssela nuda ‘n ment a voi? E àutre zènto ròbe del zènere. La Lùzia la scorlava plan plan la testa, ma chei doi s-ciaudadi i ge feva pòc’ caso, come che se fa con en pòpo che nó se pòl pretènder de fàrge ‘ntènder tuta la resón de na ròba, e che dopo se convinzerà prima con le bòne e po' con l’autorità a fàrge far chel che se vòl da el. “Va ben,” dis l’Agnese: “va ben; ma… nó en pensà a tut.” “Che èl po’ che ne mancia?” à respondù ‘l Renzo. “E la Perpetua? nó éo pensà a la Perpetua. El Tòni e só fradèl i li lagerà nar ent; ma voi! voi doi! pensà! la giaverà l’ordine de tègnerve lontani, pù che ‘n putèl da ‘n peràr coi fruti maduri.” “Come farénte po’?” dis el Renzo ‘n pòc’ empazzà. “Eco: g’ài pensà mì. vèni ancia mì con voi; g’ài en segrèt per tiràrla e per ‘nciantarla ‘n modo che nó la se nascòrzia de voi e podégieo nar ent. La clamerai mì, e ge tirerai fòr mì na robéta… vederéo.” “Benedeta voi!” l’à sclamà ‘l Renzo: “l’ài sèmper dit mì che seo voi el nòs aiùt en tut.” “Ma tut chesto nó ‘l val engot,” dis l’Agnese, “se nó se convìnz chesta cì che la se ‘mponta a dir che l’è pecià.” Ancia ‘l Renzo la tirà fòr tuta la só bàtola: ma la Lùzia nó la se lagiava convìnzer. La Lùzia la diseva: “Mì nó sai chel che risponder a le vòsse resón, ma vedi che a far sta ròba, come che diséo voi, ge vòl nar avanti a furia de sfrugnade, bosìe, de sfausarìe. Ah Renzo! nó en mìgia scomenzià ‘nzì no. Mì voi èsser la vòssa spósa,” e nó g’èra vèrs de proferìr ca paròla e spiegiar ca intenzion senza deventar rossa come na brasa: “mì vòi èsser la vòssa spósa, ma per la strada drita, col timor de Dio, dinanzi a l’autar. Lagiàntege far a Chel su sora. Voléo che nó ‘l sàpia trovar el ciào per aidàrne no, mèio de chel che poden far noiàutri, con tute ste furbarìe? E po’, perché po’ fàrge mistèro al padre Tòfol?” La discussion la neva inanzi, e ‘mpareva che nó la giaves da ruàr pù, cando che s’è sentù ‘n pestolar pessegènt de zopèle e ‘n rumor de tònegia sbatuda, che ‘l ge ‘nsomiava a chel che fa ‘l vent cando che ‘l sófla ente na vela flapa, l’era padre Tòfol. Tuti i à tasèst; l’Agnese l’abù apena ‘l tèmp de susuràrge ‘n la récla de la Lùzia: “Varda vè, nó dìge ‘ngot vè no.”
Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini. “La pace sia con voi,” disse, nell’entrare. “Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.” Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacchè il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a voto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia. “Vorrei sapere,” gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; “vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.” “Povero Renzo!” rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: “se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.” “Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perchè non vuole?” “Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.” “Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzone d’inferno?” “Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, nè il tuo, non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi... sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.” Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti. “Avete sentito cos’ha detto d’un non so che... d’un filo che ha, per aiutarci?” disse Lucia. “Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci...” “Se non c’è altro...!” interruppe Agnese. “Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo...” “Chiacchiere! la finirò io: io la finirò!” interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole. “Oh Renzo!” esclamò Lucia. “Cosa volete dire?” esclamò Agnese. “Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui...” “No, no, per amor del cielo...!” cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce. “Non son discorsi da farsi, neppur per burla,” disse Agnese. “Per burla?” gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. “Per burla! vedrete se sarà burla.” “Oh Renzo!” disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: “non v’ho mai visto così.” “Non dite queste cose, per amor del cielo,” riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. “Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’ anche... Dio liberi! ... contro i poveri c’è sempre giustizia.” “La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...!” L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: “non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re...” “E bene!” gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: “io non v’avrò; ma non v’avrà nè anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del...” “Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così,” esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: “questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!” “E io che male v’ho fatto, perchè mi facciate morire? disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti. “Voi!” rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: “voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!” “Sì sì,” rispose precipitosamente Lucia: “verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.” “Me lo promettete?” disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt’a un tratto, più umano. “Ve lo prometto.” “Me l’avete promesso.” “Signore, vi ringrazio!” esclamò Agnese, doppiamente contenta. In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini. “Ve l’ho promesso,” rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: “ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre...” “Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito?” “No no,” disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. “Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia...” “Perchè volete far de’ cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.” “Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.” “Ve lo prometto, da povero figliuolo.” “Ma, questa volta, mantenete poi,” disse Agnese. Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio. Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel’augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo. La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe. “Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera?” domandò Agnese a Renzo. “Le zucche!” rispose questo: “sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.” “Manderò Menico.” “Va bene,” rispose Renzo; e partì, per accudire all’affare, come aveva detto. Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’era un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, - per un certo servizio, - diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. - Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo... “Ho capito,” disse Menico: “quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino.” “Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, nè a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, nè a far quell’altro tuo giochetto solito...” Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole. “Poh! zia; non son poi un ragazzo.” “Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te.” “Datemele ora, ch’è lo stesso.” “No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più.” Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, nè rifinito nè cencioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come potè. Gridatogli dietro: - ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! - tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: “nessuno”: parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che nè l’una nè l’altra ne sapessero ben chiaramente il perchè. Ma ne rimase a tutt’e due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera. Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo. Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’ nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co’ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuorchè un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de’ senatori, e non lo portavan che l’inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: - e il conte Attilio? - domandò, sempre camminando, don Rodrigo. “È uscito con que’ signori, illustrissimo.” “Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.” Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; chè, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco. “Cugino, quando pagate questa scommessa?” disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori. “San Martino non è ancor passato.” “Tant’è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario, prima che...” “Questo è quel che si vedrà.” “Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra.” “Sentiamo.” “Che il padre... il padre... che so io? quel frate in somma v’ha convertito.” “Eccone un’altra delle vostre.” “Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo -. E qui, parlando col naso, accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: - in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi...” “Basta, basta,” interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. “Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.” “Diavolo! che aveste voi convertito il padre!” “Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà.” La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano nè incamminati, nè assolutamente fissati. La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. — Cose grosse — disse tra sè il servitore a cui fu dato l’ordine; perchè l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’ bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Così, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perchè il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione. “Griso!” disse don Rodrigo: “in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.” “Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone.” “Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purchè la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.” “Signore, un po’ di spavento, perchè la non faccia troppo strepito... non si potrà far di meno.” “Spavento... capisco... è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?” “Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.” “Sotto la tua sicurtà. E... come farai?” “Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa... vossignoria non saprà niente di queste cose... una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.” “Va bene; e poi?” Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all’esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: - senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m’hai inteso. “Lasci fare a me,” rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto. Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si potè fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, commentando tra sè una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s’incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto; uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare. Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: “Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento.” Lucia sospirò, e ripetè: “coraggio,” con una voce che smentiva la parola. Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu lì per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l’apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran " sei " che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sè in una stanza vicina, e ordinò la cena. “Chi sono que’ forestieri?” gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano. “Non li conosco,” rispose l’oste, spiegando la tovaglia. “Come? nè anche uno?” “Sapete bene,” rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola, “che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.” “Come potete sapere...?” ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: “Chi sono que’ galantuomini?” “Buona gente qui del paese,” rispose l’oste, scodellando le polpette nel piatto. “Va bene; ma come si chiamano? chi sono?” insistette colui, con voce alquanto sgarbata. “Uno si chiama Renzo,” rispose l’oste, pur sottovoce: “un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso.” E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interrogante; e andò a portare il piatto a chi si doveva. “Come potete sapere,” riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, “che siano galantuomini, se non li conoscete?” “Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? - Così dicendo, se ne tornò in cucina. Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh? La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate. “Che bella cosa,” scappò fuori di punto in bianco Gervaso, “che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno...! - Renzo gli fece un viso brusco.” Vuoi stare zitto, bestia? - gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quand’era entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s’accorsero d’essere osservati, si fermarono anch’essi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. “Sarebbe però un bell’onore, senza contar la mancia,” diceva uno de’ malandrini, “se, tornando al palazzo, potessimo raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.” “E guastare il negozio principale!” rispondeva l’altro. “Ecco: s’è avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio.” C’era in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all’uno, ora all’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte. Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno), l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato; l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piùttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: “ son qui, andiamo; ” quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo nè forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera. Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: che s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente alla porta, e picchiarono. “Chi è, a quest’ora?” gridò una voce dalla finestra, che s’aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. “Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È forse accaduta qualche disgrazia?” “Son io,” rispose Tonio, “con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato.” “È ora da cristiani questa?” disse bruscamente Perpetua. “Che discrezione? Tornate domani.” “Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.” “Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perchè venire a quest’ora?” “Gli ho ricevuti, anch’io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.” “No, no, aspettate un momento: torno con la risposta.” Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: “coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente,” si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.
El padre Tòfol l’arivava segùr de èsser en bon capetano che l’eva sì perdù na batalia importanta ma senza avérgen colpa, en pòc’ avelì, ma senza aver perdù ‘l coràzo, sora pensiér, ma no empressionà, de corsa e senza s-ciampar, el neva ‘ndo che gera ‘l bisògn, a difender i pòsti ‘n perìcol, a méter ensèma la trupa, a dar ordini nòvi. “Paze e ben a voi,” el dis entel nar ént. “Nó g’è ‘ngot da sperar ente la zènt: ge vòl fidàrse tant de pù del Sioredio: e g’ài zà calche pégn de la só protezión.” Ancia se nó gera ‘nzun de chei trei che speras tant entel sfòrz del padre Tòfol, zà che a véder el padre che ‘l se arendeva dinanzi a n’angiarìa, senza èsser sta obligià, e per el puro créder enle orazión e basta, l’era pròpri na ròba che nó se era mai sentù; fato sta che la verità l’è sta ‘n colp per tuti. Le dòne le à sbassà la testa; ma al Renzo pù che l’aveliment g’è sautà ‘l morbìn. Cando che l’à sentù ca nòva l’era zà avelì da tante ròbe stòrte, da tanti passi fati e nadi de mal, da tante speranze tradìde e per de pù stomegià, enchel moment da le sgnapade de la Lùzia. Zigiant el mossava i denti, auzzàndo la ós, come che nó l’eva mai fat prima en presenza del padre Tòfol ‘l dis: “Voròsi savér, che resón che l’à tirà fòr chel ciagn, per sostègner… per sostègner che la me spósa nó ‘l dev’èsser la me spósa.” “Pòer Renzo!” dis el frate plen de compassión con la ós bassa e pietosa e con n’oclada che la ge comandava de star calmo: “se ‘l spòtico che vòl far n’angiarìa el fus sèmper obligià a dir le só resón, le robe nó le naròss come che le va.” “Ma alor chel ciàgn l’à dit che nó ‘l vòl, perché nó ‘l vòl?” “Nó l’à dit nancia chesto, pòer Renzo! Saròss ancor en vantàzi se, per far n’angiarìa, i cognés confesàrla davanti a tuti.” “Ma vergot l’avrà ben bu da dir: che àl dit po' chel stizón d’infèrn?” “Mì le só paròle l’ài sentùde, ma nó saròssi bòn de ripèterle. Le parole de ‘n òm ciatìo che l’è fòrt, le va ent da na récla e le và fòr da l’àutra. L’ariva a ‘nrabiàrse se fas véder de sospètar de el, e ‘ntel stes tèmp el te fa ciapìr che che chel che sospètes l’è pròpri vera: el pòl ofènder e clamàrse oféso, grignàrte fòra e pretènder ancor de aver resón, stremìrte e lamentàrse, fa el vilanàz e ‘l benarlevà. Nó sta domandarme de pù. Chel’ìo nó l’à mai fate l nòm de sta pòra nozènta, e nancia ‘l tò, anzi nó l’à mossà nancia de cognósserve, nó l’à dit de nó pretènder engot; ma… ma purtròpo ài cognèst rènderme cont che l’è restìu a zéder. Epur, confidànte ‘ntel Sioredio! Voi, poréte, nó ste petàrve zó; e tì Renzo… oh! Crédeme, mì sai méterme ‘ntei tó pani, e sai chel che ses dré a passar. Ma, pasiènza! L’è na magra parola, na parola dura da ‘nglotìr per cì che nó ge crét; ma ti…! Nó vòs dàrge al Sioredio en dì, doi dì, el tèmp che ‘l vorà tòrse, per far vénzer la zustìzia? El tèmp l’è so; e ‘l ne n’à ‘mprometù tant! Renzo, làgia far a El; e sapi… e sépieu tuti che mì g’ài zà ‘n man en fil per aidàrve. Entant nó pòdi dìrve àuter. Doman mì nó nirai cassù; cògni star entel convènt tut el dì, per voi. Tì Renzo, varda de nìr: e se percaso, sperante de no, nó podéstus nir tì, mandàme n’òm de fiducia, en putelòt che à fat zudìzi, per fàrve savér chel che ocór. È dré e nìr nòt; cògni pròpri córer al convènt. Féde, coràzo; e adio.” Dit enzì, l’è partì ‘mprèssa, e ‘l se n’ nà, de corsa, scasi a giambe levàde, zó per el viòtol stòrt plen de sassi, per nó arivàr tardi al convent, col riszo de zapàrse 'n bel verboncaro, o magiari, chel che ge saròs premèst de pù, na penitenza che la ge ‘mpedìs el di dré de giatàrse pronto se g’era bisògn per i só protèti. “Eo sentù chel che l’à dit de mì nó sai che… de ‘n fil che ‘l g’à per aidàrne?” dis la Lùzia. “Ne convièn fidàrne de el; l’è n’òm che cando che l’ampromét dés…” “Se nó g’è àuter…! à proferì l’Agnese. L’averòs dovèst parlar pù ben, o clamàrme da na banda e dìrme chel che l’è sto…” “Zàcole! l’à sistèmi mì: mì l’à sistèmi!” dis el Renzo, sto bòt, nando su e zó per la ciàmera come ‘n leon e con na ós, e na musara, che nó gera dubi che la mossàs pròpri chel che s’entendeva de dir. “Oh Renzo!” l’à sclamà la Lùzia. “Che che voléo dir pò? dis l’Agnese.” “Che g’è po' da dir? La sistèmi mì. El giàbia pur zènto, mili diàuli ‘n l’anima, ma a la fin l’è de carne e òssi ancia el…” “No, no per amor del ziél…!” à ‘nvià via la Lùzia; ma na planzùda la g’à blocà la ós. “Nó l’è ròbe da dir, nancia per schèrz,” dis l’Agnese. “Per schèrz?” l’à zigià ‘l Renzo, che ‘l s’era fermà su drìt en pè dinanzi a l’Agnese che l’era sentada zó, con doi òcli fòr da la testa. “Per schèrz! vederéo ben se l’è ‘n schèrz.” “Oh Renzo!” dis la Lùzia a stènto tra ‘n sanglót e l’àuter: “nó v’ài mai vìst enzì.” “Nó ste dìr ste ròbe, per amor del ziel,” dis ancor l’Agnese sbassando la ós. “Nó ve ricordào pù de canti brazzi che ‘l comanda chel’ìo no? E ancia se ‘l fus… libera nos Domine!... contra la pòra zènt la zustìzia la laora sèmper benón.” “La fón mì, la zustìzia, mì! Ormai l’è ora passada. Ah la ròba nó l’è fazilà: el sai ben ancia mì. Che ciagn sassìn el varda de tègnerse ben scònt: el sa ben come che l’è la chestion; ma nó me ‘nterèssa. Ardiment e pasiènza… e prima o dopo el moment el vèn. Sì, sì la zustìzia la fón mì: el liberi mì, ‘l comun: canta zènt che me benedirà…! e po’ ‘n trei sàuti…!” El ribréz de la Lùzia, cando che l’à sentù ste parole dite fòr dai denti, el g’à fat desméter la planzuda e ‘l g’à dat la forza de parlar. Desquertando ‘l vis ‘nlagrimà da le man la g’à dit al Renzo con na ós angossàda, ma dezìsa: “nó ve ‘nterèssa alor de tòrme come sposa. Mì pensavi de maridàrme con en putèl che g’eva timor de Dio; ma no n’òm che ‘l faròs… ma ‘l la fés ancia francia da la zustìzia e da ogni vendeta, ma ‘l fus ancia ‘l fiòl del re…” “Bòn, bòn!” à urlà ‘l Renzo, con na musara che feva paura: “mì nó ve giaverài come spósa; ma nancia el veh no. Mì cì senza de voi, e el en ciasa del…” “Ah no! per ciarità, nó ste dir enzì, nó feme chei òcli ìo no: no, nó pòdi véderve ‘nzì,” l’à sclamà la Lùzia, planziànt e ‘mpregiando con le man conzade su; entant l’Agnese la seitava a clamar el putèl per nom, e la ge palpava le spale, i brazzi e le man per calmàrlo. Po’ ‘l s’è fermà ìo fic’ e pensierós, en pezzòt, e ‘l vardava chel vis che lo supliciava de la Lùzia; po’ tut de colp i la vardàda sguèrz, el s’è tirà en pas endré, l’à auzzà ‘l braz e col dé fòr drit, la zigià: “chesto! sì pròpri chesto ‘l vòl. El g’à da morìr!” “Ma mì che mal v’àite fat po’, per fàrme morìr?” dis la Lùzia, petàndosege davanti ‘nzinoclón. El Renzo ‘l g’à respondù con na ós che la palesava rabia, na rabia diferènta sì, ma pur sèmper rabia: “Voi! Che ben me volèo po’? M’éo dat na prova? Mì nó vé àite supliciada, e supliciada, e supliciada? E voi: no! no!” “Sì, sì,” à dit en prèssa la Lùzia: “Vèni, vèni dal curàt, doman, adès, se voléo; nirài. Tornà a èsser chel da prima; nirài.” “Me l’amprometéo?” dis el Renzo con na ós e 'n mus deventadi de colp pù da cristian. “Ve l’amprométi.” “Me l’éo ‘mprometù.” “Sioredio ve ringrazi!” l’à sclamà l’Agnese, contenta doi bòte. Ma ‘l Renzo, en mèz a tut chel delirio che ‘l geva adòs, ével pensà a chel che ge ‘n nideva a el a spaventàr enzì la Lùzia? E ancia el nó ével doprà en pòc’ de ingiagn per stremìrla ancor de pù, enzì da tiràrla sul sò? El nòs scritór el dis de nó savér engot; e mì credi che nancia ‘l Renzo nó i lo savés pròpri ben. Fato sta che l’era de segùr enfurià contra don Rodrigo e però ‘l voleva a tuti i costi nar d’acòrdi con la so Lùzia; e cando che doi passión fòrte le urla e le zigia ensèma entel còr de n’òm, enzun, nancia cì che patìs, l’è sèmper bòn de distìnguer ben na ós da l’àutra, e dir con segurezza chela che è sóra l’àutra. “Vé l’ài amprometù,” à dit la Lùzia, col far da brontolóna, ma sóta sóta ancia da spàvi e plén de premura: “ma ancia voi m’éveo emprometù de nó far scàndoi, de méterve ‘nle man del padre…” “Né là mò! Per cì èl po’ che me ‘nrabi? Voléo tornar endré, adès? e farme far en spropòsit?” “No, no,” dis la Lùzia che la scomenziava a stremìrse n’àuter bòt. “Ài emprometù, e nó me tiri ‘ndré. Ma vardà voi come che éo fat a farme ‘mprométer. Che Dio nó ‘l vòbia…” “Perché po’ voléo portàr pégola, Lùzia? El Sioredio i lo sa bèn che nó ge fen mal a ‘nzun.” “Emprometéme almen che chésta ‘l sarà l’ultima.” “Vé l’amprométi, da pover putèl.” “Ma, sto bòt, vardà de mantègnerla,” à dit l’Agnese. Cacì el scritór l’amét de nó savér n’àutra ròba: se la Lùzia la fus stada pròpi malcontenta en tut e per tut per èsser stada spenzùda a azetàr. Noi, come el, lagiàn sta chestión entel dubi. El Renzo l’averòs volèst tiràrla ‘n lòngia e méter zó ben chel che ge voléva far el dì dré; ma l’era zà nòt, e le feumne le g’à agorà bonanòt; perché a lore nó ge pareva bèl che a che l’ora el stés ìo ‘ncor de pù. Ca nòt però l’era stada per tuti trei come che la pòl èsser chela che vèn dré a na zornàda scombussolada e plena de rògne, e che la vèn prima de n’àutra destinada a ‘n impresa difìzile e per de pù che nó se séva come che la podéva nar a ruar. El Renzo ‘l s’è presentà bonora, e ‘l s’è metù d’acòrdi con le feumne, o per dìrla zusta, con l’Agnese, la grant empensada de ca sera, metèndo dinanzi tuti i ostàcoi che podeva suzzéder, e come far a scivarli, e i se la contava e ricontava come ‘l fus sta na ròba zà fata. La Lùzia la scoutava; e, senza aprovar con le parole chel che nó la podeva aprovar enla só cossiènza, la ‘mprometéva che l’avròs fat meio che la podeva. “Néo zó voi al convènt a parlar col padre Tòfol come che ‘l v’à dit ieri sera?” l’à g’à domandà l’Agnese al Renzo: “Ma, zuce che nó séo àuter!” l’à respondù: “el seo ben che diàuli de òcli che g’à ‘l padre: el me lezeròs sul mus, come su ‘nte ‘n lìber, che g’è vergot per aria; e se ‘l scomenziàs a farme domande, poderòssi ‘mbroiarme come ‘n dugo. E po’, mi cògni star cì, per starge dré a l’afare. L’è mèio che mandàgieo voi calchedun.” “Manderài el Ménec’.” “Va benón,” dis el Renzo; e l’è partì aplicarse a l’afare come che l’eva dit. L’Agnese l’è nada ‘nte na ciasa ìo vizìna, a zerciar el Ménec’, che l’era ‘n putelòt che geva zirconzirca dódes ani, asvèlto la só part, e che, per via de cusìni e cugnadi, el nidéva a èsser en pòc’ só neó. I l’à domandà ‘n prést ai parènti per tut el dì, ― per en zèrto mistér ― la geva dìt. Come che i l’à bù ‘n consegna, i l’à portà ‘n cosìna, la g’à dat da colazión, e la g’à dit de nar a Pescarenico, de farse véder al padre Tòfol, che i l’averòs mandà ‘ndré con na risposta, cando che l’era ‘l tèmp. ― El padre Tòfol, chel vècel, sas ben no, con la barba biancia, chel che i clamà ‘l sant… “Ài ciapì,” dis el Ménec’: “chel che ne carézza sèmper noiàutri putèi, e che ogni tant el ne dà ‘n santìn.” “Apunto, pròpri chel, Ménec’. E se ‘l te dirà de spetàr en pòc’, ìo dausìn al convènt, nó sta nar entorna: varda de nó nar con calche compagn, al lac’, a véder pes-ciar, o a far matérie con le ré taciade sul mur a sugiàrse, o a far calche àuter zogét come ‘l sòlit…” Ge vòl savér che ‘l Ménec’ l’era ‘n campión a far sautàr i sassi su l’aca; e se sa che tuti, grandi e pìzzoi, fen volintéra le ròbe che sen bòni de far mèio: nó dìgi sol chele. “Ma dai! zia; nó son migia ‘n putelòt no.” “Bòn, bòn stai atento veh; e cando che niràstus de vòuta con la risposta… varda cì; ste doi bèle parpaiòle nòve le è per tì.” “Démele adès che l’è lostes.” “Ah no vè no, tì le magneròstus fòr sùbit. Vai pur, e varda de comportàrte bèn; che ge n’avràstus ancia de pù.” Per tut el rèst de ca matìna, g’era sta zèrte novità che le eva metù ‘n pòc’ de suspèt entei pensieri zà scombussoladi assà de le feumne. En pourét, nancia tant sdrazzà come tuti chei come el, che ‘l geva ‘n far pòc’ de bòn, l’era nù ent en ciasa a domandàr la ciarità, e ‘ntant el déva cà e là oclade da spión. Le geva dat en tòc’ de pan che l’eva tòt come se nó fudés engot. Po’ ‘l s’era fermà ìo, con na zèrta fazza, e ‘ntel stes tèmp en pòc’ indezìso, a fàrge domande a l’Agnese che però, pronta, la ge rispondeva sèmper el contràri de chel che l’era. Cando che l’era dré a nàrsen, la fat a finta de sbagliar l’us e l’è nà enter en chel che deva su la s-ciala, e ìo l’à dat n’oclada ‘n prèssa, come che l’à podèst. Cando che i g’à zigià dré: ― ehi, ehi, endo néo po’ bòn òm? nidé da chesta! da chesta! l’è nù de vòuta e l’è nà fòr da chela che le feumne le ge feva véder, scusàndose, con na fàussa umiltà che se stentava a créder su ca musara ‘nzì dura. Dopo chesto, seghitava a fàrse véder ogni tant àutri bruti zeffi. Che razza de òumni che ‘l fus, nó se podéva dir fazilment; ma na ròba l’era segùra, nó l’era da créder che ‘l fus i onèsti pelegrìni che i voleva far créder de èsser. Un l’era nù ent con la scusa de fàrse ‘nsegnar la strada, àutri i neva pù plan cando che i passava davanti a l’us per curiosar dent entel somas e travèrs el cortìu, come chei che vòl vardar senza dar ente l’òcel. A la fin, vèrs mezdì ca prozession l’è ruada. L’Agnese la levava su ogni tant, la traversava ‘l cortìu e la vardava fòr da l’us enla strada, la vardava da na man e da l’àutra e po’ la tornava de vòuta disèndo: “enzuni”: na parola che la diséva con solievo e che ancia la Lùzia la sentiva con piazér, senza che né una né l’àutra le savés bèn perché. Però a tute doi g’era restà ‘n pòc’ de preocupazion, che g’à tòt via, spezialment a la Lùzia, el pù gròs del coràzo che l’eva metù via per ca sera. L’è meio che ‘l lezidór el sapia vergot de pù prezìso su chei szandóni misteriósi: e per savér tut tut ge vòl tornar en pòc’ endré e trovar de nòu don Rodrigo che l’éven lagià ieri da so pòsta enla sala del só palàz, cando che fra Tòfol l’era partì. Don Rodrigo, come che en dit, el neva inanzi e ‘ndré nervós, a passi lòngi, per ca sala con le paré plena dei ritrati de la só famìlia de arcante zenìe. Cando che ‘l se trovava col mus davanti a na paré, el se voutava e ‘l vedeva ‘ntela musara en só nòn che eva fat la guèra, terór dei nemìzi e dei só soldàdi, sguèrz entel vardar, coi ciavéi curti e su drìti, coi bafi tiràdi e a pónta che i piciava fòr da le gòute, col barbizzòl de sbiéc’: drìt en pè ‘l modèl, con i giambài enfìn su ai gialóni, con la coraza, coi brazzài, coi ganti, tut de fèr; con l’andrìta sul flànc’, e l’anzància sul pómol de la spada. Don Rodrigo i lo vardava; e cando che ‘l g’èra arivà sota e ‘l se voutava, eco che dinanzi g’èra n’àuter nòn, zùdize, terór dei litegianti e dei avocàti, sentà zó su ‘nte na gran ciarégia scuertada de veludo ros, plegià dent ente na tònegia negra; tut néger men che ‘l colarìn bianc’, con doi nastri largi e na fòdra de peliza de màrden reversàda (che l’èra la mostrìna dei senatori e che i se metéva sol l’invèrn e l’è per chesto che nó se giaterà mai en ritràt de ‘n senator vestì da l’istà); màger empicià, con le zìlie ‘nzispade: el tegnìva ‘n man na petizión e ‘mpareva che ‘l disés: vederén. Da chesta na gran siora terór de le cameriere; da l’àutra ‘n priór, terór dei só frati: ensoma tut zènt che eva fat terór e che i ne ‘n feva ancor da chei ritrati. Con tute che memòrie ìo, don Rodrigo el seghitava a tormentàrse, e ‘l se vergognava, nó ‘l podeva dàrse paze che ‘n frate l’aves bù l’ardiment de dàrge adòs, con la supèrbia de Nathan. El pensava na ròba per vendiciarse, po’ i l’amplantava ìo, e ‘l pensava a come far per contentàr sia ‘l ciaprìz sia chel che ‘l clamava onor; a moménti (ma varda tì!) a sentìrse sigolar enle récle ca profezìa, ge nideva, come che se dis, la pèl de gialìna, e scasi scasi l’arbandonava ‘l pensier de che doi sodisfazion. A la fin, per far vergot, l’à clamà ‘n servo e ‘l g’à ordenà che ‘l portàs le scuse a la só compagnìa, disendo che ‘l cogneva nar dré a n’afare sùbit. Cando che sto servo l’è tornà ‘ndré a riferìrge a chei siori i era partìdi, lagiàndoge le só scuse, don Rodrigo, sèmper ciaminant avanti e ‘ndré l’à domandà: ― e ‘l conte Tìlio? “L’è partì con chei siori, lustrìssim.” “Bòn: sei persone per nìrme dré, per la me spassezada: sùbit. La spada, ‘l mantèl, el ciapèl: sùbit.” El servo l’è partì, fasèndo na svérgla; e dopo ‘n pezzòt le nù de vòuta, con la spada rìcia che ‘l padrón el s’à metù; el s’è petà su le spale ‘l mantèl; el s’à metù e ‘mplantà con na manada ‘l ciapèl con gran plume su la testa: segn che l’era de malumor. Po’ le partì e fòr da la porta l’à giatà i sei robleri tuti armadi che i s’è ‘nchinadi e po’ i g’è nadi dré. Pù selvàdec’, pù superbo, pù ‘nrabià del sòlit, l’è partì e spassezando l’è nà vers Lecco. I contadini e i artesani a véderlo nir i se strozzegiava su per i muri, e i se s-ciapelava e i ge feva grant inchini, ma el nó ‘l rispondeva nancia. Come i fus da men, se ‘nchinava ancia chei che i contadini e i artesani i clamava siori; perché ìo ‘ntorna a zènto chilometri, nó ge n’èra un che podés compèter con el, per nòm, per lussi, per le spòne e la vòia per far de de tut per èsser sora come l’òio. E ‘l geva pròpri ‘l portament zust per far véder chesto. Enchel dì nó l’èra suzèst, ma cando che ge suzzedeva de ‘ncontrar el sior conte del ciastel spagnòl, l’inchino alor l’èra fónt per tuti doi; l’era come tra doi siorazzi che nó i geva da spartìr engot un con l’àuter, ma per tornacont i se fa onór tra de lori. Per fàrse passar en pòc’ la luna che ‘l geva ‘ntorn e per dar còntra a ‘l pensier de chel frate che nó l’era bòn de desmentegiàrse, don Rodrigo l’è nà ente una de che ciase endo che de sòlit va tanta zènt, e ‘ndo che i g’à fat n’azèt en pòc’ enteressà, ma ancia rispetós, che se ge destina ai òumni che se fa volér ben o a chei che se fa temér; e cando che l’èra zà nòt fata, l’è tornà entel só palàz. Ancia ‘l conte Tilio l’era zust arivà enchel momént; i g’à servì a tuti doi la zena, ma don Rodrigo l’era sèmper sora pensier e l’à parlà pòc’. Con en far de ciativèria e de scornada el conte Tilio, apena che i eva sgombrà la tàula e che i servi i era nadi via, ‘l dis: “Tòi cusìn, cando èl po’ che pagiào sta scomessa?” “Nó me par che San Martìn el sia ancor passà.” “Podéo ben pagiàrla sùbit; tanto passerà tuti i santi del cialandari, prima che…” “Chesto l’è chel che vederén.” “Parènte, voi voléo far el politicón; ma mì ài ciapì tut e son enzì segùr de aver venzù la scomesa, che son pronto a fàrnen n’àutra.” “Sentìnte.” “El padre… el frate… che sàite mì po’? ensoma, chel frate ‘l v’à convertì.” “Eco mò, n’àutra de le vòsse.” “Convertì, cusìn, convertì, ve dìgi. Mì per mì, son contènt. Seo che bèl spetàcol véderve tut pentì e con i òcli bassi! E che nòm per chel padre! El sarà tornà a ciasa sgónfel e orgolios! Nó l’è ròbe che suzét tuti i dì e nancia con tute le persone. Ste pur segùr che ‘l ve porterà come esèmpi; e cando che ‘l narà ‘n pòc’ lontan a far le só mission el parlerà dei fati vòssi. Me par de sentìrlo ―. E cì parlando col nas, compagnando le paròle con zèsti esazeradi con le man, el feva a finta de far na prèdicia: ― enten zèrto posto de sto mondo, che per pura prudenza nó ve nòmini, viveva, carissimi, e vìu ancor adès, en cavaliér s-ciavizzacòl, amico pù de le feumne che dei òumni da gialantòm, che, malusà a far de ògni erba ‘n fas, l’eva metù i òcli…” “Bòn, bòn,” dis don Rodrigo, en pòc’ maliziós e mez stuf; nó ‘l geva tanta vòia de scoutàr. “Se voléo ardoplar la scoméssa, son pronto ancia mì.” “Demóscol! Che sìeo sta voi a convertìr el padre!” “Nó sté parlàrme de chel’ìo: e per la scomessa vederén, san Martìn el deziderà.” El conte però l’era curiós de savér chel che ‘l geva ‘nla testa; e ‘l seghitava a fàrge domande, ma don Rodrigo l’è sta bòn de schivarle tute, e ‘l se rimeteva sèmper al dì de la dezisión, ancia perché nó ‘l voleva contàrge al conte Tìlio chel che ‘l geva ‘n ment, tanto pù che l’era idee né ‘nviàde né pròpri dezìse. La doman dré, don Rodrigo ‘l s’è desdromenzà don Rodrigo. La paura che chel “nirà ‘n dì”, ‘l geva metù adòs, l’era sparìda dal tut coi ensòni de ca nòt; e ge restava sol la rabia, e estra ‘l respèt per aver zedù a ca paura ancia se per pòc’ tèmp. Al pensier de ca spassezada superba, de tuti chei inchini, de chei azèti, de le coionadure de so cosìn, i l’eva fat tornar en pressa chel che l’era sèmper sta. Apena levà l’eva fat clamar el Gris. ― Ròbe grosse ― eva pensà ‘l servo che eva zapà l’órden: perché l’òm che geva chel soranòm l’era adiritura ‘l capo dei róbleri, chel che i ge deva da far le imprese pù riszóse e pù crudéle, el pù fedél al padron, l’òm tut so, sia perché l’era obligià ma ancia per interès. Dopo che l’eva mazzà un, dal dì ‘n piazza, l’era nà da don Rodrigo a sconzurarlo de tòrlo sóta la só protezión; e sto cì avèndol vestì col só lustro, i l’eva tegnù al cuèrt da ogni tamisada de la giustìzia. A sto modo, pronto a combinàr qualsiasi angiarìa che ge nidés comandà, chesto ‘l geva l’impunità che ge segurava ‘l prìm. A don Rodrigo avérsel tòt emsèma ‘l geva pròpi fat còmot, perché ‘l Gris oltre che èsser, senza paragon, el pù capàze de la masnada, l’era ancia la prova de chel che ‘l só padrón l’eva podèst ancia contra la leze e farla francia; e ‘nzì la só potenza la nidéva a sgonflàrse sia ‘ntei fati, ma ancia ‘n l’opunión de la zènt. El dis Don Rodrigo: “Ehi Gris! Vòi véder chel che sés bòn de far ente sta ocasion. Prima de doman, ca Lùzia la cògn èsser ente sto palàz.” “Nó se dirà mai che ‘l Gris el se sia tirà ‘ndré a ‘n comando del lustrìssim siór padron.” “Tòite canti òumni che te ocór, varda tì, rànzite come che te par mèio far; pur che la fazènda la vàgia ben. E sora tut varda che ‘nzun ge fàgia del mal.” “Siór padron, en pòc’ de spavènt, perché nó la fàgia massa strèpit… de men nó se pòdrà far.” “En pòc’ de spavènt… ciapìssi… l’è nezessàri. Ma vàrda che nó gé se tortìclia ‘n ciavél; e pù de tut, che se gé pòrtia riguardo en tute le maniére. As ciapì?” “Siór padron, nó se pòl tòr zó ‘n fior da la planta e portàrlo a vossignoria senza tociàrlo. Ma nó se farà che ‘l puro nezessàri.” “Sas tì come far. Ma… come g’às en ment de far po’?” “Eri pròpri cì che pensavi, sior padron. Sen fortunadi che la ciasa la è zó ‘n font al paes. Gen bisògn de ‘n posto ‘ndo che nar a tènder: e ‘nfati pròpri ìo dausìn g’è na bàita che nó g’è dént enzun, en mèz ai ciampi, ca ciasa… ma vossignoria nó la saverà engot de ste robe… na ciasa che s’è brusà, pòci ani ‘ndré, e nó i geva i soldi da farla fòra, e alor i l’à arbandonada e adès va ént sol le strìe: ma sicome nó l’è sabo, mì me fón na grignada. I contadini, i è pléni de simpazìe, nó i naròs mai dént ente ca ciasa per tut l’òr del mondo: sichè noi podén star ìo pazìfici che tanto nó vèn enzuni a seciàrne i còrni.” “Va bèn, ma e dopo?” E ades, ‘l Gris che ‘l proponeva e don Rodrigo che ‘l discuteva, enfìn che tuti doi d’acòrdi i à trovà ‘l modo zùst per ruàr su l’impresa, senza che ‘nzun nidès a savér cì che l’era sta, e ancia far en modo de portar i sospèti da n’àutra banda lagiando apòsta segni fàussi, e po’ come far per strupàrgela a l’Agnese, e come far a stremìr el Renzo tant da fàrgela passar, e che nó ge nidés el pensier de nar da ‘n avocàt, e fàrge passar la vòia de lamentarse; ensoma tut en gróp de angiarìe bòne a che nés bèn l’angiarìa pù gròssa. No sten cì a contàr i acòrdi perché, come che ‘l lezidor el vederà, nó i è nezessari a ciapìr la storia; a ancia noi sen pù contenti de nó obligiàrlo a star cì a sentìr zacolar chei doi secia còrni de slandróni. Sol na roba, cando che ‘l Gris l’era dré a nar, per méter man a la lazeronada, don Rodrigo i l’à clamà ‘ndré e ‘l g’à dit: ― senti: se per caso, chel bulét de ‘n tànger el ve des fastìdi ancor stasera, forse l’è meio se l’onzéo con l’ónt del bos-c’. Ente sto modo doman, cando che se ge darà l’ordine de tàser, el farà de segùr pù efèto. Ma nó ste nar a zerciàrlo, per nó rovinar chel che conta de pù: ne sen bèn ciapìdi no? “El mé làgia far a mì,” à dit el Gris, enchinandose con riguardo e ‘n far da blagón; e pò l’è partì. Tuta la doman i l’à dopràda a far ziri per studiar el paes. Chel’òm che féva a finta de èsser en pourét e che l’era nà ent enchel modo a scuriosar en ca pòra ciaséta, nó l’era àuter che ‘l Gris, che l’à volèst véder come che l’era fata la ciasa: i fàussi viazadori l’era i só róbleri, e a chesti, per operar sota i so ordini, bastava cognósser el pòsto en pressapòc’. Po’, dopo fat el sopralògo, nó i s’era pù fati véder per nó dar massa ente l’òcel. En bòt che i era tornadi tuti ‘ntel palàz de don Rodrigo, el Gris l’à fat el so rapòrto e l’à fissà ‘n bòt per sèmper, el progèto de l’azion; l’à spartì fòra le part de tuti, e l’à dat le istruzion. Ma tut chesto entant che chel servo vècel, che ‘l steva coi òcli davèrti e le récle su drìte, el s’era acòrt che che se preparava vergot de gròs. A forza de star atento e de domandar; togèndo na mèza notizia de cà e na mèza de là, considerando ‘ntra de el na parola che nó l’eva ciapì ben, e zerciando de ciapìr calche far misterós, l’à fat tant che a la fìn l’è nù a savér chel che i voleva combinàr ca nòt. Ma cando che l’eva ciapì tut l’era zà ìo per scomenziar e na sclapéta de lazeróni l’era zà nada a ‘mbos-ciarse ente ca bàita en rovìna. El pòer vècel, ancia se ‘l seva benón chel che ‘l riszava, el giavés ancia paura de portar l’aiut endo che nó ge n’èra de bisògn, e pur nó la volèst manciar: l’è partì ‘n prèssa con la scusa de zapàr en pòc’ de aria, e l’è nà drìt al convènt, per dìrge a padre Tòfol chel che ‘l geva ‘mpromés. Pòc’ tèmp dopo è partì ancia i àutri róbleri, e i è nadi zó sparpaiadi per nó far véder de èsser en compagnìa: el Gris l’è partì sùbit dopo; è restà ìo sol na portantìna che la dovéva èsser portada enla bàita dopo nòt; e difati è sta fat enzì. Radunadi tuti ‘nchel posto, el Gris l’à spedì trei de chei briganti ‘n l’osteria del paesòt; un el geva da star su l’us, a véder chel che suzzedeva su la strada, e a controlar cando che tuti i paesani i fus tuti ‘n ciasa: i àutri doi che i stés dénter a zugiar e a béver, come fus doi avantori normali; e ‘ntant che i spiàs se gera vergot da spiàr. El entant l’è restà a spetàr col rèst de la trupa. El pòr vècel el galopava ancor; entant i trei róbleri i arivava al so posto a l’osteria; neva zó ‘l sol; el Renzo l’è na ént da le feumne e ‘l dis: “El Tonio e ‘l Zervaso i me spèta de fòr: vón a l’ostaria a magnar en bocón; e, cando che sòna l’avemaria, nidén a tòrve. Déhi coràzo, Lùzia! L’è po’ n’atimo.” La Lùzia sospirando, la ripeteva: “coràzo,” con na osata che la mossàva el contrari. Cando che ‘l Renzo e i so doi sòzi i è arivadi a l’ostaria, i à trovà chel tale emplantà ìo a far la sentinèla, con la s-cena pozàda a na spaléta con i brazzi ‘ncrosadi sul stómec’ el togéva ent mèz vano de la porta; el vardava e ‘l tornava a vardar da na banda e da l’àutra fasendo lùser el bianc’ e ‘l néger dei só doi oclazzi. Na beréta plata de velùdo ros, metù su stòrt, el ge scuertava la metà del zuf, che ‘l se spartìva su chel mus da zèlbero e ‘l zirava drè da na banda e da l’àutra sota le récle e la ruava con doi drézze fermade da ‘n pèten de dré su la copa. Ente na man el tegnìva ‘n mangianèl a spindorlón; a véder dal de fòra nó ‘mpareva che ‘l giaves armi, ma ancia ‘n pòpo, a vardàrlo ‘ntel mus, l’averòs pensà che scònte sota ‘l ge neva cante che podeva stàrgen. Cando che ‘l Renzo, che l’era dinanzi ai àutri doi, l’era ìo per nar ént, chel tale senza scassarse de ‘n dé, i l’à vardà fìs; ma ‘l putèl, che ‘l voleva schivar ogni rògna dato chel che l’era dré a far ca azion difìzile, nó l’à mossà de nascòrzerse, e nó l’à dit nancia: spostàve; e stroziando l’àutra spaléta l’è nà ent en còsta, per el bus che ‘l lagiava ca mùmia. I só doi sòzi se i à volèst passar, i à cognèst far compàgn. Enbòt che i èra dént i à vist ancia i àutri, ma i eva zà sentù i zigi, sicome g’e n’era doi che zugiava a la móra sul ciantón de la tàula urlando ensèma (ma ìo l’è ‘l zòc’ che vòl i zìgi) e i se tréva fòr da béver en bòt un e ‘n bòt l’àuter da ‘n grant fiasc’ ìo ‘n mèz. Ancia chesti i à vardà fis la compagnìa nòva; spezialment un de chei doi, tegnèndo na man per aria e trei dedàzzi drìti e slargiadi fòr, e avendo ‘n bócia, ancor davèrta en grant “sei”, che l’era nù fòr pròpri ‘nchel momént, l’à squadrà ‘l Renzo da la testa ai pèi; po’ l’à dat n’òcel al compagn e dopo a chel che era su l’us che l’à respondù con en zèsto de la testa. El Renzo sospetós e nó savèndo come far, el vardava i só doi sòzi per véder se lori i eva ciapì vergot de pù de tuti chei zèsti: ma a vardarli se vedeva che i pensava sol a magnar. L’òst el vardava ‘l Renzo e l’aspetava i ordini: po’ i l’à fat nar ente na ciàmera vizìna e l’à ordinà la zena. Cando che l’òst l’è nù de vòuta con na tovàia grossolana sota ‘l braz e con en man en fiàsc’, el Renzo ‘l g’à domandà: “Cì èl po’ chei furèsti?” “Nó i cognóssi,” g’à respondù l’òst, ‘ntant che ‘l desplegiava fòr la tovàia. “Come po’? nancia un no?” Entant che l’òst el stirava ben la tovaia su la taula con tute doi le man, l’à respondù: “Seo ben che la prima regola del nòs mistér l’è de nó domandar mai i afari dei àutri, perfìn le nòsse feumne nó le è curiose. Con tuta la zènt che va e che vèn, staròssen bèn fres-ci: cì ciàpita de tut: vòi dir, cando che le anade le va via bèn assà; ma sténte alegri nirà ancia tempi pù bòni. A noi ne ‘nterèssa che i avantori i sia zènt da gialantòm: cì po' che i sìa o nó i sìa, l’è lostés. E adès ve porti ‘n bel piat de polpéte che ‘nzì nó l’eo mai magnàde ‘nzulòc’.” “Come féo po’ a savér…?” l’à provà a dir el Renzo, ma l’òst che ‘l s’era zà ‘nvià vèrs la cosìna l’è nà per la só strada. E ìo, ‘ntant che ‘l togéva la padèla de che famose polpéte, plan plan, g’è nà ìo dausìn chel brigante che eva squadrà ‘l nòs Renzo, e ‘l g’à dit sota ós: “Cì èl po’ chei gialantòumni?” “Bòna zènt cì del paes,” à respondù l’òst, svidàndo le polpete ‘ntel piat. “Ài ciapì; ma come se clàmei po’? cì èl po’?” el segitava chel ìo, con na ós arcant vilana. “Un el se clama Renzo,” dis l’òst, sèmper sota ós: “en bòn putèl zudiziós; tessàder de seda che ‘l sa far bè nel só mistér. L’àuter l’è ‘n contadìn che ‘l g’à nòm Tonio: en bòn òm alegron: pecià che ‘l ge n’à pòci, che ‘l spederòs tuti cì. L’àuter l’è ‘n sèmplize, che ‘l magna volintera, cando che i ge ‘n dà. Compermesso.” Con na mòssa l’è nù fòr tra ‘l foglar e ‘l galiòto; e l’è nà a portàrge ‘l piat a cì che ‘l doveva. El Renzo cando che i l’à vist arivar l’à tacià: “Come féo po’ a savér che l’è gialantòumni se nó i cognosséo nancia?” “I fati, caro mio: l’òm se ‘l cognoss dai fati. Chei che béo el vin senza critegiàrlo, che pagia ‘l cont senza contratar, che nó bègia coi àutri avantori, e se i g’à da ‘mplantàrge el cortèl a calchedun i lo spèta de fòra e lontan da l’ostarìa, che ‘nzì l’òst nó ‘l va ‘nle rògne, chesti l’è i gialantòmni. Però l'è mèio’cognosser la zènt onesta come che ne cognossen noi càter. Ma perché po’ voléo savér tute ste robe, nó ve sposào, doròsseo aver àutre ròbe ‘nla zucia? e po’ con che polpete sota ‘l nas che le faròss resussitar en mòrt? ― E ‘ntant l’è tornà ‘n cosìna.” El nòs scritor, osservando come che l’òst el rispondeva en modo divèrs a le domande, el dis che l’era n’òm fat enzì, che ‘n tuti i só discorsi nó ‘l feva àuter che dir che l’era perlopù grant amìzi dei gialantòmni; ma ‘n pràtigia l’era tant pù complimentós con chei che geva pù reputazion o che ge ‘nsomiava ai briganti. Che ciaraterìn! ah? La zena nó l’èra stada tant alegra. I doi envidadi i averòs volèst gòdersela con tuta la só calma; ma chel che pagiava, preocupà de chel che ‘l lezidor el sa, e secià, e azità per el comportament enzì strano de chei furesti, nó ‘l vedeva l’ora de nàrsen. A ciàusa de chei ìo se parlava sota ós; e l’era tut parole dite a metà e senza vòia. Tut de colp g’è s-ciampà fòra al Zervaso: “Che bèla ròba, che ‘l Renzo ‘l vòbia sposarse, e ‘l g’àbia bisògn…!” ― El Renzo el g’à fat sùbit i òcli. “Ses bòn de tàser, bestia che nó ses àuter?” ― g’à dit el Tonio, dàndoge na sgombetada. La conversazion l’à s’è sfredida sèmper de pù enfìn a la fìn. El Renzo, che ‘l s’èra tegnù sia col magnar che col béver, nó l’à fat àuter che tràrge fòr da béver ai doi sòzi, ma con prudenza, sol per dàrge ‘n pòc’ de morbìn, ma senza ‘mbriagiàrli. Finì de zenar, e pagià ‘l cont da cì che eva magnà de men, tuti trei i à cognèst passar de nòu en mèz a che musare, che le s’è voutade tute vèrs el Renzo, come cando che l’era nù ent. El Renzo, cando che l’eva fat pòci passi fòr da l’osterìa el s’è voutà ‘ndré e l’à vist che chei doi che era sentàdi zó ‘n cosìna i ge neva dré. Alor el s’è fermà con i só sòzi, come per dir: vardàn chel che i vòl da mì sti cì. Però chei doi cando che i s’è acòrti che i era oservadi, i s’è fermadi ancia lori, i s’è parladi sota ós e i è tornadi ‘ndré. Se ‘l Renzo el fus sta pù vizìn da sentìr le só parole, le ge saròs emparèste strane. “Saròs en bèl onor, senza contar la bonaman,” diséva un de chei lazeroni, “se, cando che tornan al palàz, podèssente contàrge de avérge palpà i òssi empressa, e noiàutri, senza che fus cì ‘l sior Gris a ordenar tut.” “E rovinar el sequestro de la Lùzia!” ge rispondeva chel’àuter. “Vàrda: ‘l s’è acòrt de vergot; el se ferma a vardàrne. Ih! Se ‘l fus pù tardi! Vèi che tornàn de vòuta che nó dégiente ente l’òcel. Vèn zènt da tute le man: lagiàntei nar tuti ‘ntel polinàr.” Enfati g’èra chel brigolar, chel zonzonar che se sènt enten paesòt cando che và zó ‘l sol, e che sùbit dopo vèn la calma de la nòt. Le feumne le nideva dal ciamp, portàndose i pòpi a òle bidòle, per man i popati pù grandòti e a chesti le ge feva dir su le orazión; po’ dré nidéva i òumni, con le vange e con le zape su le spale. Al davèrzerse de le porte, se vedéva slùser cà e là i fòglari ‘mpizzadi per cosinar le pòre zene: per la strada se sentiva scambiarse la bòna nòt e calche parola su la s-ciarsità de la produzion e la miseria de ca anada; pu àut de le parole se sentiva i bòti fòrti de la ciampana che la segnava la fin de la zornada. Cando che ‘l Renzo la vist che chei doi curiosoni i s’era fermadi, l’à seghità a nar per la so strada entant che la nòt l’era ormai ìo per nir, ogni tant sota ós el ge ricordava a un e a l’àuter dei fradèi chel che i neva a far. Po’ i è arivadi alla ciasòta de la Lùzia, che l’era zà nòt. Tra ‘l prim pensier de n’azion tremenda, e la só esecuzion (à dit en barbaro che nó se pòl dir che l’era senza inzègn), g’è ‘n mez n’ensògni plen de spiriti e paure. La Lùzia l’era tut el dì che l’era angossada: e l’Agnese, pròpri l’Agnese che l’èva dat ela ‘l consìli, l’era sora pensier, e a stento la provava a fàrge corazo a só fiòla. Ma ‘ntel moment de ‘nviar via l’impresa tut s’era trasformà. Al terór e al corazo, che se contradìva, nideva dré n’àuter terór e n’àuter corazo: te vèn en ment l’impresa, come se nó l’avestus mai pensada: chel che prima te spaventava de pù, empar che ‘l sia deventà tut de colp pù sèmplize: a le bòte empar che l’ostàcol che as apena superà ‘l sia grant; che che se eva ‘mmazinà ‘ zèssa; empar che le giambe e i brazzi nó i vòbia pù ubidìr; e ‘l còr nó ‘l vòl pù mantègner le promésse che prima l’eva fat con pù segurezza. Cando che l’à sentù ‘l Renzo bàter su la porta, a la Lùzia g’è nù tant de chel teror, che l’à pensà enchel momént ìo, de azetàr ogni ròba, perfìn de destaciàrse per sèmper dal só moros, putòst che tòr ca soluzion; però cando che ‘l ge s’è presentà davanti, e l’à dit: “son cì, nidé che nen;” cando che tuti i era pronti a ‘nviàrse senza ‘l minimo dubi, come che l’èra stabilì, na dezision che ormai nó se podeva pù scanzelàr; la Lùzia nó l’à bù ‘l tèmp né la forza de far dificoltà, e come la fus strozzegiada la s’è zapàda con en braz de só mama, e l’àuter del só moros, e l’à s’è ‘nviada ensèma a ca compagnìa. Ziti, ziti, al scur, con en pas mesurà i è partìdi da la ciaséta e i à zapà la strada fòr dal paes. La pù curta ‘l saròs stà chela de traversàrlo perché se neva driti a la ciasa de don Abondio; però i à tòt chela ìo per nó fàrse véder. Per sinteri, ‘ntrà i òrti e i ciampi, i è arivadi vizìni a la cialòngia, e ìo i s’è separadi. I doi morosi i è restadi scònti dré al cianton de la ciasa ensèma a l’Agnese che la era ‘n pòc’ pù inanzi per córer en tèmp a tègner la Perpetua ìo ferma; el Tonio, con chel sterlùc’ del Zervaso, che nó l’èra bon de far engot da só posta, che però nó se podeva far a men de averlo ìo, i s’è presentadi arditi davanti a la porta e i à batù. “Cì èl po’ da st’ora?” s’à sentù zigiar da la finestra che ‘nchel moment s’è daverzù: l’era la ós de la Perpetua. “Maladi nó ge n’è, che mì sapia. È suzèst calche disgrazia?” “Son mì,” à respondù ‘l Tonio, “son cì con me fradèl che gen bisògn de parlar col sior curàt.” “Ma èl n’ora da cristiani chesta?” dis la Perpetua da vilana: “ancia voi, nó ge neo prudenza no? Nidé cì doman.” “Ma sentìme cì: nìr doman o nó nir doman, sicome ài tirà calche soldo, son nù per pagiàr el dèbit che seo: g’ài cì vintizinc’ bele berlinghe nòve; ma se nó se pòl, pasiènza: sai ben mì come spenderli, e nirai cando che n’ài metù via àutri vintizìnc’.” “Spetà, spetà: von e veni. Ma perché po’ nidéo a st’ora?” “L’ài tiràdi ancia mì pròpri adès; e ài pensà come ve digi che se i tègni a dormìr con mì, nó sai come che la pensi doman matina. Però, se nó ve plas l’ora, nó sai che dìrve: per mì, son cì; e se nó me voléo, me ‘n von.” “No, no spetà n’atimo: vèni sùbit con la risposta.” E disèndo ‘nzì l’à serà la finestra. A sto punto l’Agnese la s’è destaciada dai morosi, e sotaós la g’à dit a la Lùzia: “corazo; l’è n’atimo; l’è come ciavàrse ‘n dènt,” l’è nada dausìna ai doi fradèi, davanti a l’us e la s’è metùda a zacolar col Tonio, en modo che la Perpetua, nidèndo a davèrzer la credés che l’era ciapitada ìo pròpri ‘nchel momént per caso, e che ‘l Tonio i l’aves tegnùda ìo a zàcole n’atimo.
Carneade! Chi era costui? — ruminava tra se don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. — Carneade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? — Tanto il pover'uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sè, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio. “A quest’ora?” disse anche don Abbondio, com’era naturale. “Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...” “Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?” “Diavolo!” rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: “dove siete?” Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome. “Buona sera, Agnese,” disse Perpetua: “di dove si viene, a quest’ora?” “Vengo da...” e nominò un paesetto vicino. “E se sapeste...” continuò: “mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.” “Oh perché?” domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, “entrate,” disse, “che vengo anch’io.” “Perché,” rispose Agnese, “una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare... credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro...” “Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?” “Non me lo domandate, che non mi piace metter male.” “Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!” “Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.” “Guardate se si può inventare, a questo modo!” esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: “in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere.... Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo.” Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata. In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro. “Deo gratias,” disse Tonio, a voce chiara. “Tonio, eh? Entrate,” rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia. Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna. “Ah! ah!” fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo. “Dirà il signor curato, che son venuto tardi,” disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. “Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?” “Oh! mi dispiace.” “L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perchè vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?” “Così per compagnia, signor curato.” “Basta, vediamo.” “Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo,” disse Tonio, levandosi un involtino di tasca. “Vediamo,” replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto. “Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.” “È giusto,” rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: “va bene?” “Ora,” disse Tonio, “si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.” “Anche questa!” disse don Abbondio: “le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?” “Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacchè ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte...” “Bene bene,” interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sè una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sè non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: - ora, sarete contento? - e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: “signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie.” Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sè, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: “e questo...” che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: “Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!” Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: “Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!” Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: “apra, apra; non faccia schiamazzo.” Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: “andiamo, andiamo, per l’amor di Dio.” Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento. In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: “cosa c’è?” “Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,” gridò verso lui don Abbondio. - “Vengo subito,” rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ’l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello. Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. “Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi?” Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere. Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati- e in fatti, non incontrarono anima vivente, nè sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacchè non c’era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: - andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini -, s’incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sè, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: “st,” chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch’era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinchè il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre. Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. “Che diavolo è questo?” dice allora: “che qualche cane traditore abbia fatto la spia?” Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta; s’immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto all’uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perchè... il perchè lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. — Che è questo? — pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: “zitto! o sei morto.” Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt'a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all’uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s’era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s’avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto. “Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti.” Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine. Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s’era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c’era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte. Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: “sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi?” Ma intanto, faceva un altro discorso con sè stessa. — Saranno usciti a quest’ora? o saranno ancor dentro? Che sciocchi che siamo stati tutt’e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un po’ di tempo perduto. — Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto, s’era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: “aiuto! aiuto!” “Misericordia! cos’è stato?” gridò Perpetua, e volle correre. “Cosa c’è? cosa c’è?” disse Agnese, tenendola per la sottana. “Misericordia! non avete sentito?” replicò quella, svincolandosi. “Cosa c’è? cosa c’è?” ripetè Agnese, afferrandola per un braccio. “Diavolo d’una donna!” esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico. “Misericordia!” grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo. “Cosa c’è? cosa c’è?” domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono. “E voi! come! che fate qui voi?” domandò poscia all’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. “Ah siete qui!” disse questa, cavando fuori la parola a stento: “com’è andata? cos’è la campana? mi par d’aver sentito...” “A casa, a casa,” diceva Renzo, “prima che venga gente.” E s’ avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con voce mezza fioca, dice: “dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento!” “Sei tu che...?” cominciava Agnese. “Cosa c’è d’altro?” domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava. “C’è il diavolo in casa,” riprese Menico ansante. “Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che veniate subito; e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori.” Renzo, ch’era il più in sè di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato. Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. “Cammina avanti,” gli disse. “Andiam con lui,” disse alle donne. Voltarono, s’incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza, dove per grazia del cielo, non c’era ancora anima vivente; entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi. Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: “che diavolo c’è?” Quando Ambrogio sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch’era accorso molto popolo, rispose: “vengo ad aprire.” Si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì. “Cos’è tutto questo fracasso? — Cos’è? — Dov’è? — Chi è?” “Come, chi è?” disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: “come! non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto.” Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto. “Chi è là dentro? — Ohe, ohe! — Signor curato! - Signor curato!” Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto. “Cos’è stato? — Che le hanno fatto? — Chi sono costoro? - Dove sono?” gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto. “Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.” “Ma chi è stato? — Dove sono andati? — Che è accaduto?” “Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore.” E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’ebbe ripreso fiato, gridò: - che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è!” “Che? — Che? — Che?” E comincia una consulta tumultuosa. “Bisogna andare. — Bisogna vedere. — Quanti sono? — Quanti siamo? — Chi sono? — Il console! il console!” “Son qui,” risponde il console, di mezzo alla folla: “son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov’è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti... Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: “correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso!” A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va all’uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: “Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov’è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. — No, no: l’ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! — Agnese! Lucia!” Nessuno risponde. “Le hanno portate via! Le hanno portate via!” Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sè sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccase a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re de’ Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’ medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia. I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’ rintocchi, i quali, quanto, per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt’e tre a un tratto, si guardarono in viso l’un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia a lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. “Ora torna a casa, perchè i tuoi non abbiano a star più in pena per te,” gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: “basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora...” Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che. “E la casa?” disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perchè nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento. Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s’aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che non ci mancava nessuno, “Dio sia benedetto!” disse, e fece lor cenno ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que’ poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorità del padre, della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non potè più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all’orecchio: “ma padre, padre! di notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre!” E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, — vedete un poco! — pensava il padre Cristoforo, — se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo... — “Omnia munda mundis,” disse poi, voltandosi tutt’a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: “basta! lei ne sa più di me.” “Fidatevi pure,” rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: “figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...!” E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacchè non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi. “Dopo di ciò,” continuò egli, “vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi,” continuò volgendosi alle due donne, “potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione.” È un torrente a pochi passi da Pescarenico. “Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.” Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo. Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire! “Prima che partiate,” disse il padre, “preghiamo tutti insieme il Signore, perchè sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto.” Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: “noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.” Alzatosi poi, come in fretta, disse: “via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate.” E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: “il cuor mi dice che ci rivedremo presto.” Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.
Carneade! Cì èrel po’ sto cì? ― el rongiava ‘ntrà de el don Abondio sentà zó sul só ciaregión, ente na ciàmera su àut, con davanti ‘n librét davèrt, enchela che la Perpetua l’è nuda ént a portàrge l’avìso. ― Carneade! Mé par ben de averlo lezù o sentù sto nòm; el geva da èsser n’òm che l’eva studià, en lezù dei tempi ‘ndré: l’è ‘n nòm de chei; ma cì diàul èrel po’ sto cì? ― El pover òm nó ‘l se ‘mmazinava mai la boras-cia che era dré a nìrge su la zucia! Ge vòl savér che don Abondio ‘l se godeva a lézer almen en pocetìn tuti i dì; e ‘n curàt só visìn, che ‘l geva ‘n pòc’ de libri, el ge ‘mprestava ‘n lìber dopo l’àuter, el prim che ge nideva ‘n man. Chel che era dré a lézer enchel moment don Abondio, che l’era convalessènt da la féver che g’èra nù con chel spavènt, anzi pù varì che àuter (almen da la féver) de chel che ‘l voleva far véder, l’era ‘n lìber che ‘l lodava san Carlo, se tratava de na prèdicia scoutada con tanto de maravea da la zènt entel dòm de Milan doi ani prima. Per el só amor dei studi, ‘l sant l’era paragonà a l’Archimede; e ‘nfin cì don Abondio nó l’eva trovà dificoltà; perché l’Archimede el n’à fat de ròbe de tut le sòrt, che l’à fat parlar de se stes tant che basta, e per savér vergot nó ocoreva avér cissà che de sapienza. Ma però dopo l’Archimede, el prediciatór l’eva paragonà san Carlo ancia a sto Carneade: e cì ‘l lezidór l’era restà ìo fermo perché nó ‘l seva cì che l’era sto cì. Enchela è nù ent la Perpetua che i lo ‘nformava che era nù ‘l Tonio. “A st’ora?” g’à dit don Abondio, come che l’era naturàl. “Che vòlel po’? Nó i g’à ‘n minimo de prudenza: ma se nó i lo zàpa ades…” “Eh zà: se nó ‘l zàpi ades, cissà cando che poderai zapàrlo! Felo nìr dént… Ehi! ehi! seo bèn segura che l’è pròpri el?” “Diàolo!” à respondù la Perpetua, e l’è nada zó bas; l’à daverzù l’us e la dis: “endo seo po’?” El Tonio ‘l s’è fat véder; e ‘ntel stes tèmp è nù avanti ancia l’Agnese, e l’à saludà la Perpetua per nòm. “Bona sera, Agnese,” dis la Perpetua: “da ‘ndo nidéo po’ da st’ora?” “Veni da…” e l’à nominà ‘n paesòt ìo vizìn. E la g’à tacià: “E se savésseo… me son fermada de pù, pròpri per colpa vòssa.” La Perpetua l’à domandà sùbit: “Oh perché po’?” e po’ vardàndo i doi fradèi, l’à dis “nidé, nidé dént che vèni ancia mì.” “Perché,” à respondù l’Agnese, “na feumna de chele che nó le sa ‘ngota e le vòl parlar… voléo sentìr? La voleva a tuti i costi dir che voi nó ve seo maridada col Bepi Solavècla, e nancia col Selmo Lunghigna, perché nó i v’à volèst. Mì ‘nveze disévi che seo stada voi a refudàrli, un e ancia l’àuter…” “Ma segùr. Ca bosiàdra! Ca bosiadróna! Cì èl po’ sta cì?” “Nó ste domandàrmel no, perché nó me plas méter zizanie.” “Me ‘l diréo, g’eo da dìrmel: ah ca bosiadra!” “Bòn bòn… ma nó podéo créder cant che m’è desplasèst de nó savér ben tuta la storia, per contradìrla.” “Ma varda tì se s’ podrà ‘nventàrsele a sto modo cì!” l’à sclamà de nòu la Perpetua; e po’ sùbit: “cant al Bèpi, i lo sa tuti, tuti i à podèst véder… Ehi Tonio! Serà la porta, e né pur su su àut che vèni sùbit.” E dal de ént el Tonio, l’à respondù de sì; e la Perpetua ‘ntant l’à seghitava a contàr la só resón tuta zapàda. Pròpri dinanzi a l’us de la ciasa de don Abondio, tra doi ciasòte, partìva na stradèla che sùbit dopo la svoutàva ‘nten ciamp. L’Agnese la s’è ‘nviàda per ca stradèla, come se la volés tiràrse da na banda, per podér parlar en libertà; e la Perpetua de dré. Cando che nó sé vedeva pù chel che suzzedeva davanti a la ciasa de don Abondio, l’Agnese l’à dat doi colpi de tòs forti. L’era ‘l segnal: el Renzo i l’à sentù, el g’à strucià ‘n mìgol el braz per fàrge coràzo a la Lùzia; tuti doi en pónta de pè i s’è portadi avanti rasènt al mur, ziti, ziti; i è arivadi davanti a l’us de la cialòngia e i l’à spenzù plan planìn; pò sèmper chièti e sgobàdi i è nadi ent entel àndit endo che g’era i doi fradèi che li spetava. El Renzo l’à serà ‘n via l’us plan plan; e po’ tuti càter su per le s-ciale atènti a nó far rumór. Arivadi su ‘nzìma a le s-ciale, i doi fradèi i s’è svizinadi a la porta de la ciàmera de flanc’ a la s-ciala; i doi spósi i s’è struciàdi sul mur. “Deograzia,” dis el Tonio, con na bèla ós. “Ehi, seo voi Tonio? Nidé pur ént” à respondù la ós de ént. El Tonio l’à daverzù l’us, apena chel tant che l’era assà per podér passar el e só fradèl un a la bòta. La strisa de luze che è nù fòr de colp entel davèrzerse dela porta l’à disegnà sul paviment scur del mezanìn l’à fat fòr la Lùzia, come se i l’avés vista. Nà ent i doi fradèi, el Tonio ‘l s’è tirà dré l’us: i spósi ‘ntant i è restadi fermi ente ca scurèra con le récle su drìte senza nancia tiràr el flà: el rumòr pu fòrt l’era chel del pòer còr de Lùzia. Come che én zà dit, don Abondio l’era sentà zó su ‘nte na ciarégia vècla, plegià ént ente ‘n vècel sora àbit e ‘l geva su la testa na beréta, ancia chesta vècla, che la ge ‘ncornisava la fazza, a la lum de na luserna pizzolòta. Doi zufóni de ciavéi che ge nidéva fòr da la beréta, e doi gran zìlie, doi bafóni, e na bela moschéta, tuti bianci, sparpaiadi su ca fazza scura e ‘nfizzada, i podeva ‘nsomiàrge a zéspeni con su la neo, che piciava fòr da na chìpa, sota ‘l clar de la luna. “Ah, ah!” l’è sta ‘l salùt, entant che ‘l se tirava zó i oclài e i li pozàva sul librét. “El dirà che son nù tardi, sior curàt,” dis el Tonio enchinàndose, e compàgn la fat ancia ‘l Zervaso ma pù da tànger. “Segùr che l’è tardi: tardi ‘n tut i modi. El seo che son malà?” “Oh, me desplàs.” “L’averéo sentù dir; son malà e nó sai nancia mì cando che poderài lagiàrme véder… Ma perché po’ ve séo portà dré chel… chel bonòm?” “L’ài tòt dré per fàrme compagnìa, sior curàt.” “Bòn, bòn, feme véder.” “L’è vintizìnc’ berlìnghe nòve, de chele col sant’Agostìn sul ciavàl,” dis el Tonio, tiràndo fòr da la s-ciarsèla ‘n fagotèl. “Fàme véder,” dis ancor don Abondio: e l’à tòt chel fagotèl, l’à metù de nòu i oclài, i l’à daverzù e l’à tòt fòr le berlìnghe, i l’à contade, i l’à voutade e rivoutade senza trovàrge difèti. “Ades, sior curàt, me daréo de vòuta la colana de la me Tecla.” “L’è zusto,” dis don Abondio; po’ l’è nà vèrs n’asmàr, l’à tirà fòr na clao da la s-ciarsèla, e vardàndose ‘ntorn, come per tègner lontàn i curiosi, la daverzù na part de portèla, e l’à ‘mplenù la daverzidura con tuta la só persona, l’à metù dent la testa, per vardàr e ‘n braz per tòr la colana; i l’à tòta ‘n man e l’à serà l’asmàr e ‘l ge l’à data al Tonio disèndoge: “va bèn?” El Tonio ‘l dis: “Ades, el me fàgia el piazer de méter en pòc’ de néger sul bianc’.” “Oh, mostro, ancia chesta!” dis don Abondio: “i le sa tute. Ih! Come che l’è deventà sospetós el mondo! Nó vé fidao de mì no?” “Come po’, sior curat! Me fideràite no? Vòlel ofènderme? Ma sicome ‘l me nòm l’è sul só libràz da la banda del dèbit… alor, sicome che l’à zà bù ‘l fastìdi de scrìverlo ‘n bòt, e alor… da la vita a la mòrt…” “Bòn, bòn,” à taià don Abondio, e brontolànt l’à tirà fòr el ciassetìn del taulìn, l’à tòt fòr ciarta, pena e cialamàr, e ‘l s’è metù a scrìver, ripetèndo le parole con la ós àuta man a man che le ge nidéva fòr da la pena. Entant el Tonio ‘l g’à fat segn al Zervaso e i s’è metùdi su drìti dinanzi al taulìn, en modo che ‘l scrivente nó ‘l vedés l’us; come per far finta d’angot i strozzègiava i pèi sul paviment per fàrge segn a chei foróutra de nir énter e per scònder el rumor dei só passi. Don Abondio, tut intènto a scrìver la so quitanza nó ‘l pensava a àuter. Come che l’à sentù ‘l fregiar dei càter pèi, el Renzo l’à zapà la Lùzia per en braz, i l’à strucià, per fàrge coràzo, e ‘l s’è ‘nvià, tiràndosela dré tuta tremolènta come na fòia, da só pòsta nó la se saròs movèsta nancia de ‘n pas. I è nadi dént plan planìn, en ponta de pè, e nó i tiràva nancia ‘l flà; i s’è scondùdi dré ai doi fradèi. Enfratant don Abondio la ruà de scrìver, l’à rilezù tut con atenzion, senza auzzàr i òcli da la ciarta; i l’à plegiada ‘n càter, disèndo: ― saréo ben contènt ades? ― e tiràndose zó i oclài dal nas con na man, con l’àutra i ge l’à data al Tonio, auzzàndo la testa. El Tonio l’à slongià la man per tòr la ciarta, el s’è tirà da na banda; el Zervaso da l’àutra; e ‘n mèz come ‘l fus n’àutra sèna de na comèdia è nù fòr el Renzo e la Lùzia. Don Abondio, sùbit per sùbit l’à vist tut tórbol, po’ l’à vist benón, el s’è spaventà, l’è restà ìo come ‘n mèrlo, el s’è ‘nrabià come na bèstia, l’à pensà e l’à tòt na dezision: tut chesto entel tèmp che ‘l Renzo ‘l g’à metù a proferìr le parole: “sior curat, en presenza de sti testimòni, chesta l’è la mé spósa.” I só làuri nó i era ancor tornadi al so posto, che don Abondio, lagiàndo crodàr per tera la ciarta l’eva zà brancà e auzzà co l’anzancia la lum, e con l’andrìta ‘l tapé del taulìn e tiràndol vèrs de el con na furia de chele, petàndo per tera lìber, ciarta, cialamàr e polverìn; po’ sautàndo ‘ntrà la ciarégia e ‘l taulìn l’era nà dausìn a Lùzia. Ca pòra putèla con ca osata dolza, che tremolava l’eva podèst dir: “e chesto…” ma don Abondio el geva trat ados el tapé su la testa e sul vis en modo da empedìrge de pronunziar dal tut el rèpize. E sùbit, lagiàndo crodàr per tera la lum che ‘l tegnìva ‘n l’àutra man, el s’è aidà ancia con chela per embacucarla col tapé, che scasi i la stofegiava; e ‘ntant el zigiava come n’ossès: “Perpetua! Perpetua! tradiment! aiut!” El stopìn, che limegiava sul paviment, el feva na luze palida che ‘nluminava la Lùzia, che l’era ‘nzì spaventada che nó l’era bòna nancia de tiràrse zó ca cuèrta, e ‘mpareva che ‘l fus na statua de créda apena ‘mbastìda che l’artista el tegnìva scònta con na sdrazza umida. Cando che ‘ntorna l’era tut stróu, don Abondio l’à molà ca poréta, e l’è nà a zerciàr a tastón l’us che ‘l metéva ente n’àutra ciàmera pù interna; i l’à trovà e l’è nà ent en ca stanza, el s’è serà dént e ‘ntant el zigiàva come n’àchila: “Perpetua! tradiment! aiut! fòr da sta ciasa! fòr da sta ciasa!” ente l’àutra ciàmera, l’era tut na confusion: el Renzo che zerciava de fermar el curàt, e remenàndo con le man, come se ‘l zugias a mosca-cieca l’era arivà a l’us, e ‘l bateva urlando: “el davèrzia, el davèrzia; nó ‘l fàgia tut sto regòi.” La Lùzia la clamàva ‘l Renzo, con na ós débolòta e la diseva pregiàndo: “Vèi che nén, nén, per l’amor de Dio.” El Tonio a bóf a bóf el feva tut el paviment per véder se l’era bòn de recuperar la só quitanza. El Zervaso spirità, el zigiava e ‘l sautava, zerciando l’us de le s-ciale, per s-ciampar e salvàrse. En mèz a chel mismàs, nó se pòl far a men de fermarse n’àtimo a resonàrge sóra. El Renzo, che ‘l sbràitava de nòt en ciasa d’àutri, che l’era nà ent con l’ingiàgn, che ‘l tegnìva serà via ente na ciàmera ‘l padrón de ciasa, empareva pròpri ‘n zèlbero; epur zó ‘n fónt a tut l’era el chel che era perseguità. Don Abondio, sbalordì, fat s-ciampar, spaventà, entant che l’era dré pazìfico a far i só afari, empareròs che fus la vitima; epur l’era pròpri el dré a far n’angiarìa. Enzì va de spes el mondo… vòi dir che ‘nzì el neva entel sècol dèzimo sètimo. L’assedià, vedèndo che ‘l nemico nó ‘l deva segn de ritiràrse, l’à daverzù na finestra che vardava su la piaza de la glésia e ‘l s’è metù a zigiar: ― aiut! aiut! ― La luna l’era come ‘n sdràz; se distingueva l’ombra de la glésia e pù ‘n fòra l’ombra lòngia e a ponta del ciampanìl, sul prà de erba slusènta de la piaza: se podeva distìnguer ogni roba, scasi come fus dal dì. Ma, ‘nfìn a ‘ndo che se podeva véder, nó gera segn de n’ànima viva. Però taciàda al mur de la glésia pròpri da la banda de la cialòngia gera ‘n cartieròt, en sgabuzzìn endo che dormìva ‘l sagrestan. Sto cì sveglà da tuti chei zigi l’à fat en sàut l’è nù fòr dal lèt en prèssa e ‘n furia, l’à daverzù ‘n scur de na finestrèla l’à metù fòr la testa mèz entopà e l’à dit: “che g’è po’?” “Coré, Ambrògio! aiut! g’è zènt en ciasa,” el ge urlava zó don Abondio. ― “Vèni sùbit,” l’à rispondù; l’à tirà ‘ndré la testa, la serà ‘l scur, e, ancia se l’era mèz endromenzà e de pù che mèz sbalordì, l’à giatà ìo per ìo en rimèdi per dar pù aiut de chel che gèra bisògn, senza ‘ntrométerse entel gazèr; l’à brancà le brage che ‘l geva sul let; el se l’à metude sóta ‘l braz, come fus en ciapèl da gran gala, e zó a sàuti per na s-cialéta de legn; l’è córs vèrs el ciampanìl e brancà la fum de chela pù grossa de doi ciampanòte che gera su, l’à scomenzià a sonar a martèl. Ton, ton, ton, ton: i contadini i è sautàdi su a sentàrse sul let; i putelòti sdravacadi sul stàbel, i à ‘ndrizzà le récle, e i è levadu ‘n pè. “Che èl po’? Che èl po’? Le ciampane a martèl! G’è fòc’? ladri? banditi?” Tante feumne le consìlia, le ‘mprégia i òumni de nó mòverse, de lagiar córer i àutri: zèrti i è levadi su, e i à vardà fòr da la finestra: i pù poltroni, fasèndo finta de zéder ai consìli de le feumne, i è tornadi sota le cuèrte: chei curiosi e i pù bravi i è nadi zó bas a tòr force e szòpi, per córer endo che gera rumor: zèrti i resta ìo a vardar. Ma, prima che tuti i fus zerlàdi , anzi prima che i se fus desdromenzadi dal tut, el rumor l’era arivà ‘n le rècle de àutra zènt che le tendéva ìo vizìn su dritte e vestìde: i róbleri ente ‘n posto, l’Agnese e la Perpetua ente n’àuter. Prima de tut ge vòl savér chel che i feva tuti chesti dal moment che l’even lagiadi na part ‘nte ca bàita e na part en l’ostarìa. Sti trei, cando che i eva vist che tute le porte le era seràde e la strada l’era deserta, i è partìdi ‘mprèssa, come se i se fus acòrti de èsser tardìvi, e disèndo de volér nar sùbit a ciasa; i eva fat na vòuta per el paes per èsser seguri che tuti i fus a ciasa ― e di fati nó i eva ‘ncontrà n’ànima viva e nó i eva sentù ‘l minimo sussur. I era passadi plan planìn ancia dinanzi a la nòssa pòra ciasòta: che l’era la pù calma de tute perchè nó gera dént pù ‘nzun. Alor i era nadi drìti filadi vèrs la bàita e i g’à fat la só bela relazion al sior Gris. Sto cì ‘l s’à metù sùbit su la testa ‘n ciaplàz, su le spale na pelegrina de tela ‘nzerada, sparpaià de conchìlie; ‘l s’à tòt en baston da pelegrìn e l’à dit: ― Nén da bravi: ziti e sté atenti ai ordini ― el s’à ‘nvià ‘l prìm e dré i àutri; enten n’àtimo i è arivadi a la ciasòta, per na strada contrària a chela che eva zapà ‘l nòs sclapét, che ancia chel el neva a far la só spedizión. El Gris l’à fermà la trupa en pòc’ lontan e l’è nà avanti da so posta a tastar el terén, e visto che l’era tut desèrt e calmo l’à fat nìr avanti doi de chei slàizeri e ‘l g’à dat ordine de rampegiàrse plan plan sul mur che serava via la córt pizzolòta, e cando che i fus stadi ent de scònderse ente ‘n ciantón, dré al gran figiar che l’eva d’oclà ca doman. Fat chesto, l’à batù plan plan sul porton con chela de dìrse che l’era ‘n pelegrìn che se era perdù e che ‘l domandava de podér fermarse per ca nòt enfin a la doman dré. Enzun rispondeva; l’à batù de nòu en pòc’ pù fòrt; risposte, nèzza. Alor l’à clamà ‘l tèrz malandrìn e i l’à fat nar entel cortìu come i àutri doi, con l’ordine de tòr via plan plan el s-ciarnaz per davèrzer l’us e per aver libero da s-ciampar. Se fa tut con gran prudènza e tut neva ben. Po’ l’è nà a clamàr i àutri e i l’à fati nìr ént ensèma a el, po’ i l’à mandadi a scònderse dausìn ai primi; l’à serà ‘l porton su la strada e ‘l g’à metù ìo doi sentinèle dal de ént; e po’ ‘l va drìt vers l’us del somas. L’à batù ancia ìo e l’à spetà: ma ‘l podéva ben aspetar. Plan planìssim l’à daverzù ancia chel porton ìo: dal de ént enzun che dìgia: chi va là?; Enzun se fa sentìr: meio de ‘nzì nó la podeva nar. Donche avanti: “st,” el clama chei del figiar e ‘l và ent con lori ‘ntel somàs, endo che ca matina l’eva azetà disonestament chel tòc’ de pan. L’à tòt fòr da la s-ciarsèla zalìn e fulminànti e l’à ‘mpizzà ‘l só lanternìn, l’è nà ent en la ciàmera pù fonda per èsser segùr che nó ge fus enzun. Tornà ‘ndré, l’è nà vers l’us de la s-ciala, l’à vardà, scoutà ben: ànima viva, e silenzio. L’à lagià ìo àutre doi sentinèle al piano tèra e ‘l s’à fat nìr drè ‘l Grignapòc’, che l’era ‘n róbler de la bergamasca, che ‘l doveva spaventar, calmar, comandar, ensoma èsser chel che parlava, per fàrge créder a l’Agnese che la masnada la nideva da ca banda ìo. con chesto ‘nsèma e i àutri de dré, el Gris l’è nà su per la s-ciala plan planìn, e a ogni s-cialìn che sgringenava, a ogni pas che feva rumor de ca sclapàda de lazeróni, ‘l pensava na blestéma. A la fìn l’è arivà su ‘n zìma. Cì g’è ‘l léver. L’à spenzù la porta che neva ‘nla prima ciàmera; l’us el s’è daverzù sùbit e l’à vardà ént ma l’era scur come la bócia del lof, l’à scoutà per sentìr se g’era calchedun che ronzegiava, fladava o se moveva dénter ìo; engotiènto. Alor avanti: el s’è metù la lanterna davanti al mus, per véder senza èsser vist, spalanca la porta e ‘l vet en let; adòs: el let l’è fat su e splanà, con tute le só cuèrte e i linzòi a posto. El se strénz enle spale, ‘l s’è voutà vèrs la compagnìa e l’à fat segn che de nar en l’àutra ciàmera e che i ge nes dré plan plan; l’è nà ent fasèndo le stese zerimònie e l’à trovà la stessa ròba. “Ma, che diàulo èl po’ cì alor? Vòs dir che g’è calche ciagn de ‘n spión?” E tuti i s’era metùdi a vardàr pù ben, a tastar dapertut ente ogni ciantón, a petar sot sora la ciasa. Entant che chesti i feva ste ròbe, i doi che feva la guardia a l’us de la strada i eva sentù ‘n pestolòt de passòti slanziènti, che i se svizinava en prèssa; i s’era ‘mmazinadi che, calunque fus sta, el saròss passà via drìt; i s’era metùdi ‘l còr en paze e ad ogni modo i steva con le récle su drìte. Enfati chel pestolòt el s’era fermà pròpri ìo sul portón. L’era ‘l Domènico che ‘l nideva de corsa, mandà dal padre Tòfol, per avisàr le doi feumne che, per amor del ziél, le s-ciampàs sùbit da ciasa e che le nides al convènt, perché… el perché ‘l séo. L’à brancà ‘l batòcel del portón per bàter, e i se l’à sentù batoclar en man descloudà. ― Com’èla po' chesta? ― l’à pensà; e po’ l’à spenzù l’us con en pòc’ de pipacul: e ‘l s’è daverzù. El Domènico l’à metù dénter en pè con gran sospèt, e de colp ‘l s’è sentù brancàr per i brazzi e doi ós che parlava plan planìn da l’andrita e da l’anzància, che le diseva con en tono ciatìo: “zìto! se no ses mòrt.” Envéze l’eva trat fòr n’urlo: un de chei doi lazeróni ‘l g’à metù la man su la bócia; l’àuter l’à tirà fòr en cortèlàz per fàrge paura. El faméi el tremava come na fòia e nó ‘l provava nancia a zigiar; però tut de colp enveze che el, e con en rumor bèn pù àut, s’era fat sentìr chel prìm bòt de la ciampana e po’ dré ca gran sgranelada de bòti. Cì che scònt el só pecià el g’à paura de èsser palesà e ‘l vét critegianti ancia ‘ndo che nó i g’è, dis el provèrbi milanes: a l’un e a l’àuter de chei briganti g’era parèst che chei bòti de ciampana nó i fus àuter che i só nòmi, cognòmi e soranòmi: i eva molà i brazzi del Domènico, spalancà le man e la bócia, i s’è vardadi entel mus, e i è s-ciampadi a giambe levade dent en ciasa endo che g’era ‘l gròs de la sclapada. El Domènico, vàrda che nare per la strada, vèrs el ciampanìl, endo che, at ogni bòn cont, calchedun geva da èsserge. Ai àutri malandrini che sfodegiava dapertut en ciasa, chel bòt el geva fat la stessa ‘mpression: i s’era confondùdi, sparpaiadi, e i s’era dati dént un con l’àuter: tuti i zerciava la strada pù curta per arivar al portón. Epur l’era tut zènt usada a èsser buli; ma nó i se sentiva tant seguri con en perìcol che nó i seva nancia lori e che nó ‘l s’era fat véder en pòc’ prima de nìrge adòs. G’è volèst tuta l’otorità del Gris a tegnìrli tuti ‘nsema, tant che l’amparés na ritirata pù che na fugia. Come ‘n ciagn che compagna ‘n sclap de rugianti, el cór de cà e de là per tègner dént chei che va fòr dal ròz; el zàcia un per na récla e i lo tirà dént; n’àuter i lo spénz col mus; e ‘nchel momént el sbùfa a n’àuter che va fòr da la fila; al stes modo ‘l pelegrìn [el Gris] el zapa per i zuffi un de chei che era zà su la sòlia, e i lo tira ‘ndré; e col baston el tira ‘ndré un e n’àuter che neva da ca banda: el gé zigiava ai àutri che coréva da tute le bande senza savér endó; a la fìn i l’à radunadi tuti ‘n mèz al cortìu. “Presti, presti! le pistòle en man, i cortèi pronti, tuti ‘nsèma; e po’ partiren: enzì se va. Cì voléo che né tócia po’, se restan tuti ‘nsèma, coioni? Se ne lagiàn zapàr un per un, le zaperén ancia dai contadini. Vergognave! Nidé dré a mì, e ste ‘nsèma.” Dopo che l’eva fat sta predicòta, ‘l s’è metù dinanzi e l’è nà fòr el per prìm. La ciasa, come che én zà dit, l’era zó ‘n font al paes; el Gris l’à zapà la strada che néva fòr dal paes e tuti i g’è nadi dré come agnelòti. Lagiàntei nar, e tornan en pas endré a véder come che i se l’eva fata l’Agnese e la Perpetua ente ca stradèla dré la cialòngia. L’Agnese l’eva fat en modo de tègner lontana l’àutra da la ciasa de don Abondio, pù che l’era possìbol; e ‘nfìn a ‘n zèrto punto la ròba l’era nada ben. Ma tut de colp, la cògia l’à s’era ricordada de avér lagià la porta davèrta e l’eva volèst tornar endré. Nó se podea contradìrge engot: l’Agnese, per nó fàrge nìr calche sospèt, l’eva cognèst nàrge dré anc’ela zerciando de tègnerla ìo ferma ogni bòta che la relazion su chei matrimòni nadi a mónt, i la s-ciaudava su ben ben. L’Agnese la mossàva de dàrge udienza, e ogni tant per fàrge véder che l’era atènta a chel che la gé diséva, o ancia per enviàr via ancor le scomarade, la diseva: “ma segùr: adès ài ciapì: va benón: ài ciapì: e po’? e el? E voi?” Ma ‘ntant dénter de ela la féva n’àuter discors. ― Sarài nudi fòr a st’ora? o sarài ancor dént? Che siòchi che sén stadi tuti trei a nó méterne d’acòrdi de ‘n segnàl per avisàrme cando che la ròba la fus reussìda! L’én fata pròpri grossa! Ma l’è fata: ades nó g’è àuter da far che tènderge a sta cì pù che pòdi: mal che la vàgia ‘l sarà ‘n pòc’ de tèmp pèrs. ― E ‘nzì, a corsàte e poussadèle, le era tornàde dausìne arènt a la ciasa de don Abondio, che però nó le vedéva, essèndo dré al ciantón: sicome la Perpetua la era sul pù bèl a contàr la só storia, la s’era lagiada fermar senza fadìgia, anzi senza nancia nascòrzerse; tut de colp, l’eva sentù rimbombar da sora en tut chel silenzio de la nòt el prìm begelamént sdramenà de don Abondio: “aiut! aiut!” “Misericordia! che è suzèst po’?” zigiàva la Perpetua, e l’eva volèst córer. “Che g’è po’? che g’è po’?” la diseva l’Agnese, e ‘ntant i la tegnìva per la vèsta. “Misericordia! ma nó eo sentù no?” l’eva dit la Perpetua, remenando. “Che g’è po’? che g’è po’?” la ripeteva l’Agnese, tegnèndola per en braz. “Mostro de na feumna!” l’eva sclamà la Perpetua spintonandola per liberàrse, e l’eva zapà a córer. Enchela, pù lontàn e pù fort s’era sentù l’urlo del Domènico. “Misericordia!” zigiàva ancia l’Agnese; e via de corsa dré a l’àutra. Le eva zust scomenzià a córer cando che s’era sentù ‘l prìm bòt de la ciampana: en bòt, e doi e trei e po’ zó: el saròs sta fugiade, se che doi le n’avés bù bisògn. La Perpetua l’era arivada sùbit prima de l’àutra; e ‘ntant che l’era ìo per davèrzer l’us, l’us el se daverzéva dal de ént e su la sòlia g’era ‘l Tonio, ‘l Zervaso, el Renzo e la Lùzia, che trovà la s-ciala i era nudi zó a sàuti; po’ avèndo sentù le ciampane a martèl, i coréva pù che ‘mprèssa a méterse al segur. “Che g’è po’? che g’è po’?” à domandà la Perpetua smendolada ai fradèi, che i g’à respondù con en spintón e i era s-ciampadi. “E voi! come! Che féo po’ voi cacì?” l’à domandà dopo ai àutri doi cando che i l’à cognossudi. Ma ancia chei i è nadi senza risponder. La Perpetua, per nar endo che g’era pù bisògn, nó l’eva domandà àuter, l’è nada entel somas, e l’à corèst come che la podeva al stròu, vèrs la s-ciala. I doi sposi, ancora morosi e i s’è giatadi dinanzi a l’Agnese che l’arivava anc’ela tuta azitada. “Ah seo cì!” l’à dit tirando fòr le parole a stento: “com’ela nada po’? che vòl dir po’ la ciampana? Me par de aver sentù…” “Nidé a ciasa, presto nidé a ciasa,” diseva ‘l Renzo, “prima che nó vègnia zènt.” E i s’è ‘nviadi; ente chela è arivà de corsa ‘l Domènico, e ancor tut tremolènt, i l’à cognossudi, i l’à fermadi e con na osata ‘l geva dit: “endo néo po’? tornà ‘ndré, tornà ‘ndré, nidè da chesta che nén al convènt!” “Ses tì che…?” scomenziava l’Agnese. “Che g’è po’ ‘ncor?” domandava ‘l Renzo. la Lùzia, tuta stremìda, la taseva e la tremolava. “A ciasa g’è ‘l diàul,” dis el Domènico azità. “L’ài visti mì: i voleva mazàrme: i l’à dit padre Tòfol: e ancia voi, Renzo, l’à dit che nidégeo sùbit; e po’ l’ài visti mì: l’è la Providenza che v’ài trovadi cì! Ve dirài dopo, cando che sarén en pòc’ lontani.” El Renzo che l’era chel pù ‘n sè de tuti, l’eva pensà che cì o ìo da calche banda convegnìva nar e sùbit, prima che la zènt nó la fés traboldéri; e che la pù segùra l’era chela de far chel che consiliava ‘l Domènico, anzi che ‘l comandava, con la forza del spavènt che l’eva zapà. Per strada po’ dopo, e fòr dal perìcol, se poderòs domandar al putèl de savèr vergot de pù. “Ciamina davanti,” ‘l g’à dit. “Nén dré a el,” el g’à dit a le feumne. I è tornadi de vòuta e i è nadi vèrs la glésia, i à traversà la piaza, endo che, grazie a Dio, nó g’era ancor anima viva; i à zapà na stradèla che l’era ‘ntrà la glésia e la ciasa de don Abondio; al prim bus che i eva giatà ‘n la strupaia, dénter, e via per i ciampi. I era forse lontani zincanta passi, cando che la zènt l’a scomenzià a córer en piaza e ogni moment ge n’era sèmper de pù. I se vardava un co l’àuter: ognun el geva na domanda da far, ma ‘nzun la risposta da dar. I primi che era arivà i era corsi ‘n glésia ma l’era serada. I era corsi alor vèrs el ciampanìl, e un de chei ìo l’à zigià dént da na finestrèla: “che diaulo g’è pò?” Cando che l’Ambrògio l’à sentù na ós che ‘l cognosséva, l’à molà la corda; e segurà dal traboldéri de tuta la zènt del paes che era corsa ìo, l’à respondù: “vèni a davèrzer.” El s’è metù le brage che l’eva més sota ‘l braz, e dal de ént, l’è nà vers la porta de la glésia e i l’à davèrta. “Che èl po’ tut sto fracass? ― Che èl po’? ― Endo èl po’? ― Cì èl po’?” “Come po’, cì che l’è?” dis l’Ambrògio, tegnèndo con na man la porta e con l’àutra na récla de le brage che ‘l s’eva metù ‘n prèssa: “come po’! nó ‘l séo no? zènt en ciasa del sior curàt. Ànem putèi: aiut.” tuti i s’è voutadi vers ca ciasa e la fóla la s’è svizinada, vardando ‘n su, e con le récle atente: tut calmo. Àutri i cór da la banda endo che g’era l’us: l’è serà, e ‘mpar che nó ‘l sia stà tocià. Vardava ‘n su ancia lori: nó g’è na finestra davèrta: nó se sènt engot, tuti ziti. “Altolà, cì g’è dénter po’? ― Ohe, ohe! ― Sior curàt! ― Sior curàt!” Don Abondio, che apena che ‘l s’era acòrt che i ocupanti i era s-ciampadi, el s’era tirà ént da la finesta e i l’eva serada, e ‘nchel momént l’era dré a sbegotar sota ós con la Perpetua, che i l’eva lagià da só posta enchel embròi, cando che l’à sentù che i clamàva pròpri el, la cognèst nìr de nòu su la finestra; e vist tuta ca zènt che era nù a aidàrlo, el s’è pentì de averlo domandà. “Che g’è sta po’? ― Che g’ài fat po’? ― Cì èrel po’ chesti? ― Endo èi po’?” ge zigiàva su zincanta ós tute ‘nsèma. “Nó g’è pù ‘nzun: ve ringrazi: né pur a ciasa.” “Ma cì èl sta po’? ― Endo èi nadi po’? ― Che è suzèst po’?” “Zentaia ciatìva, zènt che zira la nòt; ma i è s-ciampadi: né pur a ciasa; nó g’è pù ‘ngot no: n’àutra bòta fiòi: ve ringrazi del vòs bòn còr.” E, dit chesto, el s’è tirà dent e l’à serà la finestra. Calchedun eva scomenzià a brontolar, calchedun a coionar, zèrti àutri a sacramentar; àutri nó i s’è pù ‘nteressadi e i se ‘n neva: cando che ariva un soflànt che ‘l stentava a parlar. Chesto l’abitava scasi davanti a la ciasa de le nòsse dòne, e avèndo sentù ‘l rumor, l’eva vardà fòr da la finestra e l’eva vist entel cortìu el rafanas dei róbleri, cando che ‘l Gris el se desperava a méterli ’nsèma. Can che l’eva zapà ‘l flà, l’à zigià: ― che féo pò cì putèi? El diàul nó l’è cì no; l’è zó ‘nfont a la strada, enla ciasa de l’Agnese Mondella: zènt armada; i g’è dént e ‘mpar che i vòbia mazzar en pelegrìn; cissà che diaulerìa che l’è!” “Che? — Che? — Che?” È scomenzia n’assemblea confusionaria. “Ge vòl nar. ― Ge vòl véder. ― Canti èi po’? ― Canti sénte po’ noiàutri? ― Cì sarài po’? ― El cònsole! el cònsole!” “Son cì,” à respondù ‘l cònsole, en mèz a la fóla: “son cì; ma g’ài bisògn de aiut, ge vòl che ubidìgeo. Presti: endo èl po’ ‘l sagrestan? A la ciampana, a la ciampana. Presti: un che ‘l cória a Lecco a zerciar aiut: nidé tuti cì…” Cì che cór, cì che sita tra òm e òm e ‘l se la mòca; el tumulto l’era grant, can che ariva n’àuter, che i l’eva visti partìr en prèssa e ‘l zigia: “coré, putèi: ladri o banditi che s-ciampa con en pelegrìn: i è zà fòr dal paes: adòs! adòs!” A sentìr sto aviso, senza spetar i órdeni del capitano, i s’è ‘nviadi ‘n massa, e zó a calche vèrs per la strada; man a man che l’armada l’avanzava, calchedun de chei che era davanti i neva pù plan, e i se lagiava passar via e ‘l se meteva en mez al ròz. I ultimi i spenzéva inant: el sém engazerà l’è arivà a la fin entel posto fissà. Le trace de l’invasion le era fres-ce e se podeva véderle benón: l’us spalancà, la seradura descloudada; però nó se vedéva pù ‘nzun tuti i era sparìdi. I è nadi ‘ntel cortìu; po’ vèrs la porta sul somas: ancia chesto davèrt e col s-ciarnaz destacià: i clama: “Agnese! Lùzia! El pelegrìn! Endo èl po’ ‘l pelegrìn? El pelegrìn el se l’averà ‘nsonià ‘l Stèfen. ― No, no: i l’à vist ancia ‘l Carlandrea. Ohe, pelegrìn! ― Agnese! Lùzia!” Enzun che respònt. “I l’à portade via! I l’à portade via!” Alor g’è sta calchedun che auzzàndo la ós, i proponeva de córerge dré ai bandìti che i l’eva portade via: che l’era na barbària; e ‘l saròs na vergogna per tut el paes, se calunque birbante ‘l podés, senza dir né doi né trei, portàrse via le feumne, come n’agolìn i poiàti da ‘n polinar desèrt. N’àutra assemblea ancor pù confusionaria: ma un (e nó se à mai savèst ben cì che ‘l fus) l’à petà ìo na ós che l’Agnese e la Lùzia l’e s’era metùde al segur ente na ciasa. Sta ós l’è corèsta via ‘mpressa, e adès tuti i credeva a chesto; enzun parlava pù de nar a ciazzar chei briganti; e tuta la sclapada de zènt la s’è sparpaiada, ognun è nà a só ciasa. L’era tut en sussur, en strèpit, en bàter e ‘n davèrzerse de porte, en véder e ‘n sparìr de lantèrne, en domandar de le feumne da le finestre, en risponder da la strada. Cando che la strada l’era restada desèrta, i discorsi i seghitava ‘n ciasa, però dopo ‘n pezzòt i ruava ente grant sbadazzade, per scomenziar de nòu la doman dré. Àutri fati però nó ge n’è sta pù; però, pròpri ca medesema doman, el cònsole, che l’era ente ‘l só ciamp pozà al mànec’ de la vangia mèza ‘mplantada ‘ntel terén, e con en pè sul vangìl; l’era ìo a considerar entrà de el sui mistèri de la nòt passada, e su come ‘l giavés da comportàrse e de chel che ge fus convenièst de far, l’à vist che ge nideva encòntra doi oumni gaiardi de bèla presenza, con tant de splumòzzi come fus doi re dei Franchi e che ge ‘nsomiava tantìssim a chei doi che zìnc’ dì prima i eva enfrontà don Abondio, ma però nó l’era pròpri chei. Chesti cì, con en far da vilani i g’à ‘ntimà al cònsole che ‘l se vardàs ben da far denònzia al podestà de chel che era suzèst, de nó dir la verità entel caso ‘l fus stà ‘nterogà, de nó zacolar en zìro e de nó zaigiàr i contadini a baderlar, se ‘l voleva ancor coltivar la speranza de morìr de malatia. El Renzo e ‘l Domènico con le doi feumne ‘ntant, i eva ciaminà con en bòn pas, ziti, e ogni tant un e l’àuter i se voutava a vardàr che ‘nzun ge nes dré, a tuti ge manciava ‘l flà per la fadìgia de s-ciampar, per el baticòr, per i momenti de ansia che i eva passà, per el dispiazér che era nà tut a mont e per el pensier de n’àuter perìcol misteriós. E ancor pù en ansia, l’era chei bòti che pù che i se slontanava se i sentiva sèmper de men, ma che però i feva ancor pù ‘n efèto pedimentós e scarognà. Per fortuna i l’à fermadi. Trovàndose enten ciamp che nó g’era anima viva, e nó sentèndo ‘nzun ìo ‘n zìro, i à cialà ‘l pas; la prima a parlar è stà l’Agnese, domandàndoge al Renzo come che l’era nada, domandàndoge al Domènico chel che l’era chel diauléri ‘n ciasa. El Renzo ‘l g’à contà ‘n pòce parole la só bruta storia; e tuti trei i s’è voutadi vèrs el putelòt che ‘l g’à riferì per ben l’aviso del padre, e ‘l g’à contà chel che pròpri el l’eva vist e riszà, e che purtropo l’era l’aviso che ‘l padre el geva dit de portàrge. El Renzo e le doi feumne i eva ciapì de pù de chel che ‘l Domènico l’era sta bòn de dir: e nudi a savér ca ròba i sentiva i sgrisolóni; a ‘n zèrto punto i s’è fermadi tuti trei i s’è vardadi un co l’àuter, spaventadi; e sùbit scasi ‘nsèma tuti trei i g’à pozà la man cì su la testa, cì su le spale del putèl, come per dodolarlo per ringraziarlo en silenzio per èsser sta per lori ‘l só angelo custòde, per palesàrge la compassion che i sentìva de l’angossa che l’eva patì e per el perìcol che l’eva passà per salvar lori; e scasi scasi per domandàrge scusa. “Vai a ciasa adès, perché i tòi nó i g’àbia da star en pensier per tì,” g’à dit l’Agnese; e ricordàndose de le doi parpaiòle che la geva ‘mprometù, la n’à tòt fòr càter da la s-ciarsèla e ‘l ge l’à date disèndoge: “basta; pregia ‘l Sioredio che ne vediénte prést: e allora…” el Renzo ‘l g’à dat na berlinga nòva e ‘l g’à racomandà come ‘n sant de nó dìr engot de l’incombènza che l’eva bù dal frate; la Lùzia i l’à dodolà ancor e i l’à saludà con na ós engropada; el putèl i l’à saludadi tuti e l’è tornà a só ciasa. I àutri ‘ntant i à seghità per la só strada, tuti pensierósi; le feumne dinanzi e ‘l Renzo de dré, come per far la guardia. La Lùzia la se tegnìva strénta al braz de só mama, e la refudava con educazion e con astuzia l’aiut che ge ofrìva ‘l Renzo entei posti pù descòmodi de chel viaz fòr da la strada; e ‘ntrà de ela la se vergognava de èsser zà stada assà da só posta ensèma a el, un dausìn a l’àutra cando che la se spetava de deventàr la só spósa da ìo a pòc’. Adès che l’era svanì ‘nzì malament chel gran desidèri la s’era clamada malpentìda de èsser nada massa inanzi e tra tute le ciause che la geva per tremar, la tremava ancia per el respèt che nó gias per aver provà ‘l pecià, per chel respèt che gias senza saver de avérlo, che ge ‘nsomìa a la paura de ‘n pòpo che ‘l trèmola al stròu, senza savèr perchè. “E la ciasa?” la dis debòt l’Agnese. Però, per cant che la domanda la podès èsser importante, nó g’à rispondù ‘nzun, perché ‘nzuni podeva dàrge na risposta da contentàrla. I à seghità ‘n silenzio a nar per la strada e dopo ‘n pezzòt i s’è trovadi enla piazéta davanti a la glésia del convent. El Renzo l’à vardà dént da la porta e i l’à spenzuda plan plan. Difati la porta la s’è davèrta; la luze de la luna, passando per la crèpa del porton, l’à ‘nluminà la barba biancia de padre Tòfol che l’era ìo ‘n pè a spetarli. Vist che nó manciava ‘nzun, el dis: “Dio sia benedét!” e ‘l g’à fat segn de nar ént. Ensèma a el g’era ìo ancia n’àuter ciapuzìn; l’era ‘l sagrestan laico, che ‘l frate l’eva ‘mpregià spiegiàndoge le só resón, e i l’eva convinto a star su con el e a lagiar el portón davèrt e far da sentinèla, per azetar chei pòri perseghitadi: e sol l’otorità del padre e ‘l nòm de sant che ‘l geva, eva podèst otègner da chel laico en piazer compagn, en piazer che l’era descòmot, pericolos e fòr da le regole del convent. Nadi ént, el padre Tòfol l’à serà via plan planìn la porta. Alor el sagrestan nó l’à pù podèst tàser, e clamà da na banda ‘l padre, ‘l g’à sussurà ‘nte na récla: “ma, padre, padre! de nòt… en glésia… con dòne… serar… le regole… ma padre!” E ‘l scorlava la testa. Entant che ‘l diseva scasi bezgolant che parole, ― ma varda tì! ― el pensava fra Tòfol, ― se ‘l fus en sassìn de strada che ‘l s-ciampa, fra Fazio nó ‘l ge faròs nancia na dificoltà; na pòra nozènta, che la s-ciampa da le sgrinfie del lupo… ― “Omnia munda mundis,” el dis, voutàndose vèrs fra Fazio, desmentegiàndose che chesto nó ‘l ciapìva ‘l latin. Però sto èsserse desmentegià l’è sta chel che à fat efèto. Difati se ‘l padre ‘l fus sta ìo a chestionar ancia con bèle resón, fra Fazio l’avròs trovà àutre bèle reson per dàrge contra; è po’ sa ‘l ziel come che la saròs nada a ruàr. Ma, a sentìr che parole pléne de mistèro, proferìde con tanta segurézza, ge pareva che ‘n che parole ge fus la soluzion de tuti i só dubi. El s’è calmà, e ‘l dis: “basta! voi en séo de pù che mì.” “Fidave pur,” dis el padre Tòfol; e col pòc’ slusór de la lanterna che ardeva dinanzi a l’autàr, l’è nà dausìn ai pòri assistidi che i era restadi ìo a spetar, e ‘l g’à dit: “fiòi! ringrazià ‘l Sioredio che ‘l v’à salvà da ‘n gran perìcol. Forse ente sto memént…!” E cì ‘l s’è més a spiegiar chel che ‘l geva fat apena motivàr dal putelòt: zà che nó ‘l sospetava nancia ‘n mìgol che lori i ‘n savés de pù che el, e ‘l pensava che ‘l Domènico i l’aves giatadi calmi ‘n ciasa, prima che arivas i banditi. Enzun se l’à sentida de dìrge chel che era suzèst, nancia la Lùzia che però la sentiva ‘n rimòrs segrèt, a scònderge na ròba come chesta a ‘n tal òm come che l’era fra Tòfol; ma l’era la nòt dei embròi e dei ‘ngiagni. “Dopo chesto,” el dis ancor, “vedéo ben fiòi, ades nó seo pù seguri ente sto paes; cì seo nudi al mondo; nó eo fat del mal a ‘nzuni; ma ‘l Sioredio ‘l vòl enzì. L’è na prova, fiòi, soportàla con passiènza, con fiducia, senza fél, e ste segùri che nirà ‘l tèmp che vé troveréo contenti de chel che suzét adès. Mì ài pensà de trovàrve ‘n refugio, per sti primi moménti. Mi speri che prest, poderéo ancia voiàutri tornar segùri a ciasa vòssa; a ogni modo, ‘l Sioredio ‘l ve protezerà, per el vòs ben; e mì de segùr varderài de nó manciar a la grazia che ‘l me fa a tòrme come vòs tudor, a protézerve, voi poréti che tribolào. Voi” el dis vèrs le doi feumne, “poderéo fermàrve a ***. Ìo saréo scasi fòr da ogni perìcol, e ‘ntel stes tèmp, nancia massa lontane da vòssa ciasa. Zercià del nòs convent, fé clamar el frate guardian, dége sta lìtera: el sarà per voi n’àuter fra Tòfol. E ancia tì, el me Renzo, ancia tì ‘ntant cògnes méterte en salvo, da la rabia dei àutri, e da la tóa. Porta sta lìtera al padre Bonaventura da Lodi, entel nòs convent de Porta orientale de Milan. Chesto ‘l te farà da pare, ‘l te guiderà, el te giaterà ‘n laoro, enfìn che poderàstus tornar a vìver cacì con calma. Né su la sponda del lac’, vizìn a ‘ndo che se trà ent el Bione.” L’è ‘n rì a pòci passi da Pescarenico. “Ìo vederéo en batèl fermo: diréo: barcia; ve sarà domandà per cì; risponderéo: san Francesco. La barcia la ve rizeverà, e la ve porterà da l’àutra del lac’, endo che troveréo en ciarét che ‘l ve porterà adiritura enfìn a ***.” Cì che se domandas come che ‘l feva fra Tòfol, enzì su doi pèi, a aver ai só ordini tuti chei mèzi, per aca e per tèra, el faròu véder de nó cognósser chel che l’era la potenza de ‘n ciapuzìn che ‘l geva la reputazion de èsser en sant. Restava sol da pensar a come custodìr le ciase. El padre l’à tegnù le clao, con l’incombenza de consegnarle a chei che ‘l Renzo e l’Agnese i g’eva dit. L’Agnese, togèndose fòr da la s-ciarsèla la sóa, la far en gran sospìr, pensando che ‘nchel momént la ciasa l’era davèrta, che g’èra sta ent el diàol, e cissà chel che era restà da custodìr! “Prima che partìgeo,” dis el padre, “pregian tuti ‘nsèma ‘l Sioredio, perché ‘l ve protézia ente sto viaz, e sèmper; e sora tut che ‘l ve dàgia la forza e l’amor de voler chel che El l’à volèst.” Disèndo ‘nzì ‘l s’è ‘nzinoclà en mez a la glésia; e tuti i à fat compagn. Dopo che i eva pregià, per en bel pezzòt, en silenzio, el padre, sota ós, ma da farse sentìr ben, l’à dit ste parole: “noi ve pregian ancor per chel pover’òm che ‘l n’à portà a ste condizion. Noi nó ne meriteròssen la vòssa misericordia, se nó ve la domadàssen col còr en man ancia per el; el ge n’à tant de bisògn! Noi ‘nla nòssa tribolazion, gen sta consolazion che sen enla strada endo che neo metù Voi: poden offrìrve i nòssi fastìdi; e i devènta ‘n vadàgn. Ma el! l’è vòs nemìzi. Oh pòr disgrazià! El vòl compèter con Voi! Ebieo pietà de el, Sioredio, tociàge ‘l còr, félo vòs amìzi, dége tut el ben che noi poden desiderar per noi stessi.” Po’ l’è levà su ‘n pè ‘n prèssa e ‘l dis: “né là, fiòi, nó g’è tèmp da pèrder: che ‘l Sioredio ‘l vàrdia ‘n zó, e che ‘l só ànzol el ve compàgnia: né là adès.” E ‘ntant che i se ‘nviava, engropà, che nó l’era nancia bòn de parlar, el padre con na grant avelizion l’à dit ancor: “el còr el me dis che ne vederén prést.” De zèrto, a cì che lo scóuta, el còr el g’à sèmper vergot da dir su chel che sarà. Ma che sal po’ ‘l còr? Apena ‘n pòc’ de chel che è zà suzèst. Senza spetar la risposta, fra Tòfol l’è nà vèrs la sagrestia; i nòssi viazadori i è partìdi da la glésia; e fra Fazio l’à serà la porta, saludàndoi engropà ancia el. I s’è ‘nviadi ziti ziti vèrs la sponda che g’era sta dit; i à vist el batèl pronto, e dita ca parola, i è montadi ént. L’òm de la barcia, l’à ‘mpontà ‘n rèm a la sponda e ‘l s’è destacià; brancà po’ l’àuter rèm e remando con doi brazzi, l’è nà fòr per el lac’, vèrs l’àutra sponda. Nó g’èra ‘n fil d’aria; el lac’ l’era slìssi e plan e l’amparéva fermo se nó ‘l fus sta per el tremolar e ‘l ninar lizér de la luna, che la se speglava dal ziél. Se sentìva sol l’aca che se sbolfrava plan plan su le glare de la riva, el scrocolar pù lontan de l’aca ‘ntrà i pilóni del pònt, e ‘l rumor de chei doi rèmi, che i taiàva l’aca azura del lac’, e che i nidéva fòr ensèma sgrondazànt e che po’ i tornava ‘n l’aca. L’onda che féva la barcia, seràndose de dré, la féva na strìsa enrizolada che la se slontanava da la riva. I viazadori en silenzio, con la testa voutada ‘ndré i vardava i monti, ‘l paes enluminà da la luna, e cì e ìo come ‘mmaclà per via de grant ombrìe. Se togéva fòr i paesi, le ciase, le bàite: el palàz de don Rodrigo, con la só tór plàta, pù àut sóra le ciasòte ‘mmuclade su la costéra del mont, ‘mpareva ‘n zèlbero che, su drìt ente ca scurèra en mèz a na sclapada de ‘ndormenzadi, che ‘l féva la guardia, pensando a far calche angiarìa. La Lùzia i l’à vist e g’è nù ‘n sgrisolón; con l’òcel dal palaz l’è nuda zó zó per la chìpa, enfin al só paesòt, l’à vardà fìs da ca banda ‘ndo che g’era la só ciasòta, l’à vist la zòma folta del figiar che la piciava su dal mur del cortìu, la vist la finestra de la só ciàmera; sentada zó come che l’era ‘nfont a la barcia l’à pozà ‘l braz su la sponda e sul braz l’à pozà ‘l vis, come per dormìr, e l’à planzù de scondión. Adio, monti che nidéo fòr da l’aca, e neo su ‘ntel ziél; zìme descompàgne, che cognoss ben cì che è cressù trà de voi e i le g’à ‘mprèsse ‘nla só mént come ‘l vis dei só parènti pù vizìni; ridi, che se cognos dal scrocolar come le ós de ciasa; paesi sparpaiadi e sblanzegianti su per la costéra, come sclape de pégore a past: adio! Cant che l’è melancònico ‘l pas de cì che, cressù tra de voi, el cògn nàrsen! Come per chel che se ‘n và liberament, con la speranza de far fortuna autró, enchel momént ge passa i bei pensieri de deventar sior; e ‘l se fa maravéa de poder èsser arivà a dezìder de nàrsen, e adès el torneròu endré, se nó ‘l g’àves la speranza de tornar en dì de vòuta sior. Pù che se va avanti ‘nla planura ‘l só òcel el varda stomegià e strac’ chel’estension sèmper compàgna; ge par che l’aria la sia pù greva e morta; el và énter trist e distrat ente le zità tute ‘n rafanas; le ciase zontade a ciase, strade che le rua ente àutre strade, empar che le ge tògia ‘l respiro; e dinanazi ai palazi prezziadi dai furèsti, el pensa plen de destrani, al só ciampét entel só paes, a la ciaséta che da ‘n pèz el g’eva metù sora i òcli e che ‘l comprerà cando che ‘l tornerà ai só monti ‘n bel dì, deventà sior. Ma cì che nó eva mai bù nancia ‘l pù pìzzol desidèri de s-ciampar dal so paes, cì che eva fat ìo tuti i só prozèti per i ani da nìr, e l’è costret a nar lontan a ciausa de na ciativèria crudele! Cì che, destacià debòt da le só abitùdini pù care, encricià da le só speranze, el se ‘n va da chei monti, per enviarse a zerciar zènt furèsta che nó l’à mai desiderà de cognosser, e nó ‘l sa cando che ‘l poderà tornar de vòuta! Adio, ciasa ‘ndo che son nat, endo che sentà zó ìo de fòra, col pensier ài emparà a distìnguer dal rumor dei passi de la zènt, el rumor de chel pas che aspetavi con en pòc’ de timor. Adio, ciaséta ancor furèsta, che tante bòte, passando da ìo, ài vardà ‘mprèssa deventando rossa; ente ca ciaséta me ‘mmazinavi na vita calma e per sèmper da sposa. Adio glésia da ‘ndo che tante bòte, ciantando le lodi al Sioredio nidevi de vòuta contènta; endo che l’era promésse e preparàde le nozze; endo che ‘l nòs amor el doveva èsser embenedì e nìr comandà, e clamàrse sant; adio! Cì che ve deva tanta felizità, l’è per tut; e la felizità dei só fiòi nó i la fa manciar mai, se nó l’è per dàrgen una pù segùra e pù granda. Chesti l’era i pensieri de la Lùzia e pòc’ diferènti l’èra chei dei àutri doi pelegrini, ‘ntant che la barcia la néva svizinàndose a la riva destra de l’Adda.
L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. “Di che cosa?” rispose quello: “siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro,” e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorchè Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via. Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover’uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l’hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico milanese che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, nè lei, nè il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca. I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia. Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio d’una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: “a rivederci,” e partì. Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia. “Oh! fra Cristoforo!” disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perchè il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: “non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’impegno…” Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a tutt’e due: “donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me?” Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: “bene; io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perchè la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine... con donne voglio dire.” Così dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non potè tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mossero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora. “La signora,” rispose quello, “è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, nè la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perchè dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione; e in Monza anche di più, perchè suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.” Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero; dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d’ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perchè la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall’interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. “E ben disposta per voi altre,” disse, “e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me”. Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l’uscio, disse sottovoce alle donne: “è qui,” come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere. Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne’ vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. “Reverenda madre, e signora illustrissima,” disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: “questa è quella povera giovine, per la quale m’ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.” Le due presentate facevano grand’inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: “è una fortuna per me il poter fare un piacere a’ nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma,” continuò; “mi dica un po’ più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.” Lucia diventò rossa, e abbassò la testa. “Deve sapere, reverenda madre...” incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un’occhiata, le parole in bocca, e rispose: “questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche...” “Quali pericoli?” interruppe la signora. “Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto.” “Sono pericoli,” rispose il guardiano, “che all’orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati...” “Oh certamente,” disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l’avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.” “Basterà dire,” riprese il guardiano, “che un cavalier prepotente... non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.” “Accostatevi, quella giovine,” disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. “So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest’affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso.” In quanto all’accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un’altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand’anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l’avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert’aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. “Signora... madre... reverenda...” balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credè autorizzata a venirle in aiuto. “Illustrissima signora,” disse, “io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perchè noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che m’intendo io... so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare...” “Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata,” interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. “State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!” Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d’occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma. “Reverenda signora,” disse Lucia, “quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva,” e qui diventò rossa rossa, “lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacchè siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.” “A voi credo,” disse la signora con voce raddolcita. “Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d’altri schiarimenti, nè d’altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano,” aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. “Anzi,” continuò, “ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l’ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que’ pochi servizi che faceva lei. Veramente...” e qui accennò al guardiano che s’avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: “veramente, attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre guardiano... In somma do la cosa per fatta.” Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l’interruppe: “non occorron cerimonie: anch’io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell’assistenza de’ padri cappuccini. Alla fine,” continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d’ironico e d’amaro, “alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?” Così detto, chiamò una conversa, (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato) e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n’andò a scriver la lettera di ragguaglio all’amico Cristoforo. — Gran cervellino che è questa signora! — pensava tra sè, per la strada: — curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s’aspetterà certamente ch’io l’abbia servito così presto e bene. Quel brav’uomo! non c’è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l’affare a buon porto, in un batter d’occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s’accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa. — La signora, che, alla presenza d’un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo. Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “ bello eh? ” Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: “che madre badessa!” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, “ tu sei una ragazzina,” le si diceva: “queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.” Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, “ehi! ehi!” le diceva; “non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perchè il sangue si porta per tutto dove si va.” Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale. A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Nè s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichío che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sè e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro. Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinchè fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi, pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacchè non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, e, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là. Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano. — O mi vorranno forzare, — pensava, — e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata. — Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne nè una cosa nè l’altra. I giorni passavano, senza che il padre nè altri le parlasse della supplica, nè della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, nè con carezze, nè con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perchè. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sè al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto. Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e all’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benchè accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe. Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere nè immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata. Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso. Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perchè non poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo. In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.
L’urtar de la barcia còntra la sponda, l’à scorlà la Lùzia, che dopo èsserse sugiada zó le làgrime de scondión l’à auzzà la testa come che la se desdromenzàs. El Renzo l’è sautà fòr el prim e ‘l g’à dat la man a l’Agnese e cando che ancia ela l’era desmontada el ge l’à data a só fiòla; tuti trei i à ringrazià avelìdi l’òm de la barcia. “Ma de che po’?” l’à respondù: “sén ca zó per dàrne na man un con l’àuter,” e l’à tirà ‘ndré la man, scasi con ribréz, come se i g’avés ofèrt de robar, cando che ‘l Renzo l’eva provà a lagiàrge na part de ca mitràlia che ‘l géva adòs, che l’éva tòt dré ca sera, con chéla de regialàrgei a don Abondio, cando che chesto senza volérlo i l’avés contentà. El cialès l’era ìo pronto; el ciaretér l’à saludà i trei che l’aspetava e i l’à fati montàr su, con na ós el g’à dat orden a la bèstia, na scuriàda e po’ via. L’òm che à scrìt sta storia, nó ‘l ne conta ‘ngot de come che l’èra nà chel viaz de nòt, nó ‘l fa ‘l nom del paes endo che fra Tòfol l’eva mandà le doi feumne; anzi i lo dis pròpri sclèt de nó volérlo nominar. Pù che se va avanti con la storia, se ciapirà ancia ‘l perché de sta prudenza. El caso de la Lùzia ‘nchel momént, l’era ‘ntortolà ‘nten complotar misteriós de ‘n personagio de na famìlia, che come che ‘mpar, la géva da èsser potènta, al tèmp che l’autor el scrivéva sta storia. Però per podér spiegiàrne ‘l comportamént en pòc’ stravagànte de sta persona, l’à cognèst contàrne ‘n pòce parole la vita che l’eva fat prima; e che razza de famìlia ‘l fus stà ‘l se la fegurerà cì che vòl lézer. Però chel che nó l’à volèst dìrne chel bòn òm de scritór, noi coi nòssi studi sen stadi bòni de ciapìrgen dénter vergot de pù da àutre bande. En studiós de storia del milanés che l’eva tratà pròpri de sta persona, l’è vera, nó ‘l nomina né éla né ‘l paes, però l’à scrìt che l’era na borgada antìcia e nòbile, che gé manciava sol el nòm de zità; po’ ‘l scrìu ancia pù inanzi che ‘nte sta borgada passa ‘l Lambro; e da n’àutra man che ìo g’è n’arziprèt. A tòr en considerazion tuti sti fati noi arivan a pensar che sta borgada l’era de sugùr Monza. Calchedun de pù lezù el poderà arivar a conclusion pù fine, ma nó credi pù segùre. Poderòssen ancia, e con opunión ben studiàde, dir el nom de sta famìlia; ma ancia se l’è nada fòra da ‘n bèl pèz, ne par che ‘l sia mèio lagiàrlo ‘nla péna, se nó àuter per nó fàrge tòrt ai morti e per lagiàr ai sapiènti calche fato che ‘l gé sia còmot per far i só studi. Donca, i nòssi viazadori i era arivadi a Monza, che ‘l sol l’era levà da pòc’: el veturìn l’è nà ‘nte n’ostarìa, e ìo, sicome l’era pratico del posto, e ‘l cognosséva ben el padron, el s’à fat dar na ciàmera per lori e i l’à compagnadi. Ensèma ai ringraziamenti, ‘l Renzo l’à provà ancia a dàrge vergot; ma chesto, come che eva fat chel da la barcia, el mirava a n’àuter pagiament, pù lontan, ma pù bondante: ancia el l’à tirà ‘ndré le man, e come se ‘l s-ciampas l’è nà a guernar la só bestia. Dopo na sera come che vén contà e na nòt che ognun pòl emmazinarse, passada ‘n compagnìa de chei pensieri, col sospèt rincorènt de ‘ncontrar calchedun de pòc’ de bòn, con n’ariéta pù che d’autón, e tra i tanti scorlóni de ca vetura descomoda, che nó i te lagiàva seràr òcel, nó gè pareva nancia vera a tuti trei de sentàrse zó su ‘nte na bancia che la steva ferma, ente na ciàmera tant che fus. I à fat colazion, come che permetéva la misèria de chei tempi, vardàndo de sparagnar ancia pòc’ en prevision de ‘n doman malsegùr e ‘l pòc’ apetìt. A tuti trei è nù ‘n ment la nòzza che, doi dì prima, i se spetava de far; tuti i à fat en gran sospìr. El Renzo l’avròs volèst fermàrse ìo, almen per tut chel dì, e véder le feumne sistemade e fàrge almen i primi servizi; ma ‘l padre ‘l geva racomandà a le dòne mandarlo sùbit per la só strada. Sichè le à portà sto orden e zènto àutre resón; che la zènt la zacoleròs massa, che pù che se spetava e pù doloros ‘l saròs sta separàrse, che el, magiari prést, el saròs nù a portàr o a sentìr bòne nòve; tant che a la fìn el s’è dezìso a partìr. I s’è metùdi d’acòrdi, come che i à podèst, su come tornar a véderse, pù prést che ‘l fus sta possìbol. La Lùzia la géva le làgrime; el Renzo l’à tegnù a stento le sóe, e strenzèndoge fòrt la man de l’Agnese, l’à dit con la ós engropada: “né vedén,” e l’è partì. Le feumne le se saròs giatade enten bèl impìz se nó g’era chel bòn òm de veturìn, che ‘l geva l’ordine de portàrle al convent dei capuzìni, e de aiutarle en tuti i só bisògni. Dónca le s’è ‘nviade con chel’òm vèrs el convent; chesto l’era pòc’ lontan da Monza. Arivadi sul porton el veturìn l’à tirà ‘l ciampanèl e l’à fat clamàr el padre guardian; sto cì l’è nù sùbit e l’à tòt en man la lìtera, su la sòlia. “Oh! fra Tòfol!” el dis, come che l’à cognossù la só scritura. El tono de la ós e ‘l mòto del mus i mossàva che ‘l proferìva ‘l nòm de ‘n grant amìzi. Ge vòl dir, estra, che ‘l bòn Tòfol ente ca lìtera, l’eva racomandà le feumne con tanta premura, e riferèndo ‘l só caso con tant sentimént, perché ‘l guardian ogni tant el feva ati de maravéa e de rabia; ogni tant l’auzzàva i òcli da la lìtera per vardar che doi pòre done con n’espression de pietà e de interès. Can che l’à ruà de lézer, l’è restà ìo arcant temp a pensàrge su; po’ l’à dit: “nó g’è che la sióra: se la sióra la vòl tòrse sto òbligo…” Po’ l’à tirà l’Agnese da na banda, su la piaza dinanzi al convènt, e ‘l g’à fat arcante domande, e l’Agnese l’à g’à rispondù a tute; po’ tornà da la Lùzia, l’à dit a tute doi: “care dòne, mi proverai; e speri de podérve trovar en refugio pù che segùr, pù che onorà, enfìn che ‘l Sioredio nó l’abia provedù a giatàrve na sistemazion mióra. Voléo nìr con mì?” Le feumne le à fat segn de sì con en gran respèt; el frate ‘l dis: “bòn; mì ve pòrti sùbit al convent de la sióra. Però ste ‘n pòc’ endré da mì, perche la zènt la se gòde a dir dré; e ‘l Sioredio ‘l sa cante bèle zàcole che la se faròs, a véder el padre guardian per la strada con na bèla putèla… me n’antèndi ‘nsèma a doi feumne.” Entant che ‘l diseva ste ròbe, ‘l s’è metù dinanzi. La Lùzia l’è deventada rossa; el veturìn l’à grignà sot còc’, vardàndo l’Agnese che nó l’à podèst far a men de far compagn; cando che ‘l frate ‘l s’è ‘nvià i s’è ‘movèsti tuti trei stàndoge dés passi ‘ndré. Le dòne alor le g’à domandà al veturìn chel che nó le eva bù l’ardiment de domandàrge al padre guardian, cì che l’era sta sióra. El veturìn l’à respondù: “La sióra le na móngia; ma nó l’è na móngia come tute le àutre. Nó l’è che ‘l sia la badéssa, e nancia la priora; anzi a chel che i dis l’è una de le pù zóne: ma la è nòbile; la só zènt, ani e ani ‘ndrè l’era conti che era nù da la Spagna, sichè de chei che ne comanda; l’è per chesto che i la clama sióra, per dìr che l’è na gran sióra; tut el paes i la clama con chel nòm, perché tuti i dis che ‘nte chel convent nó i à mai vìst na persona compagna; e i sòi de adès, zó a Milan, l’è zènt che conta tant e de chela che g’à sèmper resón; e cacì a Monza po’, ancia de pù, perché só pare si ben che nó l’àbitia ìo l’è ‘l prìm del paes; sichè ancia ela la pòl far àut e bas entel convènt; ancia la zènt de fòra la gé porta gran riguardo; cando che la se tòl a pèto calche òbligo i lo porta ‘nfin a la fìn; se chel bòn òm de frate ìo, l’è bòn de méterve ‘nle só man, che la vé azètia, pòdi dìrve che seo segùre come su l’autàr.” Cando che l’è sta arènt a l’àrc’ en prinzìpi a la borgada, che alor el g’eva de flanc’ en turión vècel antico, mèz en roìna, e da ‘n tòc’ de ciastelàz, ancia chesto na murògna, che forsi na desìna dei lezidori se ricorda ancor de averlo vìst en pè, el frate guardian el s’è fermà, ‘l s’è voutà per véder se nideva i àutri; po’ l’è nà ént e ‘l s’è ‘nvià vèrs el convent; arivà che l’era, ‘l s’è fermà su la sòlia e l’à spetà ‘l rèst del sclapét. L’à ‘mpregià ‘l veturìn che ‘nten par de ore el tornàs per aver na risposta: chesto l’à ‘mprometù, e l’à lagià ìo le doi feumne, che i l’à ‘mplenù de ringraziamenti e de saluti da portàrge al padre Tòfol. El guardian la fat nar ént mare e fiòla, entel prìm cortìu del convent, e pò enten le ciàmere de la fatóra; pò l’è nà da só pòsta a domandar la grazia. Dopo ‘n bel pèz, el s’è fat véder tut contènt, a dìrge che le ge nidés dré; e l’era ora perché fiòla e mare nó le era pù bone de destrigiàrse da ca fatóra che nó i la ruava pù de far domande. Entant che i traversava ‘l cortìu, el g’à fat ancor calche racomandazion a le done, su come comportàrse dinanzi a la sióra. L’à dit: “L’à và tòt en bòna voiàutre doi, e la pòl fàrve tant ben cant che la ‘n vòl. Vardà de èsser rispetose pù che podéo, rispondége con sinzerità a le domande che la vé farà, e cando che nó géo da parlar voi, lagiàme far a mì”. Le è nade dént ente na ciàmera a planterén, e da chesta se néva entel parlatòri: prima de nar ént, el guardian, fasèndo ségn a l’us, ‘l g’à dit a le feumne sota ós: “l’è cì,” come per tègnerge a ment tute che racomandazion. La Lùzia, che nó l’eva mai vìst en convent, cando che l’è stada entel parlatòri, la s’è vardàda ‘ntorna per véder endo che fus la sióra per fàrge n’inchino e nó vedèndo enzun l’era ìo ‘nciantada; cando che, vìst el padre e l’Agnese nar vèrs en ciantón, la vardà da ca banda e l’à vist na finestrèla ‘n pòc’ stramba fata con doi enferiade de fèr spesse, lontane una da l’àutra na carta; e da l’àutra man na móngia su drita ‘n pè. A véderla, la podeva aver vintizìnc’ ani, su le prime ‘mpareva na bèla feumna, ma la só beléza l’era ‘n pòc’ sbatuda, ormai sflorìda e scasi scasi desordenada. En vél néger, tacià e stirà su la testa, el ge crodàva zó da le bande, arcant lontan dal mus; sota ‘l vél, na strìsa de lìn biancissima, la gé fassava, fìn a ‘n mèz, en vis divèrs, ma del stes colór biancìssim. N’àutra benda a plége la gé zircondava ‘l mus e la ruava sota ‘l barbizzòl ente ‘n sotgola, che ‘l neva zó sul stómec’ per scuertar la scoladura de na tònegia negra. Però chel vis el se ‘nfizzava de spés, come se ge nidés ogni tant sfrizzóni de mal, e alor le doi sorazìlie negre le se svizinava con en moviment velòze. Doi òcli, negri ancia chei, i fissava a bòte el mus de le persone, come a voler studiarle con superbia; a bòte i se sbassava ‘n prèssa come per scònderse; en zèrti momenti un che osservava con atenzion, el podeva pensar che chei òcli i domandas afèto, pietà; però a bòte l’averòs vìst che sóta sóta i scondeva en grant òdio encialemà, vergota de paurós e de crudél: cando che chei òcli i restava fissi e senza mossàr interès perengot, calchedun l’averòs vist na zèrta lèrna orgoliosa, calchedun d’àuter l’averòs podèst véder el dolor per en brut pensier tegnù scònt, na preocupazion che l’era usada a avér e che l’era pù forta de chel che la vedéva entorn. Le gòute smòrte come ‘l lat le èra ancor fres-ce e bèle, ma le era ‘n pòc’ passade come per en tiramént. I làuri, ancia se i era apena apena ‘ncoloridi de ‘n color rosa sblào, i spiciava sul mus brólt: i mòti dei làuri i era come chei dei òcli, asvèlti, pléni de sentimént e de mistèro. La grandezza ben fata de la persona la scomparìva enten portamént trascurà, o la nidéva fòr sfigurada en zèrti mòti velòzi, fòr dal normale per na dòna e men che men per na móngia. Entel vestìr stes g’era cì e ìo vergòt de studià o de trascurà che i la feva na móngia pù unica che rara: la vesta l’era strénta en vita come che l’era la moda del tèmp e da la benda ge nidéva fòr, sora na tèmpla, en zufét de ciavéi negri; che l’era na roba che la dimostrava o che la s’era desmentegiada o che la disprezzava la regola che la comandava de tègnerli sèmper curti, da cando che i era stati taiadi ente la zerimònia solène de la consacrazion. Ma tute ste robe nó le ge feva engot a le doi feumne che nó le era usade a distinguer na suora da n’àutra: el padre guardian che nó l’era la prima bòta che ‘l vedeva la siora, l’era zà usà come tanti àutri, a chel tant de strambarìa che se vedeva enla só persona, come ‘nte le só maniere. Ente chel moment, come che en zà dit, la móngia la era drita ‘n pè dré la grada, con na man pozada debolment su chesta e i dedi blancissimi entortoladi ‘ntel rosàri; e la vardava fìs la Lùzia, che la nidéva inanzi con en pòc’ de respèt. “Reverènda madre, e siora lustrìssima,” dis el guardian, a testa bassa, e con la man sul stómec’: “chesta l’è ca pòra putèla che speri podégieo dàrge la vòssa protezion; e chesta l’è so mama.” La Lùzia e só mare le feva grant’inchini; la siora la g’à fat apéna ‘n segn con la man, che bastava ‘nzì, e l’à dis, voutàndose vèrs el padre: “l’è na fortuna per mì podér fàrge ‘n piazér ai nòssi bòni amìzi padri capucini. Ma, ‘l me spiegia en pòc’ pù ben el caso de sta putèla, per véder mèio chel che se pòl far per ela.” La Lùzia l’è deventada rossa e l’à sbassà la testa. “La deve savér, reverènda madre…” scomenziava via l’Agnese; ma ‘l guardian el g’à troncà, con n’oclada, le paròle ‘n bócia e l’à rispondù: “sta putèla, siora lustrissima, la me vèn racomandada, come che g’ài zà dit, da ‘n me confratèl. Sta poréta l’à cognèst partìr de scondión dal só paes, per sotrarse a gran perìcoi; e l’à giaveròs bisògn per calche tèmp, de ‘n pòsto ‘ndo che la pòdia vìver senza èsser cognossùda e ‘ndo che ‘nzun el pòdia pretènder de nir a disturbarla, ancia se…” “Che perìcoi, po'? l’à dis la siora. “Per piazér, padre guardian, nó ‘l me dìgia la ròba enten modo ‘nzì misterios. El sa ben che noiàutre mónge, ne plas sentìr le storie enfin ente le picolézze.” El guardian el dis: “L’è perìcoi che ‘nle récle nozènte de la reverenda madre i deve èsser apena apena nominadi…” “Oh, segùr,” la dis en prèssa la siora, deventando tuta rossa. Èrel innocenza? Cì che aves oservà na smòrfia de dispèt che la compagnava chel rossór, l’averòs podèst dubitar; tanto pù se i l’avès paragonà a chel che ogni tant se spandeva sul mus de la Lùzia. “Basterà dir,” dis el guardian, “che ‘n cavaliér spòdec’… mìgia tuti i siori de sto mondo i se serve de la grazia del Sioredio, a gloria sóa, a vantàzi dei àutri, come vossiorìa lustrissima: en cavaliér spòdec’, dopo aver tormentà per calche tèmp sta creatura con complimenti vergognosi, e visto che i era inutili, l’abù ‘l coràzo de perseghitarla sguaiatament con la forza, tant che sta pòra fiòla l’è stada ridota a s-ciampar da só ciasa.” “Nidé cì dausìn, ca putèla,” dis la siora a la Lùzia, fasèndoge segn col dé. “Mì sai che ‘l padre guardian l’è la verità ‘n persona; ma ‘nzun pòl saver pù ben de voi, de sto afare. Tocia a voi dìrne se sto cavaliér l’era ‘n persecutor odios.” Sul fato de nàrge dausì, la Lùzia l’à obedì sùbit; ma cant a risponder l’era n’àutra fazènda. Na domanda su che robe ìo, ancia se i ge l’aves fata na persona come ela, i l’averòs metuda enten respèt de chei: proferida da ca siora, e èstra con na zèrta aria maliziosa, l’à g’à tòt el coràzo de risponder. “Siora… madre… reverenda…” l’è stada bòna de bezgolar, e po' la deva segn de nó aver pù àuter da dir. E cì l’Agnese, come chela che, dopo de la Lùzia, l’era la pù ‘nformada, l’à credèst de podér dàrge n’aiùt. “Lustrissima siora,” la dis, “mì pòdi testimoniar che sta me fiòla la odiava chel cavaliér, come ‘l diàul e l’aca santa: vòi dir che ‘l diàul l’era el; ma la mé perdonerà se parli mal, perché noiàutri sen zènt a la bòna. El fato sta che sta pòra putèla l’era ‘mprometùda sposa a ‘n putèl dei nòssi, un che g’à ‘l timor de Dio, e l’è ben envià; e se ‘l sior curat el fus sta ‘n pòc’ pù n’òm de chei che me n’antendi mì… sai ben che parli de ‘n prèt, ma ‘l padre Tòfol, amìzi de sto padre guardian cì, l’è ancia el en religios al so par, però l’è n’òm plen de ciarità, e, se ‘l fus cì, el poròs testimoniar…” “Seo ben pronta a parlar senza èsser enterogada,” l’à troncà la siora, con en far supèrbo e ‘mpermalos, che scasi i l’à fata ‘mparér bruta. “Tasé voi: el sai ben che i parenti i g’à sèmper na risposta da dar a nòm dei só fiòi!” L’Agnese avelìda l’à g’à dat n’oclada a la Lùzia come per dìrge: védes ben chel che mé tócia far, perché tì ses ‘nzì ‘mpazzada. Ancia ‘l guardian el ge feva segn a la putèla, con oclade e scorlando la testa, che chel l’era ‘l moment de petàrse, e de nó lagiar entel strumi la pòra mare. “Reverènda siora,” la dis la Lùzia, “chel che v’à dit me mama l’è la pura verità. El putèl che me parlava,” e cì l’è deventada rossa come na brasa, “’l togévi mì de me volontà. La me scusia se parli da sfazzada, ma l’è per nó lagiar che la pensia mal de me mama. E cant a chel sior (che ‘l Sioredio i lo perdonia!) putòst che nàr sota le só sgrinfe voròssi morìr. E se ela la fés la ciarità de méterne al segùr, visto che sen costrete a far sta part de domandar en posto endo che star e a disturbar zènt dabèna; ma sia fat la volontà del Sioredio; ve segùri siora, che ‘nzun podrà pregiar per ela pù de còr che noi pòre dòne.” “A voi vé credi,” la dis la siora con na ós pù ‘ndolzìda. “Però g’averòssi piazer de sentìrve da vòssa posta. Nó l’è che g’abia bisògn de àutre spiegiazion, e nancia de àutri motivi, per contentar el padre guardian,” la g’à tacià sùbit, vardàndol, da benarlevada. “Anzi,” la dis, “g’ài zà pensà; e ve digi chel che me par de far de mèio per entant. La fatóra del convènt l’à maridà, pòci dì fa, l’ultima fiòla. Ste dòne le podrà nar enla ciamera che l’à lagià libera chesta, e far ele chei pòci mistéri che la feva. A dir la verità…” e l’à g’à fat ciapìr al padre guardian che ‘l se svizinas a la grada, e l’à dit sotaós: “a dir la verità, sicome l’è ani de magra, nó se pensava de far cambi con ca putèla; ma parlerai mì con la madre badessa, dón la mé parola… e per fàrge piazèr al padre guardian… Ensoma dón l’afare per fat.” El guardian el scomenziava a ringraziar, ma la siora ì l’à fat desméter: “nó ocór far tante zerimònie: ancia mì, enten caso, enten bisògn, tegneròssi da cont l’aiùt dei padri capucini. Ala fìn,” la dis ancor, en pòc’ scherzant e ‘n pòc’ fasendo sul serio, “a la fìn nó sente fradèi e sorèle noiàutri?” Dit enzì, l’à clamà na convèrsa, (doi de chéste, caso unico, le era al só servìsi privato) e la g’à ordenà de avertìr de chesto la badessa, e che la se metés d’acòrdi con la fatóra e con l’Agnese. Mandà via la conversa e ancia ‘l guardian l’è restada ìo con la Lùzia. El guardian l’à compagnà l’Agnese a la porta, dàndoge àutre istruzion, e po' l’è na a scrìver na litera per avisar el so amìzi Tòfol. — Gran testa fina, l’è sta siora! — el pensava ‘ntrà de el, per la strada: — unica dal bòn! Ma cì che è bòn de tòrla per el só vèrs, el ge fa far chel che ‘l vòl. El me amico Tòfol nó ‘l se l’anvederà de segùr che g’àbia trovà na soluzion sùbit e ben. Chel bon òm! Nó g’è remèdi: ge vòl che ‘l se tògia sèmper su calche òbligo; però i lo fa per el ben. Meio ‘nzì per el sta bòta, che l’à trovà n’amìzi, che senza far tant strèpit, senza mòver cissà cì o che, senza tante fazènde, l’à portà l’afare a la fìn, enten bàter d’òcel. El sarà contènt chel bòn Tòfol, e ‘l se nascorzerà che ancia noi cì sen boni a vergot. — La siora, che, ‘n presenza de ‘n pòer capuzìn, l’eva vardà ben de mesurar i ati e le parole, restada ìo da so posta con na putelòta contadina e prinzipiante, nó la steva pù ìo a tègnerse pù de tant; e i só discorsi i è deventadi en pòc’ al bòt enzì strambi, che, ‘nveze de dìrvei, sen de l’opunion che l’è mèio contàrve en pòce parole la storia che nideva prima de ca pòra disgraziada; chel tant che l’è assà per entènder tut chel che en vist de bislàc’ e misterios entel só far, e per ciapìr el perché del só modo de far per chel che è suzèst dopo. Chesta l’era l’ultima fiòla del prinzipe ***, grant nòbile milanes, che ‘l podeva èsser en la lista dei pù siori de la zità. Ma volèndo tègner ben àut el grant nòm che geva la só zenìa, ge pareva che le sostanze che ‘l geva l’e fus apena apena assà, anzì s-ciarse dal tut, a mantègner sto nòm; tut el só cruzzi l’era de mantegnerlo, almen enzì come che l’era, e per sèmper, per chel che dipendeva da el. La storia nó la ne dis canti fiòi che l’aves abù, ma la fa ‘ntender che tuti i fiòi nudi dopo ‘l prim, sia maszi che fèmine i l’à destinadi al convènt, tut per lagiar entrégia la sostanza al prim che l’era destinà a portar avanti la famìlia, cioè a far fiòi, per tormentàrse e tormentàrli ente la stessa maniera. La nòssa pòra disgraziada l’era ‘ncor sconduda ‘n la panza de so mare, che la só sòrt l’era zà stabilìda senza’àuter. Restava sol da dezìder se ‘l saròs sta ‘n frate o na móngia; e l’era na dezision che nó la geva de bisògn che la fus d’acòrdi, ma sol che la nides al mondo. Cando che l’è nata, el prinzipe so pare, l’à volèst dàrge ‘n nòm che ‘l fes nìr en ment sùbit l’idea del convent, e che ‘l fus el nòm portà da na santa de na familia de nobili, e i l’à clamada Gertrude. Bàmbole vestìde da suora l’è sta i primi zògi che i g’à dat en man; po' dopo santini de monge; e tuti chei regiài i era sèmper compagnadi da grant racomandazion de tègnerli da cont, come fus ròba unica e ciara e po' i domandava: “sì mò che bel?” Cando che ‘l prinzipe o la prinzipessa o ‘l prinzipìn che l’era l’unico maszo che nideva arlevà ‘n ciasa, i voleva lodar le bèle fatéze de la pòpina, nó i giatava àuter de mèio per dir ben la só idea che le parole: “che madre badessa!” Enzuni però i g’à mai dit dirèto: tì déves farte mongia. L’era n’idea che sota sota g’era sèmper, ente ogni discórs che ‘nteressàs el só destìn. Se calche bòt la Gertrudina la geva calche ciaprìz o che la feva vergot de dezìso, caso che ‘l suzedeva de spes per via del só caràtere, “tì sés na putelòta,” i ge diseva: “sti modi nó i fa per tì: cando che saràstus madre badessa, alor comanderàstus a bacéta, e faràstus àut e bas come che vòs.” Calche bòt el prinzipe, che ‘l ge brontolava per zèrti ati massa lìberi e senza respèt che ge suzedeva fazilment, el ge diseva: “ehi! ehi! chesto nó pòl farlo una come tì: se vòs che ‘n dì i te pòrtia el riguardo che te pervèn, empara sùbit a frenarte: ricòrdete che tì déves èsser ente ogni ròba la prima del convent; perché la siorarìa se la porta dapertut endo che se va.” Tute le parole de sto zènere l’è stampava ‘ntel zervèl de ca pòpa l’idea che ela la geva da èsser zà suora; e chele che nideva da la bocia de só pare le feva pù efèto de tute le àutre messe ‘nsèma. La condóta del prinzipe de sòlit l’era chela de ‘n padron severo; ma cando che se tratava de la strada che geva da zapàr só fiòi, dal só mus e da ogni parola se ciapìva che tut geva da èsser come che ‘l diséva el, sol el geva ‘l comando, perché su ca ròba ìo nó gera ‘ngot da discuter l’era nezessari far enzì. Compìdi sei ani, la Gertrude l’è stada metùda, per educazion ma ancor de pù per stradàrla a la vocazion che i geva destinà, entel convent endo che l’en vista: la sièlta del posto nó l’era stada fata a caso. El veturìn de le doi dòne l’eva dit che só pare de la siora l’era ‘l pù sior a Monza: e, metèndo ‘nsèma chesta e àutri segnài che ‘l scritòr, che nó en mai nominà, ‘l se lagia s-ciampar cì e ìo, noi poròssen ancia dir che l’era ‘l feodatàri de chel paes. Comunque sia chel che s’ vòl, el g’eva ‘n grandissim crèdit; e l’à pensà che ìo, mèio che autró, só fiòla la saròs stada tratada con che maniere zivilizade e con che fineze che le podéva far en modo che la se zernìs pròpri chel convent ìo e per star ìo per sèmper. E l’abù reson: la badessa e arcante àutre mónege afarìste, che le geva, come se dis, la glava ‘n man, le è stade contentóne ‘ntel véderse ofèrt la segurtà de na protezion che podeva nir bòna per ogni ocorènza, e tanto potente ente ogni moment; le à azetà la proposta, con tanto de moìne de ringraziament, senza esazeràr, ma putòst forte; e le è stade sùbit d’acordi con l’intenzion che eva fat ciapìr el prinzipe per la chestion che só fiòla la restas ìo per sèmper: intenzion che la neva benòn, auterchè, ancia per lore. La Gertrude, apena nada ‘ntel convent, i l’à clamada sùbit la signorina; posto separà aposta per ela su la tàula, e compagn ancia ‘ntel dormitòri; la só condóta sèmper presentada come esèmpi per tute le àutre; lovarìe e careze senza fìn, conzade con ca confidanza en pòc’ riguardosa che ge plas tant ai pòpi, cando che i la vét ‘nte chei che ai àutri pòpi, de sòlit, i dà sudizion. Nó l’è che tute le suore le fus d’acordi a tirar ca pòra pòpa ‘ntel laz; ge n’era tante de bòne monge e fòr da ogni intrìc’, e a cheste ‘l pensier de sacrificar na fiòla sol per interès l’averòs fat ribréz; però, tute intente dré a le só mansion, en pòce nó le se nascorzéva ben de tut che impocrisìe, zèrte nó le ciapìva nancia chel che podeva èsserge de ‘nzì ciatìo, zèrte le se refudava de pensàrge su, zèrte le steva zite, per nó far scàndoi perengot. Calcheduna ricordàndose de èsser stada portada anc’éla con ati compagni, a chel che dopo, col tèmp, la s’era pentida, e la geva compassion de ca pòra nozentìna, e la se consolava col fàrge moìne: ma chesta l’era ben lontana dal sospetar che ge fus sota vergot; e la fazènda la neva inanzi. E la saròss ancia nada avanti ‘nzì ‘nfìn a la fìn, se la Gertrude ‘l fus sta l’unica putèla ente chel convent. Però, ‘ntra le só compagne de educazion, ge n’era zèrte che le seva de èsser destinade a maridàrse. La Gertrudina, usada a aver l’idea de èsser sóra a tute, la parlava benissim del só destìn de badessa, de prinzipessa del convent, la voleva a tuti i costi èsser ‘nvidiada da le àutre; e la se feva maravéa e la se ‘nzispava se zèrte de che putelòte nó le mossava ‘nterès per el só destìn. A l’idea grandiosa de esser la prima ente chel convent, idea però confinada enter da chei muri, le àutre le ge oponéva vision varie e splendiènte, de nozze, de disnari, de bei discorsi, de gran feste, come che i diseva alor, de vizilature, de àbiti, de ciaròze. Ste idee entel zervèl de la Gertrude le g’à ciausà en moviment, en brigolament che faròs na gran zésta de fiori apena tòti su, e metùdi davanti a n’alvear. I parenti e le maestre i geva fat crésser ente ela la superbia, per fàrge plàser el convent; cando che però ca superbia l’è stada disturbada da idee autretant bèle, la s’è petada su chele e ancia con passion ancor pù fòrta e pù sclèta. Per nó èsser da men de le só compagne e ‘ntel stes moment per star al par col sentiment che l’era pù portada, la rispondeva che, ‘nfìn dei conti enzun podeva méterge ‘l vél su la testa senza che ela i lo volés, e che ancia ela la podeva maridàrse, abitar enten palàz, gòderse ‘l vìver del mondo, e mèio de tute lore; e chesto i lo podeva, purchè i l’avés volèst, che i lo voròs, che i lo voleva; e infati i lo voleva eccome. L’idea che prima de farse mongia fus nezessari ‘l só consènt, idea che, enfìn a chel moment l’era restada ìo senza avérla mai pensada, encuzzolada enten ciantón del so zervèl, l’è cressùda e la s’è palesada pròpi bèn e dal tut. Sto pensier i lo clamava ente ogni moment come aiut, per gòderse chièta i pensieri de la bela vita che geva da nìr. Dré a sta idea però, ge ‘n nideva ‘n ment sèmper n’àutra; che chel consènt se tratava de negiàrgel al prìnzipe só pare, consènt che l’era segùr de aver o almen el mossava de avérlo zà; e a sto pensier, l’umor de la fiòla l’era ben lontan da la segurezza che la mossava con le só parole. Alor la feva ‘l confront con le so compagne, che ‘nveze le era pù che segure, e la geva de cheste na grant invìdia che, ‘n prinzìpi, l’eva credèst de fàrge ela a lore. Sicome la geva invidia de lore, i le odiava: a bòte sto odio i lo mossava con dispèti, vilanade, parole che sponzeva; a bòte sicome i talènti e le speranze i era compagni per tute, l’òdio l’era de men, e alor ‘mpareva che ge fus pù confidenza ma che però la passava prést. A bòte, volendo ancia gòderse vergot de véro e presente, la se contentava de le preferènze che ge nideva permesse, e la feva sentìr a le àutre che ela la era sora; a bòte, nó podèndo pù tolerar de èsser da só pòsta con le só paure e i só desidèri, la neva a récle basse a zerciar le àutre e la feva ‘n modo de èsser benvoluda, de aver calche consilio e de calche parola che ge fes corazo. Entant entramèz a tute ste begòte, con ela e con le àutre, l’era deventada na signorina, e la se ‘nviava vèrs ca età putòst critica, n’ètà che cando che la se presenta, ‘mpar che te vègnia adòs na potènza misteriosa, che la te stiza, che la te guernìs, che la te rinforza tuti i tó talenti, tute le idee, e calche bòta i te le cambia, e le te fa nar vèrs vergot che nó éves mai emmazinà. Chel che pù de tut la Gertrude la seva ‘mmazinà fin cì de tuti chei desidèri del tèmp a nir, l’era ‘l splendor dal de fòr e ‘l lusso: vergota de tènder, de afezion, e che prima la sentìva e la vedeva apena apena, come fus na nebia, ma pò l’à scomenzià a èsser el prim pensier enle só fantasie. La seva fat ente ‘l ciantòn pù scònt de la só ment, come ‘n belìssim rifugio: e cì la se ‘ntanava s-ciampàndoge ai pensieri presenti, cacì la se inludeva de azetar zèrti personazi strambament metùdi ‘nsema con memorie confuse da pòpa, con chel pòc’ che l’eva podèst véder del mondo fòr dal convent, de chel che l’eva ‘mparà a sentìr i discorsi de le só compagne; e la se fermava con sti personazi, la parlava con lori, e la se rispondeva come fus lori a responder; po' la deva órdeni, e la zapava regiài de ogni sòrt. Ogni caltràt, ge nideva ‘n ment pensieri reliziosi, e i ge disturbava tute che feste slusènte e fadigose. Ma la relizion come che i ge l’eva ‘nsegnada a ca pòra putèla, e come che i l’eva ciapìda ela, nó la negiava l’orgòi, anzi i lo santificava e i lo proponeva come ‘n modo per aver na felizità su sta tera. Ma alor nó l’era pù relizion l’era n’idea come le àutre. Entei momenti che sta idea la togeva ‘l prìm posto, e la sgrandezava ‘nla fantasia de la Gertrude, la pòra disgraziada, sotomessa a tanti teróri, e convinta da na confusion de doveri, la se ‘mmazinava che ‘l só refudar el convent, e ‘l resìster al voler de la so familia, entel selier la so vita ‘l fus na colpa; e la ‘mprometeva ‘ntel so còr de scontarla, seràndose denter entel convent. L’era leze che na putèla nó la podés èsser azetada suora, prima che i l’aves esaminada ‘n prèt, che le monge le clamava el vicari, o da calchedun àuter destinà a far chesto, en modo che fus segùr che la neva de só libera sèlta: e sto esame nó ‘l podeva èsser fat se nó era passà almen n’an da cando che la putèla l’eva fat savér al vicari ‘l só desidèri, con na domanda scrìta. Che monge, che s’eva tòt su l’obligo de far en modo che la Gertrude la se obligias per sèmper, e fasèndoge savér de men che l’era possìbol de chel che la neva a far, le à zapà un de chei momenti che en dit per fàrge scriver e firmar na tal domanda. E col scopo de convìnzerla pù fazilment a far chesto, nó le à podèst far a men de dìrge e ripèterge che a la fìn l’era sol na sèmplize regola, che (e chesto l’era véra) nó la podeva aver valor, se nón da àutri ati seguenti, che saròs dipendùdi da la só volontà. Con tut chesto, la lìtera nó la era forsi ‘ncor arivada a destinazion, che la Gertrude le s'era zà pentìda de avera firmada. Po' la se pentìva de èsserse pentìda, e ‘nzì passava dì e mesi enten seghitar de sentimenti contrari. Per tant tèmp l’à tegnù scònt a le só compagne che la s’era pentìda, en pòc’ per la paura che sta sèlta i l’à giudicas na contradizion e ‘n pòc’ perchè la geva respèt a far véder che l’eva combinà ‘n spropòsit. A la fin à venzù ‘l desidèri de sfogiàrse, e de zerciar consilio e corazo. Gera n’àutra leze, e la comandava che na putèla nó la era azetada a chel’esame per la vocazion, se nó l’eva passà almen en mes fòr dal convent endo che l’era stada educada. Da cando che l’eva mandà la domanda era zà passà un an e la Gertrude l’è stada avertìda che da ìo a pòci dì i l’avròs tirada for dal convent e portada a só ciasa da só pare, per restar ìo per chel mes, e a far tute le ròbe nezesarie per ruar su l’opera che l’eva de fato scomenzià. El prinzipe e ‘l rèst de la famìlia i era convìnti che tut chesto l’era segur, come se ‘l fus ròba zà fata; ma la putèla la geva tut àuter per la testa: enveze de far i àutri passi, la pensava a come far per tirar endré ‘l prim. Ente ste misèrie, l’à dezìso de confidàrse con una de le só compagne, la pù sinzéra, e pronta a dar consili segùri. Sta cì, sicome nó ‘l se la sentìva de dìrge sul mus a só pare en bel: nó vòi, la consilià a la Gertrude de fàrge savér con na lìtera la só nòva sèlta. Ma a sto mondo, i consìli a gratis i è na rarità, la compagna che eva dat el consili, la g’à fat pagiar chesto a la Gertrude, con tanti coionamenti sul só èsser pròpri curta. La lìtera i l’eva combinada ‘nsèma càter o zìnc’ amiche, scrìta de scondión, e fata consegnar per via de ingiagni ben studiadi. La Gertrude la spetava na risposta che però nó l’è mai nuda. Se non che, arcanti dì dopo, la badessa, i l’à fata nìr enla só zèla e con far misteriós de ribréz e de compassion, la g’à fat entènder che ‘l prinzipe l’era enrabià come na bestia per en fal che la geva d’aver combinà, lagiàndoge però ciapìr che, se la se fus comportada ben la podeva sperar che se saròs desmentegià de tut. La putelòta la magnà la fòia e nó la fidà a domandar de pù. A la fìn è nù chel dì tant aspetà e sospirà. Ancia se la Gertrude la seva de nar vèrs na batàlia, ancia ‘l nar fòra dal convent, el lagiar ìo chei muri che dré de chei l’era stada òt ani serada via, el córer en ciaròzza fòr per la ciampagna, el véder de nòu la zità, la ciasa, l’era sta sensi pleni de grant felizità. Cant a la batàlia, la poréta, co la direzione che geva dat che càter o zìnc’ amiche, l’eva zà pensà a come comportarse, e fat come che se dis el só progèto. — O che i vorà sforzàrme, — la pensava, — e mì sarài testàrda; sarài ùmile, rispetosa, ma nó zederai: basta nó dir n’àuter sì; e mì nó ‘l dirài. O magiari i me torà con le bòne; e mì sarai pù bona de lori; planzerai, pregerai, me farai compatìr: a la fin nó pretèndi àuter de nó èsser sacrificada. — Ma, come che suzét de spes cando che se fa prevision del zènere, nó è suzèst né na ròba né l’àutra. Passava i dì senza che só pare e nancia i àutri i ge parlas de ca lìtera, e nancia de la só redìta, senza che ge nidès fata na proposta, né co le moìne né con le ciatìve. I parènti i era sèri, tristi, selvadegi con ela, ma senza mai dir el perché. Se vedeva sol che i la vardava de travèrs come una che g’à colpa, come na vergognosa: empareva che ge pesas sora na condàna misteriosa che i la separàva dal rèst de la só famìlia, ma che però, cando che ge voleva fàrge sentìr la sudizión, alora la tornava a far part de la famìlia. Pòce bòte, e sol a zèrte ore prezìse, la podeva èsser presente ‘n compagnia dei sòi e de só fradèl pù vècel. Tra de lori tréi empareva che regnas na gran confidènza, ma chesto nó ‘l feva àuter che rènder ancor pù vìu e pù doloros l’arbandon che pativa la Gertrude. Enzun che ge proferìs la paròla; e cando che ela la se riszava, tuta tìmida, a dir vergot, che nó ‘l fus na ròba nezessaria, o nó i la scoutava, o la se zapava na oclada distrata, o superba, o sevéra. Nó podèndo pù soportar na condizion enzì trista, la provava a insìster e a fàrse dént; se la sconzurava en pòc’ de amor, la se sentiva sùbit tociada, enten modo nebios ma sclèt, su ca chestion de la sèlta se farse mongia; sota sota i ge feva ancia ciapìr che ‘n modo per tornar a èsser benvolùda da la só famìlia el gera. Alor la Gertrude che nó l’averòs volèst ca condizion, la era costreta a tiràrse ‘ndré e scasi a refudar chei pòci segni de benvolér che l’eva desiderà ‘nzì tant, e de riméterse al so posto de scomunicada; e per de pù la restava ìo al so posto dando da véder de èsser da la banda del tòrt. I sentimenti de tuta ca situazion presènte, le era ‘l contrari doloros de tute le alégre fantasìe che la Gertrude la geva zà da tèmp, e che la geva ancora ades entel secrèt de la só testa. L’eva sperà che a ciasa de so pare, belissima e plena ‘n zènt, l’avròs podèst gòderse almen calche esèmpi fetìo de tute che ròbe ‘mmazinade; però la s’è ‘ngianada dal tut. La era serada via strénta e dal tut come ‘ntel convent; de nar a spas nó se ‘n parlava nancia; e ‘n ponteselòt che da só ciasa ‘l tréva drìt ente na glesia taciada, ‘l ge negiava l’unica ocasion nezessaria che ge saròs sta per nar fòr de ciasa. La compagnia la era pù trìsta, pù s-ciarsa, e sèmper chela che ‘ntel convent. Ogni bòt che i avisava che nideva zènt, la Gertrude la cognéva nar su a l’ultim piano, e restar ìo serada via con arcante dòne vècle che gera ìo a servìr: e ìo la disnava cando che gera ‘nvidadi a magnar. Tuti i servi i se comportava come che feva i padroni, con le stesse maniere e ancia ‘ntel parlar: e la Gertrude che per só caràtere l’avròs volèst tratarli con na confidanza da siori, e che, ‘ntela condizion che l’era, l’avròs abù ‘l dirìto che i ge fés calche compliment almen come ‘l fus una de lori, e a bòte la se sbassava ancia a supliciàrlo, dopo però la restava umiliada e sèmper pù dolorata de véderse tratada come una che nó conta ‘ngot, a parte ‘n pocetìn de rispèt chel tant che convenìva. Però la s’è acòrta che g’era ‘n giarzón, che nó l’era come tuti i àutri, che ‘l ge portava rispèt, e che per ela ‘l geva na compasion en pòc’ particolare. El comportament de chel putèl l’era chel che la Gertrude l’eva vist che ge ‘nsomiava de pù a tute le só fantasìe che la s’era ‘mmazinada, el comportament dei só personazi che la s’eva metù ‘n ment. En pòc’ al bòt è nù fòra vergot de nòu entei modi de far de la zovenòta: l’era pù chièta e tuta ca azitazion l’era divèrsa dal sòlit, en far che g’à cì che à trovà vergot che ge prèm, che la voròs véder ogni moment e però nó la vòl lagiàrlo véder ai àutri. I ge tegnìva i òcli adòs, i ge tendeva ancor de pù: che èl che nó èl, na doman, i la giatàda una de che cameriere entant che la plegiava na ciàrta de scondión, che l’era mèio se nó la ge scriveva su ‘ngot. Dopo ‘n pòc’ de tiramòla, la ciàrta l’è restada ‘nle man de la cameriera, e chesta i ge la portada sùbit al prìnzipe. El terór de la Gertrude, a sentìr i passi de só pare, nó se pòl dirlo né ‘mmazinàrsel: l’era chel pare severo, l’era rabiós, e ela la se sentiva gòba. Ma cando che i l’à vist nìr, con ca grinta, con ca ciarta ‘n man, l’avròs volèst èsser zènto metri sota tera, o ancia ‘nten convent. Le parole nó le è stade tante, ma tremende: el castìgo comandà per entant l’è sta chel de restar serada via ‘n ca ciamera, con ca feumna che i l’eva zapada con ca ciarta a far da guardia; ma chesto l’era sol per scomenziar, na punizion per chel moment; ma era dré a nìr, g’era ‘n l’aria, n’àuter brut castìgo, vergot che nó se seva, e per chesto ancor pù spaventos. El giarzón i l’à parà via sùbit, come che l’era da ‘nvédersela; e i l’à avisà che ge saròs ciapità ancia a el vergot de tremendo, se, en calunque modo, l’avés bù l’ardiment de dir ancia pòc’ de chel che era suzèst. Entel entimàrge chesto, el prìnzipe ‘l g’à postà doi sberlóni séci, che ‘nzì chel piazzarolàz el se saròs ricordà per sèmper e ge saròs passà la vòia de vantàrse. Na scusa calunque, per spiegiar la ciàusa del bonservì a ‘n giarzon nó l’era difìzil da trovarla; cant a só fiòla, i à dit che la steva pòc’ ben. Ela donca, l’è restada ìo col baticòr, plena de vergògna, col rimòrs, col terór del só destìn, e con ca feumna che la odiava a fàrge compagnìa, come testimòni del só pecià, e la ciàusa de la só disgrazia. Chestà, s-ciàmbi la odiava la Gertrude, perché la cognéva ridurse a fàrge la guardia, senza savér per cant tèmp, e per èsser deventada per sèmper custòde de ‘n secrèt pericolos. En pòc’ al bòt el prim tumulto confùs de chei sentimenti el s’èra calmà; ma dopo i pensieri, tornàndoge un al bòt en ment, i se sgrandìva e i ge restava ‘ntel zervèl a tormentarla e ancia con còmot. Che podével mai èsser po' ca punizion che i geva ‘mprometù? Ge ‘n nideva ‘n ment tante e de tute le sòrt en la fantasìa sfèrsa e novelìna de la Gertrude. Chel che ge ‘mpareva èsser el pù possìbol l’era che la saròs stada portada ‘ntel convent de Monza, però non pù come signorina, ma come una che l’eva fat en brut pecià mortal, e de restar dént ìo serada via, cissà ‘nfìn a cando! e cissà con che maltratamenti! Ma chel che ge brusava de pù en tuti chei dolori, forse l’era ‘l fastìdi de èsser na svergognada. Tute le parole e le virgole su ca ciarta danada, le ge passava e ripassava ‘nla só memoria: el se le ‘mmazinava lezùde e pesade da ‘n lezidor che nó ‘l se le saròs aspetade, da na persona divèrsa da chela che le era destinade; la se ‘mmazinava che le aves podèst nàrge ‘n man ancia a só mare o a só fradèl, o de cissà cì àutri: tut el rèst, a paragon de chesto ge ‘mpareva tut engot. Ge nideva ‘n ment de spes chel pòr òm che l’era stà la ciàusa de tut chel scandal e ancia chesto l’era ‘n pensier per la pòra presonéra: e l’è da pensar come che ‘l ge compariva chel spìrit, tra tuti i àutri sèri, frédi, che te sfidava. Ma apunto perché nó la podeva separar sto pensier dai àutri, e nancia tornar en dré a chei complimenti spressolènti, senza che ge nidés en ment i dolori presenti che i era pròpri la ciàusa de chei dolori, l’à scomenzià en pòc’ al bòt a pensàrge de men, a refudar de ricordar, a nó avérnen pù de bisògn. E nó la se fermava pù e volintera a far che fantasìe alegre de na bòta: che fantasìe le era pròpri ‘l contrari de la só vita presènte, e a chel che la podeva spetàrse per el tèmp a nir. L’unico ciastèl endo che la Gertrude la podeva emmazinar en posto chièt e dégn, che nó ‘l fus per aria, l’era ‘l convent, cando che l’avés dezìso de nar per sèmper. Na soluzion enzì (e nó la podeva dubitàrnen) l’averòs comodà ogni ròba, pagià ogni dèbit, e cambià ente n’àtimo la só situazion. Ma l’è vera, còntra sto pensier, ge nideva en ment chei sògni de tuta la só vita: ma i tempi i era ormai cambiadi; e, l’abìs endo che la Gertrude l’era crodada, la condizion de suora che tuti i ge feva festa e i ge ubidìva e i la riverìva, ge ‘mpareva na zirèla al confrónt de chel che la podeva tèmer ente zèrti momenti. Ogni tant ge nideva ‘n ment doi pensieri contrari un da l’àuter che i la aidàva a calmar ca antipatìa de farse mongia che la geva ‘n bòt: a colpi ‘l rimòrs del pecià che l’eva combinà e na gran divozion; a bòte l’orgòi en pòc’ trist e rabios per i modi de la só secondìna che (a dir la verità, de spes, zaigiada pròpri da ela) la se vendicava, a bòte fasèndoge paura con chel castìgo che i geva ‘mprometù, a bòte svergognandola per l’eror che l’eva fat. Cando po' che la voleva mossàrse moslìna, la parlava con en tono de protezion che l’era ancor pù odios de l’ofésa. Ente tute che ocasion divèrse, el desidèri che geva la Gertrude l’era chel de fàrse véder che la era sora a la só rabia e a la só pietà, e sto desidèri che la geva de sèito el deventava pù vìu e pù fòrt da fàrge ‘mparér che ogni azion per contentar chel desidèri, l’era la pù bela. Passadi càter o zìnc’ dì, che nó ruava pù, da presonéra, na doman, la Gertrude stufa e rabiosa fòr de mesura, per un de chei dispèti che geva fat la só guardia, l’è nada a ficiarse enten ciantón de la ciamera, e ìo, col mus scondù tra le man, l’è restada ferma per en pèz a fàrsela passar. Alor l’à sentù ‘l bisògn fòrt de véder àutre fazze, de sentìr àutre parole, de èsser tratada ente n’àuter modo. L’à pensà a só pare, a la só famìlia: ma ‘l pensier i la spaventava. Però g’è nù ‘n ment che dipendeva pròpri da ela de véder ente lori che che podeva aidarla; e sùbit l’è deventada alégra. Dré a chesto, na confusion e ‘n gran pentiment per el só eror, e ‘n autertant gran desidèri de scanzelàrlo. Nó l’è che la só volontà la se fermas ìo a chel proponiment, ma mai l’era stada ‘nzì ‘ntenzionada. L’è levada su da ‘ndo che l’era, l’è nada sul taulìn, la tòt en man ca péna e la g’à scrìt a só pare na lìtera pléna de passion, de avelizion e de speranza, sconzurando ‘l perdon, e mossàndose pronta per sèmper a tut chel che podéva plàserge a cì che doveva perdonarla. “Come!” disse il principe: “v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia.” Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda. Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentr’era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: “perdono!” Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo nè chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacchè a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sè. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei... “Ah sì!” esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea. “Ah! lo capite anche voi,” riprese incontanente il principe. “Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perchè l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura.” Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: “la principessa e il principino subito.” E seguitò poi con Gertrude: “voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.” A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente. Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, “ecco,” disse, “la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta...” A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: “che è risoluta di prendere il velo.” “Brava! bene!” esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno. “Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa,” disse il principe. “Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi.... perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria. ” “Andiamo pure,” disse la principessa. “Vo a dar gli ordini,” disse il principino. “Ma...” proferì sommessamente Gertrude. “Piano, piano,” riprese il principe: “lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?” “Domani,” rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo. “Domani,” disse solennemente il principe: “ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l’esame.” Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni. In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a sè stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L’occupazioni si succedevano senza interruzione, s’incastravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione. La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: “ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.” Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sè: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello. “Finalmente,” disse il principe, “ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.” Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente. Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere. “Come!” disse il principe: “v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia.” Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere. La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perchè, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perchè si preparasse per la gita di Monza. “Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perchè, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perchè s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorchè per il signor principe. Ma, un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perchè mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.” All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile. Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: “orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano...” È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. “V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi." Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripetè più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla. “ Son qui..., ” cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c’è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: “ son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente. ” La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, “signor principe, disse: “per ubbidire alle regole...... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è obbligata d’avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà...” “Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto... Ma lei non può dubitare...” “Oh! pensi, signor principe,... ho parlato per obbligo preciso,... del resto...” “Certo, certo, madre badessa.” Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale. “Oh via,” disse il principe: “Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza.” Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì. Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sè stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sè stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talchè, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, potè chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta. Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; affinchè le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. “Bisognerà pensare a una madrina,” disse il principe: “perchè domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri.” Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: “ci sarebbe...” Ma il principe interruppe: “No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benchè l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei.” E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: “ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.” Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. “Ottima scelta,” disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi. Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. “Orsù, figliuola,” le disse: “finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perchè e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi... che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e...” Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: “via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto.” E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto. L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perchè così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta. Dopo i primi complimenti, “signorina,” le disse, “io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.” “Dica pure,” rispose Gertrude. Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. “Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo. ” La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia... L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. “Mi fo monaca,” disse, nascondendo il suo turbamento, “mi fo monaca, di mio genio, liberamente.” “Da quanto tempo le è nato codesto pensiero?” domandò ancora il buon prete. “L’ho sempre avuto,” rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro sé stessa. “Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?” Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. “Il motivo,” disse, “è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.” “Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora...” “No, no,” rispose precipitosamente Gertrude: “la cagione è quella che le ho detto.” Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò. Attraversando le sale per uscire, s’abbattè nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano. Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichío e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a sè stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva amaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè, e fu monaca per sempre. È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sè di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni. La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perchè il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle. Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, sentendosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l’alghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto. Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia: contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse. Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose. In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora. Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perchè nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perchè scappò detto a una suora: “s’è rifugiata in Olanda di sicuro, ” si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; nè c’era cosa da cui s’astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai! Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non potè fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena potè trovarsi sola con la madre, se n’aprì con lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. “Non te ne far maraviglia," disse: “quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai. ” Il desiderio d’obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell’animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era aggiunta anche la stizza d’essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui stava attendendo l’esito della sua scellerata spedizione.
G’è momenti che ‘l naturàl, spezialment chel dei zóni, l’è metù ‘nten modo che a bàter apena ‘n pòc’ l’è assà per otègner ogni ròba che l’empària vergota de bèn e de sacrefìzi: come ‘n fior apena spanì, el se pòza mòlo mòlo sul só cólm débol, pronto a far sentìr el só profumo ala prima ariéta ìo ‘ntorna che i lo scorlas. Enchéi momenti, che ge voròs tuti rispetar, l’è pròpri chei che i furbi ‘nteressadi i aspeta per profitàrnen sùbit de calchedun che se fida, per fàrse ‘mprométer chel che se vòl. A lézer ca lìtera, el prìnzipe *** la vìst sùbit l’ocasion bòna per arivar al so vèzo scòpo che l’eva sèmper bù. L’à mandà a dir a la Gertrude che la nidés da el; entant che i la spetava, el s’è preparà a bàter el fèr entant che l’era ciàut. La Gertrude la s’è fata véder, e senza fidar a auzzàr i òcli vèrs só pare, la s’è petada sùbit davanti ‘n zinoclón, e l’àbù sol el flà per dir: “perdón!” Só pare ‘l g’à fat ségn de levàr su ‘n pè; ma, con na ós che nó l’era pròpri chela da far coràzo, el g’à rispondù che ‘l perdón nó l’era assà volérlo e nancia domandàrlo; perché l’era na ròba massa fàzile e ‘nfin massa palesàda a calunque che fus stà trovà ‘n colpa, e che ‘l giavés paura de na punizion; che ‘nsoma ge voléva meritàrsel. Alor la Gertrude la g’à domandà chel che la geva da far con en fìl de ós e tuta tremolènta. El prìnzipe (ente sto moment nó l’è ‘l caso de dàrge del pare) nó l’à respondù diretament, ma l’à scomenzià a parlar e tègnerla lòngia su l’eror che eva fat la Gertrude: e che paròle l’è beciava ‘ntel naturàl de ca pòra putèla, come ‘l passar con na man sgróvia sóra na ferìda. Pò ‘l g’à dit ancor che, ancia se… caso mai… che l’avés bù prima calche intenzion de nó mandarla ‘ntel convent, ela stessa adès l’eva metù ‘n bastón tra le ròde e che nó se podéva pù tornar endré; perché a ‘n cavalier col só onor, come che l’era el, nó l’averòs mai bù ‘l corazo de dàrge a ‘n gialantòm na signorina che l’eva mossà de èsser chel che l’eva fat ela. La pòra putèla l’era come sghizzada: alora ‘l prìnzipe, endolzèndo en pòc’ al bòt la ós e le parole, ‘l g’à dit che però a ogni eror g’era remèdi e misericordia; e che ‘l sò l’era un de chei peciadi che ‘l remèdi l’era pù nezessari: che ela la geva da ciapìr, che con sta rogna maledéta, la só vita fòr dal convent l’era per ela massa pléna de perìcoi. “Ah sì, sì!” la dis la Gertrude, azitada dal timor, preparada a la vergogna, e portada ‘nchel moment a na penitènza ‘mprovisa. “Ah! El ciapìo ancia voi,” dis el prìnzipe senza spetar nancia n’àtimo. “Bòn, che nó se pàrlia pù de chel che è passà: tut è scanzelà. Eo sièlto la strada pù dégna e chela che vé convièn de pù, nó ge n’è àutre; sicome che l’eo tòta de bòna vòia e con bòne maniere, tócia a mì fàrvela deventàr azetada en tut e per tut: tócia a mì far en modo che tute l vantàzi e tute l mèrit el sia vòs. Ge pensi mì.” Disèndo ‘nzì l’à scorlà ‘n ciampanèl che l’era sul taulìn, e al servo che era nù ént ‘l g’à dit: “la prinzipessa e ‘l prinzipìn sùbit.” E pò a la Gertrude: “vòi fàrge savér sùbit ancia a lori la me sodisfazion; vòi che tuti i scomenzia sùbit a tratarve come che se convièn. Eo provà chel che vòl dir en pare sevéro; ma da cì inanzi proveréo en pare che ve vòl ben.” Al sentìr ste parole la Gertrude l’era restada ìo come sbalordìda. Adès la pensava come mai che a dìr chel sì che g’era s-ciampà, l’aves podèst volér dir enzì tant, adès la vardava se g’era ‘n modo per tornar endré, o almen per scurtàrgen en pòc’ el valor; ma la segurezza del prìnzipe la ‘mpareva ‘nzì convìnta, la só contentézza ‘nzì fòrta, e da cheste la só bontà, che la Gertrude nó l’abù l’ardiment de proferìr na parola che la podés rovinar su tut. Dopo ‘n pezzòt, è arivà i doi che era sta clamà, e vedèndo ìo la Gertrude, i l’à vardada ‘ntel mus, ‘ntel dùbi e pléni ‘n maravéa. Ma’l prìnzipe, con en far contentón e con amor, che ‘l voleva fus ancia ‘l modo de lori, ‘l dis: “eco, la pégora che s’era pèrs: ma adès basta, che nó se pàrlia pù de chel che è sta. Eco cì la consolazion de la nòssa familia. La Gertrude nó la g’à pù bisògn de consìli; chel che noi voléven per el só bèn, i l’à volèst ela de só volontà. L’è convìnta, la m’à fat entènder che l’è convìnta…” A sto punto, la Gertrude l’à levà su i òcli a vardar só pare con n’oclada tra ‘l terorizà e per supliciarlo che l’amplantas ìo, ma el l’è nà avanti ancor pù sinzéro: “che l’è convìnta de nar mongia.” “Oh brava! Bèn, bèn!” i à sclamà tuti doi ensèma mare e fiòl, e un dopo l’àuter i à brazzà la Gertrude; chesta la tòt tute ste afezion e la planzeva, e tuti i pensava che fus lagrime de consolazion. Alor el prìnzipe ‘l s’è preocupà a spiegiar chel che ‘l faròs per far en modo che la sòrt de só fiòla la fus alegra e belissima. L’à parlà de fato che ‘ntel convent e ‘ntel paes, l’avròs godèst de ‘n tratament da siora; che dent ìo la saròs stada come na prinzipessa, come una de la familia; che, apena l’aves bù l’età la saròs passada sùbit a la prima dignità; e ‘ntant la saròs stada con en grado pù bas, ma sol de nom. La prinzipessa e ‘l prinzipìn i seitava ogni moment a fàrge congratulazion e bàterge le man: la Gertrude ge ‘mpareva de far en brut ensògni. “Ge vorà po' dezìder el dì per nar a Monza a far la domanda a la badéssa,” dis el prìnzipe. “La sarà contenta! Mì sai che tut el convènt el sarà onorà de aver la Gertrude. Anzi… perché po' nó nén ancor ‘ncòi? La Gertrude la zaperà volintéra ‘n pòc’ de aria bòna.” “Ma sì, dai che nen,” dis la prinzipessa. “Mì vón a dar i ordeni,” dis el prinzipìn. “Ma…” dis scasi sota ós la Gertrude. “Plan, plan,” dis el prìnzipe: “lagiàntege dezìder a ela: forsi ‘ncòi nó la se sènt assà pronta, forsi ge plaseròs de pù spetar enfìn a doman. Disé: voleo che néntie ‘ncòi o doman?” “Doman,” à respondù con na ós bólsa la Gertrude, che ge pareva ‘ncor de arivar a far vergot, a tardivar ancor en pòc’ de tèmp. “Doman,” dis seriamente l prìnzipe: “l’à dezìso che se vàgia doman. Entant mì vón dal vicari de le mónge, a méterme d’acòrdi per el dì de l’esame.” Dit e fat, el prìnzipe l’è partì e l’è nà dalbòn (che nó l’è pròpri na ròba da ‘ngot fàrse véder ‘nzì umile con un che l’era de men de el) da chel vicari; e i è nadi d’acòrdi che la saròs nuda da ìo a doi dì. Per tut el rèst de ca zornada, la Gertrude nó l’à bù ‘n minùt de paze. L’averòs volèst volintera far poussar la testa da tute che emozion, lagiar, per dir enzì, sclarìr i pensieri, pensàrge su a chel che l’eva fat, de chel che ge restava da far, savér chel che pròpri la voléva, anserar en pòc’ chel ciar che, apena ‘nvià, el néva a fèri moladi; ma nó g’è sta vèrs. El da far l’era de sèito, senza mai desméter, e le ròbe le se ‘ncastrava una con l’àutra. Sùbit dopo che era partì ‘l prìnzipe, i l’eva portada ‘ntel ciamerìn de la prinzipessa, ‘ndo che, sóta la só direzion, la só cameriera i l’à petenada e vestìda. Nó le eva ancor ruà de vestìrla e de fàrge le ultime petenade, che le è stade avisade che era tut pronto a tàula. La Gertude l’è passada ‘n mèz a le svérgle de tuti i servi, che i féva per congratulàrse per èsser varìda, e l’à giatà ancia arcanti parènti pù strénti, che i era stadi ‘nvidadi ‘n prèssa, per fàrge onor, e per fàrge i complimenti per doi bèle nòve, la salute che l’era tornada e la sièlta de la só vocazion. La sposina (enzì le se clamava le putelòte che voleva nar suora, e la Gertrude, come che la s’èra fata véder, i l’à saludada tuti con chel nom), la sposina l’abù da far a dir e a risponder ai complimenti che ge nidéva da tute le bande. E la séva benón che tute che risposte che la déva le era come dir che la azetava e le deva valor la só sièlta; ma, come podévela far po' a risponder diferènt? Dopo ‘n pezzòt finì de magnar, è nù ora de la spassezada. La Gertude l’è montada su la ciaròzza con só mare, e con doi só zii che g’era a disnàr. Dopo ‘l sòlit zìro, i è nadi vèrs Porta Venezia su la strada Marina, che alór la traversava ‘l terén che adès l’è ‘n zardìn del comun, e l’era ‘l pòsto ‘ndo che i sióri i néva ‘n ciaròzza a poussàr dopo tute le strussiàde de la zornada. Sti zii i parlava ancia a la Gertrude, come che convenìva ‘nchel dì: un de chesti, che ‘mpareva che ‘l cognossés, pù che l’àuter, ogni un che i ancontrava, ogni ciaròzza, ogni divisa, e ‘l geva vergot da dìr per tuti, al siór tale a la sióra tal’àutra, e tut de cólp el s’è voutà vèrs de ela e ‘l g’à dit: “ah furbéta! Voi ge déo na peada a tute ste picoléze; seo na dritóna voi; ne ‘mplantào cì, noi pòra zént, enle rògne, e neo a far na vita beata, neo en paradìs en ciaròzza.” Sul tardi, i è tornadi a ciasa; e i servi, nidèndo zó ‘n prèssa con le tòrze, i à avertì che g’era ‘n mùcel de visite che le spetava. Era nà fòr la ós; e i parènti e i amìzi i nideva a far el só dovér. I è nadi tuti ‘nla saléta. La sposina l’era ‘l dio ‘n tèra, la matéria, la vìtima. Tuti i la voléva per sé stessi: cì che se féva ‘mprométer dolzi, cì che ge ‘mprometeva visite ‘ntel convent, cì che ge parlava de la madre só parènta, cì de la madre tal àutra che la cognosséva, cì che ringraziava ‘l ziel de Monza, cì che discoreva con passion, de la gran fegura che l’avròs fat ìo. Zèrti àutri, che nó i eva podèst ‘ncor svizinàrse a la Gertrude che l’era assediada, i spiava l’ocasion per fàrse avanti, e i geva ‘n zèrto rimòrs, enfìn che nó i fus stadi bòni de far el só dovér. En pòc’ al bòt tuta ca compagnìa la è sparìda; tuti i è ciaminadi senza rimòrs, e la Gertrude l’è restada ìo da só posta con i sói e só fradèl. “A la fìn,” dis el prìnzipe, “ài bù la consolazion de véder me fiòla tratada come che la se mèrita. Ge vòl però dir che ancia ela la s’è comportada pròpri benón, e l’à fat véder che nó la sarà ‘mpazzada a far bèla fegura e a sostègner el nòm de la famìlia.” I à zenà putòst en prèssa, per podér nar a butàrse zó sùbit, per èsser pronti prést el dì dré. La Gertrude trista, ‘nzispada e, ‘ntel stes tèmp, en pòc’ parada su da tuti chei complimenti, la s’è ricordada ‘nchel moment, chel che l’eva patì con la só guardiana ‘ntel convent; e, vedèndo só pare ‘nzì propènso a contentàrla ente tut, fòr che ‘nte na ròba, l’à volèst profitar adès che l’era al colm de le só simpatìe, per chietar almen una de le passion che la tormentava. L’à fat ciapìr el grant ribréz che la geva a giatàrse ancor con ca strìa, lamentàndose de le só maniere. “Come!” dis el prìnzipe: “la v’à disprezzà chesta! Doman, doman, ge ‘l dón bèn mì l’òrz. Lagiàme far a mì, che ge fon savér cì che l’è ela e cì che seo voi. E at ogni modo, na fiòla che de chesta son content, nó la g’à d’aver entorna na persona che ge desplas.” Dit enzì, l’à fat clamar n’àutra dòna, e ‘l g’à dit de stàrge dré a la Gertrude; che ‘ntant, ziaciando e gustando la sodisfazion che l’eva gadagnà, nó la ciapìva perché nó la ge giatava tant sugo, come chel che l’eva provà entel desideràrla. Chel che, ancia se ge desplaseva, zapàva de pù la Gertrude l’era ‘l sentiment de tuti i passi inanzi che l’eva fat, ente chel dì su la strada per el convent, e l’era ‘l pensier che a tiràrse ‘ndré adès ge voléva pù forza e dezision de chela che saròs bastà pòci dì prima, ma che però nó ‘l se l’era sentuda de aver. La feumna che era nà a compagnarla ‘n ciamera, l’era na vècla de ciasa, che l’era stada la chiznér del prinzipìn, che l’eva tòt apena nù fòr dal panzèl, e che l’eva tirà su ‘nfìn che l’era ‘n putelòt, e i lo geva ‘nla panza, per el la stravedeva, e ‘nte chel putèl la sperava de aver la só gloria. La era contenta de la sièlta fata ‘nchel dì, come se fus na fortuna soa; e la Gertrude, la cognèst mandàr zó per ùltim ancia le congratulazion, le lode e i consili de ca vècla, e sentìr parlar de zèrte só zie e prozie che le s’era trovade pròpri ben a nar monge, perché, essèndo de ca zenìa ìo, le eva sèmper godèst de tuti i onori, le eva sèmper savèst tègner na zatèla de fòr, e, dal só parlatòri, le eva sèmper otegnù ròbe che le pù gran sióre, ente le só saléte, nó le era stade bòne de avér. La g’à parlà de le visite che l’avròs rizevù: en dì po', saròs nù ‘l siór prinzipìn con la só sposa, che geva da èsser segùr na gran siorazza; e alor, tut el paes el saròs sta ‘n moviment, e nó sol el convent. La vècla l’eva parlà ‘ntant che la ge aidava a la Gertude a tiràrse fòr, cando che l’era ‘ntel lèt; la parlava ‘ncor cando che la Gertrude la dormìva. La zoventù e la fadìgia le era stade pù forte dei pensieri. El dormìr l’era sta ansios, tórbol, plen de ‘nsògni dolorosi, ma l’è sta rót sol dal zigiament de la vècla, che era nù a desdromenzàrla, perché la se preparas per el viazét a Monza. “Dai che nen, dai che nen, sióra sposina: l’è dì àuta; e da cì che sìeo vestìda e petenada, va via almen n’ora. La sióra prinzipessa l’è dré a vestìrse; e i l’à desdromenzada càter ore prima del sòlit. El siór prinzipìn l’è zà nà zó ‘nla stala, po' l’è tornà su, e l’è pronto a partìr cando che l’è ora. L’è asvèlto come ‘n léver, chel desìpol: ma! L’è sèmper sta ‘nzì fìn da pòpo; e mì pòdi dirlo, che l’ài portà a òle bidòle. Ma cando che l’è pronto, nó ge vòl farlo spetar perché, ancia se l’è ‘n tòc’ de pan, el deventa nervós e ‘l tacia a sbraitar. Porét! ge vòl compatìrlo, l’è ’l só natural; e po' sto bòt el giaveròs ancia ‘n pòc’ de reson, el se disturba per ela. Guai cì che lo tòcia enchei momenti! nó ‘l varda ‘n fazza a ‘nzun, men che ‘l prìnzipe. Ma, ‘n dì, ‘l prìnzipe ‘l sarà el; pù tardi che l’è possìbol, però. Movéve, movéve, signorina! Perché po' la me varda ‘nciantada? A st’ora la doròss èsser fòr da la bèna.” A nìrge ‘n ment el prinzipìn nervos, tuti i àutri pensieri che geva ‘mplenù la testa a la Gertrude apena sveglada, i s’è levadi sùbit, come na sclapa de pàsseri cando che vèn l’agolìn. L’à ubidì e la s’è vestìda ‘n pressa, la s’è lagiada petenar, e la s’è fata véder en la sala, ‘ndo che i sòi e só fradèl i la spetava. I la fata sentàrse zó su ‘nte na poltronata e i g’à portà na chìchera de ciocolata: che a chei tempi voleva dir deventar grandi. Cando che i è nudi a dìr che i ciavài i era zà taciadi sota, ‘l prìnzipe l’à tirà la fiòla da na banda, e 'l g’à dit: “coràzo, Gertrude, ieri ve seo fata onor: ancòi cognerèo èsser ancor pù brava. Se trata de fàrve véder come se deve entel convent e ‘ntel paes endo che seo destinada a far la pù bela fegura.” “I ve spèta…” Nó ocór dir che ‘l prìnzipe, ‘l dì prima, l’eva spedì n’avìso a la badessa. “I ve spèta, e tuti i giaverà òcli sol per voi. Decòr e segurezza. La badessa la ve domanderà chel che voléo: l’è na regola. Podéo respònder che domandào de èsser azetada a vestìr l’àbit enchel convent, endo che seo stada educada con tant amor, endo che eo godèst de tante premure: che l’è la pura verità. Disége ste pòce parole, con en far segur: che nó i pensia che i v’à metù le paròle ‘n bócia, che nó seo bòna de parlar con le vòsse parole. Che bòne monge nó le sa ‘ngot de chel che è suzèst: l’è ‘n secrèt che ‘l g’à da restar sepolì ‘nla nòssa famìlia; sichè nó ste a far en mus trìst e dubios, che nó ‘l pòdia dar calche sospèt. Fé véder de che stòfa che seo: manierosa, umile; ma ricordàve che ‘nchel posto, fòr da la famìlia, nó ge sarà ‘nzun sora de voi.” Senza spetar la risposta, ‘l prìnzipe ‘l s’è ‘nvià; la Gertrude, la prinzipessa e il prinzipìn i g’è nadi dré; i è nadi zó per le s-ciale, e i è montadi su la ciaròzza. Le rògne e i fastìdi del mondo, e la vita beata del convent, spezialment per le putèle nòbilìssime, l’è sta ‘l sugo de le zàcole, entel tèmp del viaz. Cando che i era prést arivadi, ‘l prìnzipe ‘l g’à ripetù le istruzion a la fiòla, e ‘l g’à tornà a dir ancora ‘n bòt chel che la geva da risponder. Entel nar ent enla zità de Monza, la Gertrude la s’è sentùda strénzer el còr; ma la só atenzion l’era nada per n’àtimo vèrs nó se sa che nobili che, fermà la ciaròzza, i g’eva fat nó la seva nancia ela che compliment. Po' i à seghità per la strada dirèti al convent, che tuti i li vardava curiosi, corèndo da tute doi le man de la strada. Come che s’è fermà la ciaròzza, davanti a chei muri, dinanzi a ca pòrta, el còr de la Gertrude l’à zapà n’àutra struciada. I è desmontadi tra na fóla de zènt che i servi i vardava de far star endré. Tuti chei òcli pozadi su ca pòra putèla, i la obligiava a star atènta ala só condóta: ma i òcli che pù de tut ge deva sudizion l’era chei de só pare, che ela, ancia se i ge feva na gran paura, la vardava sèmper ente ogni moment. Chei òcli i comandava la só andadura e ‘l so vis, come doi rédene che nó se vedeva. Traversà ‘l prìm cortìu, i è nadi ent ente n’àuter, e ìo se à vist la porta del convent de ènt, spalancada e tuta ocupada da le mónege. Enla prima fila, la badessa con chele pù veclòte; de dré, le àutre suore metude a caso, zèrte su le ponte dei pèi; de dré dal tut le convèrse drìte ‘n pè sora a le bancéte. Cì e ìo se vedeva ancia slampezar a mezària calche oclét tra le tònege; l’era chei de le pù drite e pù corazose tra le scolare, che, ficiàndose tra mongia e mongia, le era stade bòne de farse largo per podér véder ancia lore vergota. Da ca fóla se sentiva calche prezament; se vedéva tanti brazzi che se azitava, en segn de ben azèto e de contenteza. Po' i è arivadi a la porta; la Gertrude la s’è trovada a càter òcli con la madre badessa. Chesta, dopo i primi complimenti, con en modo tra l’aléger e ‘l sèrio, la g’à domandà chel che la volés ìo ‘nchel convent, endo che nó gera ‘nzun che podés negiàrge vergot. “Son cì…” à scomenzià la Getrude; ma sul punto de proferìr le parole che le doveva dezìder scasi per sèmper del só destìn, per n’àtimo l’à bazilà, e l’è restada coi òcli fissi su ca fóla che la geva dinanzi. L’à vist, ente chel moment, una de che só compagne, che i la vardava con n’aria de compassion e ‘nsèma de malìzia, e ‘mpareva che la ge disés: ah! la g’è crodada, ca furba. A véder chesto, tornàndoge ancor pù vivi tuti i só vècli sentimenti, gè nù ancia chel pòc’ de corazo da ‘n bòt: l’era zà dré a zerciar na risposta calunque, diferènta da chela che la s’eva parezzà, però, auzzà che l’eva i òcli a vardar so pare, scasi per véder se la geva la fòrza, l’à vist sul só mus en nervosismo ‘nzì sèrio, na prèssa ‘nzì paurosa, che, dezìsa da la paura, con la stessa velozità che l’avròs bù a s-ciampar da na ròba tremenda, l’à dit: “son cì a domandar de èsser tòta per deventar suora, ente sto convent, endo che son stada arlevada con amor.” La badessa la g’à respondù, che le regole nó le ge permeteva de dàrge na risposta sùbit per sùbit, perché la dovéva èsser dezìsa da tute le suore, e sèmper che i superiori i avés dat el permés. Risposta che la Gertrude, cognossèndo i sentimenti che i geva per ela ‘nchel posto, la podeva de segur endovinar cala che l’era; e che ‘ntant nó gera regole che ge proibìva a la badessa e ale àutre mónege de far véder la gran sodisfazion che le sentìva per ca domanda. Alora è scomenzià ‘n gran rebalton de congratulazion, e de aplausi . Sùbit s’à vist gran vassoi colmi de dolzi, che prìma i g’à esebì a la sposina, e po' dopo ai parenti. Entant che arcante mónege le feva per robàrsela, e àutre le se complimentava con só mama, e àutre col prinzipìn, la badessa la fat nir el prìnzipe a la grada del parlatòri, endo che i lo spetava. La era ‘nsèma a doi suore pù vècle; e cando i l’à vist nir, la dis: “siór prìnzipe, per èsser en regola… per far le ròbe come che le g’à da nar fate… ancia se ‘nte sto caso… cògni pròpri fàrge savér… che, ogni bòta che na fiòla la domanda de èsser tòta a vestìr l’àbit,… la superióra, che saròssi mì, ancia se nó me ‘l meriteròssi,… l’è obligiada a avertìr i zenitori… che se, per caso… i avès sforzà la volontà de la fiòla, i naròs encòntra a la scomunica. El me scuserà…” “Benón benón, reverènda madre. Lòdi ‘l só scrùpol: l’è pròpri zusto… Ma ela nó la stàgia a dubitàr…” “Oh! El sa ben siór prìnzipe,… ài parlà perché son obligiada,… peràuter…” “Zèrto, zèrto, madre.” Baratà ste pòce parole, el prìnzipe e la badessa i s’à fat n’inchino ensèma e i s’è separadi come se a tuti doi ge dés fastìdi star ìo ancor un dinanzi a l’àuter; po' i è nadi a méterse ‘nsèma a la só compagnìa, un de fòra, l’àutra de ènt de la sòlia del convent. “Déi mò,” dis el prìnzipe: “la Gertrude prést la podrà gòderse de la compagnìa de ste madri. Per adès gen dat disturbo assà.” L’à fat n’inchino e tuta la famìlia l’à fat come el; ancor tanti complimenti e po' i è partìdi. La Gertrude, ‘ntel tornar, nó la geva tanta vòia de parlar. Spaventada del pas che l’eva fat, malpentìda de èsser stada ‘nzì pantalóna, enzispada contra i àutri e contra sé stessa, la feva ‘l cont de cante ocasion che ge restava ancor per dir de no; e la se ‘mprometeva a se stessa, ma ‘n modo débol e confùs, che ‘n chesta o ‘nchela o ‘nchel’àutra la saròs stada pù furba e pù forta. Con tuti sti pensieri, nó gera però passà ‘l terór dei òcli de so pare; sichè cando che con n’oclada che ‘l geva dat de stris, la podèst véder che sul só mus nó g’era pù segn de rabia, anzi cando che l’à vist che ‘l mossava de èsser contentón de ela, g’è parèst na bela roba, e per n’àtimo l’è stada tuta contenta. Apena arivadi, g’à volèst vestìrse e lustràrse de nòu; po' ‘l disnar, po' arcante visite, po' la spassezada, po' la zacolada, e po' la zéna. Sul finìr de la zéna, ‘l prìnzipe l’à metù ‘nsèma n’àuter afare, la sièlta de la vidazza. Enzì i ge diseva a na sióra nòbile che ‘nvidada dai zenitori, la deventava come ‘l tudór e guida de la putèla che voleva nar suora, entel tèmp tra la domanda e ‘l nare nt entel convent; tèmp che le passava a visitar le glésie, i palazzi del comun, i pròlegi, le vile, i santuari: ensóma tute le ròbe pù bele e importante de la zità e tut en ziro a chesta; e chesto perché le putèle prima de proferìr el voto che da chel nó se tornava ‘ndré, le vedés ben chel che le se perdeva. “Ge vorà pensar a na vidazza,” dis el prìnzipe: “perché doman nirà ‘l vicàri de le mónege, per la regola de chel esame e sùbit dopo, la Gertrude i la proporà ‘ntel convent per èsser azetada da le madri.” Entel dir chesto ‘l s’èra voutà vèrs la prinzipessa, e chesta avèndo ciapì che ‘l domandava de dir calchedun, la scomenzià: “ge saròs…” Ma ‘l prìnzipe i l’à blocada sùbit: “No, no, sióra prinzipessa: la vidazza la deve plàserge prima a la sposina; e ancia se la tradizion la ge dàgia la sièlta ai parènti, ancia la Gertrude la g’à tant zudìzi, tant critèri, che se pòl benón sautàr la tradizion per ela.” E cì, voutà vèrs la Gertrude, come cando che se dà na grazia unica a calchedun, el dis: “tute le dame che g’era cì stasera a far filò le g’à chel che ge vòl per podér èsser la vidazza de na fiòla de la nòssa ciasa; e nó ge n’è una, diròssi, che nó la saròs onorada de èsser preferìda per farlo: zernìvela voi.” La Gertrude la vedeva ben che a far ca sèlta l’era dar n’àuter segn de èsser d’acòrdi; però sicome ca proposta i ge l’eva fata enten modo enzì complimentos, a refudar, ancia se la se feva véder umile, el podeva ‘mparér che nó ge ‘nteressas o che ‘l fus en ciaprìz o na moìna. E alor a la fin l’à fat ancia chel pas ìo; e l’à nominà la dama che ‘nca sera ìo g’era plasèst de pù; chela che geva fat pù moìne, chela che i l’eva lodada de pù, chela che i l’eva tratada con pù confidanza, con pù efèto e premura, chela che l’eva fat a finta de èsser n’amica da sèmper. “Bèla sèlta,” dis el prìnzipe che ‘l desiderava e l’aspetava pròpri chela. Che ‘l sia sta braùra o ‘n caso, l’era stada come cando che ‘l zugiador de busolòti fasendove véder davanti ai òcli le ciarte de ‘n maz, el ve dis che ‘n pensàgeo una, che el po' i la ‘ndovinerà; però i ve l’a fate véder en modo che neo vist sol una. Ca dama l’era stada enzì taciada ‘ntorn a la Gertrude per tuta la sera, senza molàrla n’àtimo, che a chesta g’averòs volèst che la fés en sfòrz de fantasìa per pensàrnen n’àutra. E po' g’è da dir che tante premure le geva ‘l só perché: ca dama da ‘n bel pèz, l’eva metù i òcli adòs al prinzipìn, perchè ‘l deventas só zènder: sichè la vedéva le ròbe de ca familia come le fus sóe; e l’era naturale che la se ‘nteressas de ca cara Gertrude, come la fus na parènta pù strénta. El dì dré, la Gertrude l’a s’è desdromenzada col pensier del vicari che geva da nir per esaminarla; e ‘ntant che la pensava se ‘l podeva èsser chesta l’ocasion per tornar de vòuta, e ‘n che modo, el prìnzipe i l’à fata clamar. “Coràzo, fiòla,” ‘l g’à dit: “enfìn a adès ve seo comportada pròpri ben: ancòi se trata de ruar su l’òpera a la perfezion. Tut chel che s’à fat enfìn adès, l’è sta fat col vòs consènt. Se ‘ntant ve fus nù calche dubi, calche pentiment da ‘ngot, calche ciaprìzzi de zoventù, averòsseo dovèst dìrlo prima; ma come che s’è metù le ròbe adès, nó l’è pù ‘l tèmp de far la zimberlìna. Chel bon òm che g’à da nir stadoman, el ve farà zènto domande su la vòssa vocazion: e se ve feo suora de vòssa volontà, e ‘l perché e ‘l percome, e che sàite mì? Se voi bazilào entel respònder, el ve tegnirà su le spine cissà per cant. Per voi el saròs en fastìdi e ‘n tormento; ma poròs èsserge n’àutra rògna ancor pù bruta. Dopo tute che dimostrazion che en fat en piazza, ogni pù pìzzol dubi che fésseo véder, el meteròs en perìcol el me onor, la zènt la poròs créder che mì abia zapà na vòssa matéria per la vòssa dezision pù convinta, che abia volèst far le ròbe massa ‘n prèssa, che abia… che sàite mì po'? Ente sto caso, me troveròssi a cognér sèlier tra doi strade tute doi dolorose: o lagiàr che tuti i se fàgia na bruta opunion de la me condota, ma chesto mì nó pòdi pròpri azetàrlo ma pròpri mai. O dir la ciàusa vera de la vòssa sièlta e…” Ma cì, avèndo vist che la Gertrude l’era deventada rossa come na brasa, e che se ge sgonflava i òcli, e ‘l mus el se tirava, come le fòie de ‘n fior, cando che vèn chel stòf prima de ‘n temporalaz, l’à troncà ‘l so pròlec’, e con en far chièt, el dis: “dai, dai, dipènt tut da voi, dal vòs zudìzi. El sai ben che ge neo tant, e nó seo na putèla che rovina tut sul pù bel; ma mì g’ài da prevéder tut chel che pòl suzzéder. Nó se ‘n pàrlia pù; e restàn d’acòrdi che voi rispondereo con sinzerità, en modo che a chel pòr òm nó ge vègnia ‘n ment de suspetar. Enzì ancia voi ge ‘n niréo fòr pù ‘n prèssa.” E cì, dopo avérge suzerì calche risposta a le domande pù probàbili, e l’à tirà fòr le sòlite zàcole de le comodità e dei godimenti che la Gertrude l’averòs abù ‘ntel convent; i l’à tegnuda su sto slambròt enfin che è nù ‘n sèrvo a dir che ‘l vicari l’era arivà. El prìnzipe ‘l g’à fat ancor le ultime racomandazion pù ‘mportante, e la lagià la fiòla da só pòsta con el, come che l’era la regola. Chel bòn òm l’era arivà che ‘l geva zà l’opunion che la Gertrude la giavés na gran vocazion a nar mónegia: perché ‘nzì geva dit el prìnzipe cando che l’era nà a ‘nvidarlo. L’è ben vera che chel bòn prèt, che ‘l seva benón che la malfidanza l’era una de le virtù pù nezessarie a far la só mission, el geva per regola de nar plan a créderge a tut e a tuti sia a ‘n vèrs che a l’àuter; però nó ciàpita scasi mai che le paròle dite da na persona che conta, a ‘n vèrs o a l’àuter, nó le rèstia ‘nla ment de cì che le scóuta. Fati i primi complimenti ‘l g’à dit: “signorìna, mì vèni a far la part del diàul; vèni a méter en dubi chel che ‘nla só domanda ela l’à dat per segùr; vèni a méterge davanti ai òcli i strumi e a seguràrme se l’éo consideradi bèn. La se contèntia se ge farai calche domanda.” “El dìgia pur,” g’à respondù la Gertrude. El bòn prèt l’à scomenzià alor a fàrge le domande come che le regole le comandava. “Sèntela ‘nla só cossiènza de aver sièlto liberamént e senza èsser sforzàda de nar suora? Nó g’è sta ‘ntimazion o moìne? Nó è sta doprà l’otorità de calchedun per farla dezìder a nar monegia? La pàrlia senza fàrse riguardo, con sinzerità, a n’òm che g’à ‘l dovér de savér per bèn la só vera volontà, per encriciar che nó i ge fàgia nancia n’angiarìa.” La risposta pù zusta a na tal domanda a la Gertrude la g’è nuda ‘n ment sùbit, làmpida e tremenda. Per dar ca risposta, l’avròs dovèst dar na spiegiazion e dir che i geva ‘ntimà de nar suora, contàrge tuta la storia… La disgraziada però, spaventada, l’à s-ciartà sto pensier; e l’à zercià ‘n prèssa n’àutra risposta; e ‘l n’à trovà una sol che la podeva liberàrla prest e de segur da chel suplìzi, chela che l’era ‘l contràri de la verità. “Me fón mónegia,” la dis vardando de scònder la só riòma, “me fón mónegia perché vòi mì, liberament.” “Da cant tèmp èl po' che g’è nù sto pensier?” l’à domandà ancor e bòn prèt. “L’ài sèmper bù,” à respondù la Gertrude, che ‘ntant, dopo fate l prìm pas, l’era pù segùra a dir el fàus contra sé stessa. “Ma cala èl po' la ciàusa pù granda che la spénz a farse móngia?” El bòn prèt nó ‘l seva che razza de plagia tremènda che ‘l tociàva; e la Gertrude la fat de tut per scònder sul só mus l’èsit che che parole le produséva ‘nla só cossiènza. “El motivo,” la dis, “l’è chel de servìr el Sioredio, e de s-ciampar dai perìcoi del mondo.” “Nó l’è che ‘l sia calche fastìdi?” calche… la mé scùsia… ciaprìzzi? A le bòte, na ciàusa del momént la pòl far n’impression che la pòdia durar per sèmper; e cando che sta ciàusa la finìs, la cossiènza la cambia, alor… “No, no,” l’à respondù ‘n prèssa la Gertrude: “el motivo l’è chel che v’ài dit.” El vicari, pù che àuter per compìr dal tut el só òbligo, che per la convinzion che ge ‘n fus bisògn, la seghità a fàrge domande; ma la Gertrude l’era sèmper pù dezìsa a ‘mbroiàrlo. Estra al schìfo che ge ciausava ‘l pensier de fàrge véder a chel prèt sèrio e da gialantòm el só punto débol, che ‘mparéva nó ‘l giavés el mìnimo sospèt; la pòra disgraziada la pensava ancia che ‘l vicari el podéva benón encriciar che la se fés suora; però ìo finìva la só aotorità su de ela, e la só protezion. En bòt che ‘l fus partì, ela la saròs restada ìo da só posta col prìnzipe. E calunque ròba l’avés bù da patìr enca ciasa, el bòn prèt nó l’averòs savèst engot, o ancia se i l’aves savést, con tuta la só bòna intenzion, nó l’avròs podèst far de pù che avér compassion per ela, chel compatiment chièt e misurà che, ‘n zenerale, se ge dà per bonagrazia, a cì che sia ciàusa del so mal. El vicari ‘l s’è stufà a far domande prima che la Getrude a dir bosìe: e, a sentìr che risposte sèmper conforma, e nó avèndo nancia ‘n motivo per dubitar de la só sinzerità, per fortuna l’à cambià ‘l tòno de le só parole; el s’è congratulà con ela, e ‘l g’à domandà, se fa per dir, scusa de aver tardivà tut chel tèmp a far el só dovér; ‘l g’à zontà chel che ‘l credéva pù adatà per fàrla nar avanti su chel bòn propòsit che la geva; e po' l’è partì. Passando per le sale enchela de nar fòr, l’à ‘ncrosà ‘l prìnzipe, che ‘mpareva che ‘l passas ìo per caso; e ancia con chesto ‘l s’è congratulà dei bòni proponimenti endo che l’eva trovà só fiòla. El prìnzipe enfìn a chel momént l’era restà ìo con en pè levà tut ansios: a sentìr ca notìzia, l’à tirà ‘l flà, e desmentegiàndose de la só solita serietà, l’è nà, scasi de corsa, da la Gertrude, i la ciargiàda de lòde, de moìne e de promesse, con na grant alegrìa, con n’efèto de chei che almen el pù gròs l’era ancia sinzéro: enzì l’è fat sto mismas de la cossiènza dei òumni. Nó starén cì a nàrge dré a la Gertrude en tut chel ziro de spetàcoi e divertimenti. E nancia starén cì a dir en tut e per tut i sentimenti che la geva ente l’anima ‘n chel tèmp: el saròs sol na storia de dolori e de àuti e bassi, massa sbrodolósa, e che ge ‘nsomìa a le ròbe zà dite. La gran belezza de chei posti, tute le ròbe bèle, chel divertimént che la viveva a nar cì e ìo a l’aria avèrta, el féva deventar ancor pù antipatico ‘l pensier del posto ‘ndo che a la fìn la saròs nada a ruar e per sèmper. E beciava ancor de pù le impression che la rizeveva ‘nle zàcolade e ‘nte le feste. A véder le spóse clamade ‘nzì perché le era spóse per dalbòn, el ge ciausava n’invìdia de chele, e ‘n torment odiós; a bòte, a véder calchedun che a sentìrse dar chel nòm de spósa, ge ‘mpareva che ‘l fus el colmo de ogni contentezza. A bòte ‘l splendor dei palazzi, el slusor dei ornamenti, tut chel nar e nìr aléger de le feste, el ge procurava ‘n piazér de chei, na tal contentezza de na vita senza pensieri, che la se ‘mprometeva de ritiràrse, de patìr de tut, putòst che tornar en l’ombra freda e morta del convent. Però tute che ‘mpensade le se sfantava sùbit al pensar pù ben a le complicazion, sol a vardar entei òcli ‘l prìnzipe. A bòte, entant che la se godeva ca pòcia alegrìa prima de nar suora, ancia ‘l pensier de cognér arbandonar per sèmper chei divertimenti, ge feva nìr la melancolìa e le deventava trista; come chel malà con na gran sé che ‘l varda rabios, e scasi ‘l refùda ‘l cuzzàr de aca che con fadìgia ge dà ‘l mèdico. Entant el vicari de le mónge l’à lagià la ciarta nezessaria, e è nù ‘l tèmp de clamar el consìli per azetar la Gertrude. È sta fat el consìli; e come che l’era bèla da véder, i doi terzi dei voti segreti che la regola la prevedeva, i è arivadi e la Gertrude l’è stada azetada. Ela stessa, stufa de chel suplìzi, l’à domandà alor de podér nar ent pù prest che l’era possìbol, entel convent. De segur nó gera ‘nzun che volés frenar ca prèssa. E alor è sta fat la só volontà; e, portada con tanto de festa ‘ntel convent, la s’à metù l’àbit. Dopo dódes mesi de noviziàt, pléni de pentimenti e ‘ncor pentimenti, la s’è trovada al moment de la profession, cioè al moment che ge convenìva, o dir en no pù strambo, che pròpri ‘nzun se saròs spetà, pù scandalos che mai, o ripèter en sì che l’eva dit tante bòte; i l’à ripetù e ‘nzì l’è deventada suora per sèmper. El podér consiliar e consolar calunque, ente calunque situazion, a calunque condizion se sia arivadi, l’è na facoltà che g’à sol la religion cristiana. Se per el passà g’è remèdi, la religion i lo comanda, i lo dà, la ge dà luze e fòrza per méterlo en òpera, a calunque costo; se ‘l remèdi nó ‘l g’è, la ge da ‘l modo de far de segùr e dal bòn, chel che dis ancia el provèrbi, de nezessità se fa virtù. La ‘nsegna a seghitar con sapienza chel che s’à scomenzià senza pensàrge; la plégia l’anima a azetar con amor chel che è sta ordinà con n’angiarìa, e la ge dà a na sèlta che l’era stada sventada, ma che ormai l’è resoluta, tuta la santità, tuta la saviéza, diséntel pùr fòr dai dènti, tute le sodisfazion de la vocazion. L’è na strada fata ‘nzì, da calunque intric’, da calunque burón, che n’òm ge ciàpitia ìo, e che ‘l ge fàgia sora ancia sol en pas, da alor el pòl nar inanzi con segurezza e de bòna vòia e arivar contènt a la fìn. Con sto mezzo la Gertrude l’averòs podèst èsser na mónegia santa e contenta, en calunque modo. Ma la pòra suora la se magnava ‘l figià sota ‘l zóu e ‘nte sto modo la sentìva pù fòrt el péso e i scorlóni. L’era sèmper pù malpentìda de aver perdù la libertà, la refudava sèmper de pù ca vita che l’eva sièlto, e la seghitava a pensar a le só fantasìe che nó le saròs mai stade contentade, cheste l’era le ròbe prìmdetute de la só cossiènza. La remastegiava chel brut passà, la meteva ‘nsèma ‘nla memoria tuti i momenti che, a ciàusa de chei, la se giatàva ìo; e la desfava mili bòte per engot col pensier chel che l’eva fat per dal bòn; la se deva la colpa per èsser stada sventada, e àutra zènt de èsser tirani e ciatìvi; e la se mordeva da la rabia. La adorava e ‘nsèma ge desplaseva la só belezza, la disprezava na zoventù destinada a tormentàrse enten matìrio, e la ‘nvidiava, en zèrti momenti, calunque feumna, en calunque condizion, con calunque cossiènza, che la podés gòderse liberament entel mondo chei doni. El véder che suore che geva aidà a tiràrla dénter ìo, l’era fastidiós. La se ricordava bèn i ati e i ‘ngiàgni che le eva metù a l’òpera, e i le pagiava con tante vilanade, con tanti dispeti, e l’arivava ancia a dìrgele sclète sul mus. E a chele ge convenìva, le pù tante bòte, tàser e mandar zó: perché ‘l prìnzipe, l’eva bèn volèst dominar la fiòla chel che l’era ‘l nezessàri per spénzerla ‘ntel convent; ma ‘n bòt che l’era arivà al só intènto, nó l’avròs soportà che àutri i podés èsser sora la só zenìa: e ogni bòt che i avés fat sol en pòc’ de rumor, podeva èsser assà per pèrder la só gran protezion, o farlo deventar da protetor a nemìzi. I dis che la Gertrude l’avròs dovèst aver na zèrta simpatìa per le àutre suore, chele che nó eva tòt la pàrt ente chei ‘ntrìci, e che, senza averla desiderada come compagna, le ge voleva ben come che l’era; e reliziose, con le só incombènze e contènte, le mossava con l’esèmpi come che ancia dénter ìo se podés sì vìver, ma ancia star bèn. Ma ancia cheste le ge feva rabia, per n’àuter vèrs. Con chel far da zetìne che le geva e chel èsser sèmper contènte, l’era come fus na brontolada al só scombussolament, e a la só condóta da litegiante; e nó la se lagiava s-ciampar l’ocasion de grignarle fòra drè a le spale, come basamedaie, o de tratarle come impòcrite. Forsi la saròs stada men contraria a cheste, se l’aves savèst o ‘ndovinà che che pòce balòte negre, trovade ‘ntel bussolòt che eva dezìso ‘l só azzèt, i l’eva metùde pròpri lore. Calche consolazion a bòte i la geva ‘ntel comandar, entel èsser siorada zó ‘ntel convent, entel rizéver visite de loda da zènt fòroutra, entel schivarse calche ocupazion, entel spènder la só spòna, entel sentìrse clamar la siora; ma che consolazion èrel pò! El còr, a sentìrse ‘nzì pòc’ content, l’averòs volèst ogni tant taciàrgen e gòderse ancia le consolazion de la relizion; ma cheste le vèn a cì che trascura chele del comandar: come un che se négia e ‘l vòl zapàrse a na as che la pòl portàrlo en salvo sul sut, el cògn per fòrza davèrzer el pugn e molar le erbe che l’eva zapà per istinto, e che nó le è segure. Pòc’ tèmp dopo la profession, la Gertrude i l’eva fata maestra de le putelòte del colègio; pensà come che le geva da star che pòpe, sota ‘l só rigór. Tute le só vècle spie le era zà partìde; ma ela la se tegnìva tute le só passion de chel tèmp; e ‘nte ‘n modo o ‘nte n’àuter le só scolare le geva da pagiarla. Cando che ge nideva ‘n ment che tante de lore le era destinade a vìver enchel mondo ‘ndo che ela l’era stada refudada per sèmper, la sentìva contra che poréte na fél, scasi ‘n desidèri de vendeta; e i le tegnìva sota, i le tratava mal, la ge feva pagiar prima i godimenti che ‘n dì le averòs bù. Cì che avés sentù, enchei momenti, con che rabia i le rampognava, per ogni stupidadèla, i l’averòs tòta per na dòna con na relizion salvàdegia e sfazzada. Àutre bòte, l’oror per el convent, per la regola, per l’obediènza, el deventava tut el contrari. Alora, se nó bastava soportar el ghèto che feva le só scolare sventade e alégre, adiritura i lo stizzava; la se mesdava entei zògi de le pòpe e i li feva deventar pù desordinadi; la ge metéva ‘l nas ente le so zacolade e i le spenzeva pù ‘n là de le intenzion che le geva cando che i l’eva scomenziade. Se calcheduna la diseva na parola sul batolar de la madre badessa, la maestra i lo simiotava per en bèl pèz, e la ge feva sora na bela comèdia: la feva ‘l mus de na mónegia, l’andadùra de n’àutra: alor la grignava sdramenadament; ma l’era grignade che nó i la lagiava pù alégra de prima. Enzì l’eva vivèst arcanti ani, nó avendo ocasion de far de pù; cando che la só disgrazia la volèst che n’ocasion la se presentas. Tra tute le siorarìe e i vantàzi che gera sta lagià, per pagiàrla de nó podér èsser badessa, g’era ancia chela de vìver ente ‘n cartiér apòsta per ela. Ca ala del convent l’era taciàda a na ciasa abitada da ‘n putèl zóven, che de mistér el feva ‘l lazerón, un dei tanti, che a chei tèmpi, e con i só sbìri, e ‘n comunèla con àutri lazeróni, i podeva, fìn a ‘n zèrto punto, fregiàrsen empipàrsen de la zandarmerìa e de la leze. La nòssa storia i lo clàma Zìdio, senza dir de che zenìa che l’era. Chesto cì, da na finestrèla de só ciasa, che vardava sora a ‘n cortìu de chel cartiér, avendo vist la Gertrude calche bòt passàr o zirondolar da ìo, per òzi, pù ‘ngolosì che spaventà dal perìcol e dal sacrilèzi de l’azion, en bèl dì l’à riszà a parlàrge. La disgraziada la g’à respondù. Enchei primi momenti, la sentìva na contentézza, no pròpri sclèta, però assà convinta. Entel rafanàs che l’era la só cossiènza g’era adès en pensier fòrt, permanènte e, diròssi scasi, na vita potènte; ma ca contentézza l’era sìmila a ‘n bibi che rinfres-cia e che la crudeltà inzignévola dei antichi tréva fòr al condanà, per dàrge la fòrza de soportar i tormenti. S’era vist, entel stes tèmp, gran novità entela só condota: tut de colp l’è deventada pù normale, pù calma, l’à desmetù de far schèrzi e de brontolar, anzi la se feva véder pù benarlevada e plena ‘n moìne, de modo che le suore le era contènte de chel cambiament enzì bòn; lontane come che le era da ‘mmazinàrse ‘l vero motìvo, e dal ciapìr che ca virtù nòva àuter nó l’era che impocrisìa zontada a le vècle magagne. Chel aspèto però, chel, per dìrla tuta, sblanzegiada dal de fòra, nó l’è durada tant tèmp no, almen enzì de tanta durada e sèmper compagna: scasi sùbit l’à tornà a far i só sòliti dispèti, e i só sòliti ciaprìzzi, s’à tornà a sentìr le parolaze e le tòte ‘n ziro contra ca presón che l’era ‘l convent, e a bòte dite con zèrte parole che de sòlit nó se sènt enchel posto e nancia ‘n ca bócia. Però, ogni bòt che la se lagiava s-ciampar che parolaze, sùbit dré nideva ‘n pentiment, e na gran premura per farle desmentegiar a forza de moìne e de bòne parole. Le suore le soportava a la bòna chel che le podeva tuti sti àuti e bassi, e le deva la colpa de sto comportament al naturàl lunastec’ e lizeròt de la siora. Per calche tèmp, empareva che nancia una de le suore la pensas de pù; ma ‘n dì che la siora l’eva sbegotà con una de le convèrse, per nó se sa che petegolarìa, la scomenzià a strapazàrla fòr de misura, e nó i la ruava pù, alor ca convèrsa, dopo aver patì e èsserse mordùda la lénga per en bèl pèz, a ‘n zèrto punto, perdùda la pasiènza, l’è sbrociada con na paròla, che ela la séva vergot, e che a só tèmp l’averòs parlà. Da chel dì ‘n poi, la siora nó l’à mai bù paze. Nó è passà però tant tèmp che ca convèrsa na domàn i l’à spetada a far i só mistéri ma nó la s’era fata véder: i era nadi a véder enla só ciameréta e nó la g’era; i la clamada a ós àuta e nó la respondeva: zércela cì, zércela ìo, zira de cà e de là, da ‘n zima enfìn zó ‘n fónt; nó la g’era ‘nzulòc’. Cissà che fantasie se saròs fat, se ‘ntel zerciar nó se fus trovà ‘n bus entel mur de l’òrt; e sto fato l’à fat pensar a tute che la fus s-ciampada da ca crèpa. Era sta fat gran tamisade a Monza e ‘ntei paesi ìo ‘ntórn e spezialment a Meda, ‘l paés de ca convèrsa; era sta scrìt da tante man: ma ‘nzun à pù spià ‘ngot. Forse se saròs podèst savér de pù se ‘nveze che zerciar lontan, se avés s-ciavà ìo vizìn. Dopo tanta maravéa, perché ‘nzun i l’averòs credùda capaze de far ca ròba ìo, e dopo tante zàcole, le suore le à dezìso che la dovéva èsser nada lontan, ma lontan. E sicome a na suora g’è s-ciampà da dir: “lè s-ciampada en Olanda de segur,” sùbit l’è s’era convìnte per en pèz, entel convent e ancia fòra, che la fus s-ciampada pròpri en Olanda. Però nó ‘mpar che la siora i la pensàs pròpri ‘nzì. Ma no perché la mossàs de nó créderge, o la negias l’opunion dei tanti con le só resón: se i le geva, de segur, che resón nó le è mai stade enzì ben tegnùde scònte; e nó g’era n’àutra roba de ca storia ìo che pù volintéra l’avròs volèst desmentegiar, e nó g’era ‘ngot che ge ‘nteressàs de men che tociar el font de chel mistèro. Ma per pòc’ che la ‘n parlas, tanto pù la ge pensava. Cante bòte ‘nten dì che, de colp, ge nideva ‘n ment ca feumna e la restava ìo ‘mplantada ‘nla so testa, e nó la voléva mòverse! Cante bòte l’averòs desiderà de védersela ìo dinanzi viva e vera, putòst che averla sèmper ficiada ‘ntel pensier, putòst che dovérse trovar dì e nòt en compagnìa de chel cialciaròt tremendo e brut! Cante bòte l’averòs volèst sentìr la ós de chela ìo, calunque ròba l’avés podèst dir, putòst che ‘mmazinar sèmper entel secrèt del zervèl el sussùr de ca ós, e sentìr parole ripetùde de sèito come da na testàrda, con en torobetar mai stràc’ e che ‘nzun de vìo no à mai bù! Era passà zirconzìrca n’an dopo chel fato, cando che la Lùzia l’èra stada presentada a la siora, e l’eva fat con ela ca zacolada che èren restadi ìo a contàr. La siora la moltiplicava le domande per savér de pù de la persecuzion de don Rodrigo, e la néva a zerciar zèrte ròbe, con en far da sfazzàda, che per la Lùzia l’era na ròba mai vista, nancia da ‘mpensarlo che le mónege le podés èsser enzì curiose su che ròbe ìo. I zudìzi po' che la mesdava ént ensèma a le domande, o che la feva créder, nó i era men stravagànti. Empareva scasi che la grignàs a sentìr el ribréz che la Lùzia l’eva sèmper bù per chel sior, e la ge domandava se l’era ‘n mostro, per fàrge ‘nzì tanta paura: empareva scasi che la pensàs che l’era ‘nsensà e siòco per ca putèla èsser enzì temiósa, se nó l’avés bù la resón de preferìr el Renzo. E ancia su chesto la ge feva domande e la Lùzia l’era sèmper pù sbalordìda e la deventava rossa. Essèndose po' acòrta de avèr fat nar massa la lénga dré ai só pensieri che la geva ‘ntel zervèl, la vardà de corézer e de spiegiàr mèio le só zàcole; però nó l’à podèst far a men de lagiàrge a la Lùzia na zèrta maravéa che desplaseva, e ancia come na spèzie de spavènt. E apena che la podèst giatàrse da só pòsta con so mama, la s’è sfogiada con ela; ma l’Agnese, essèndo pù spèrta, con pòce parole l’à smorzà zó tuti chei dubi, e la g’à spiegià tut el mistèro. “Nó sta fàrte maravéa,” la g’à dit: “cando che avràstus cognossù ‘l mondo come mì, vederàstus che nó l’è ròbe da fàrsen maravéa. I siori, cì pù cì men, cì per en vèrs, cì per n’àuter, i g’à tuti ‘n pòc’ del mat. Convièn lagiàrli dir, spezialment cando che se ge n’à de bisògn de lori; far a finta de ascoltarli sul sèrio, come se i disés ròbe zuste. Às bèn sentù come che la m’à dat sora, nancia se avéssite dit cissà che gran spropòsit? Mì nó me l’ài mìgia tòta vè no. I è tuti ‘nzì. E con tut chesto, ringraziànte ‘l ziél, che ‘mpar che sta siora la t’abia tòta ‘n bòna, e la vòbia protézerne dalbòn. Del rèst, se viveràstus, cara fiòla, e se te ciapiterà ancor de aver a che far con i siori, en sentiràstus, en sentiràstus, en sentiràstus.” El desidèri de fàrge ‘n piazer al padre guardian, la sodisfazion de protézer, el pensier del só bòn nòm che avròs frutà ca bòna azion de protézer fata santamént, na zèrta simpatìa per la Lùzia, e ancia ‘l soliévo entel far del bèn a na criatura nozènta, entel aiutar e consolar chei che patìva angiarìe, l’era tut ròbe che le eva convinto dalbòn la siora a tòrse a pèto la sòrt de doi pòre feume che s-ciampava. A só richiesta e per riguardo a ela, le è stade sistemade entel cartiér de la fatóra tacià al convent, e tratade come se le fus a servìr entel convent. Mare e fiòla le era tute doi contentóne per aver trovà ‘nzì prést en pòsto segur e onorà. Le averòs volèst ancia pròpri volintera, restàr ìo senza che ‘nzun le vardàs; però ca ròba nó l’era ‘nzì fàzile enten convent: tanto pù che g’era n’òm ancia massa premurós che ‘l voleva avér notìzie de una de le doi, e che ‘ntel pensier de chesto, a la passion e a la tìcia de prima s’era zontà ancia la stìzza de èsser sta antizipà. E noi, lagiàndo le dòne entel só ricòvero, tornerén entel palazòt de chel’ìo, ente l’ora che l’aspetava l’èsit de la só spervèrsa spedizion. “Fate a mio modo,” rispose il frate: “andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra.” E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. — Andiamo a vedere, — disse tra sè; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.
Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perchè era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti — In quanto ai sospetti, — pensava, — me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, nè un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno nè anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi... se mai nascesse qualche imbroglio... che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,... anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado. — Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perchè in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. — Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che... il viso più umano qui son io, per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega... — Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. — E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto — Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, “ebbene,” gli disse, o gli gridò: “signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?” “L’è dura,” rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, “l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.” “Com’è andata? Sentiremo, sentiremo,” disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee. “Tu non hai torto, e ti sei portato bene,” disse don Rodrigo: “hai fatto quello che si poteva; ma... ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.” “Anche a me, signore,” disse il Griso, “è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.” “Non siete stati riconosciuti almeno?” Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sè. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacchè per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto. Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa. La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: “san Martino! ” “Non so cosa vi dire,” rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: “pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perchè, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma... basta, ora vi racconterò tutto. “Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare, "disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. "Quel frate," continuò," con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno.” Don Rodrigo riferì il dialogo. “E voi avete avuto tanta sofferenza?” esclamò il conte Attilio: “E l’avete lasciato andare com’era venuto?” “Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?” “Non so,” disse il conte Attilio, “se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.” “Non mi fate peggio.” “Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.” “Cosa pensate di fare?” “Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e… il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.” Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. “Di belle ciarle,” diceva, “faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente. ” “Avete fatto benissimo,” rispondeva il conte Attilio. “Codesto vostro podestà... gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà... è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che...” “Ma voi,” interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, “voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo! ” “Sapete, cugino,” disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, - “sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà...” “Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?” “L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che efletto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai. ” Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione. Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perchè dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non potè dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perchè, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perchè, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni. Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e uniti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, potè di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. “Fuggiti insieme!” gridò: “insieme! E quel frate birbante! Quel frate!” la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. “Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono... voglio sapere, voglio trovare.... questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare.... Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone...! quel frate...! ” Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, potè riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera. Una delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia; e una delle consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbattè, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso potè, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano. Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato. “Signore...” disse, tentennando, il Griso. “Che? non ho io parlato chiaro?” “Se potesse mandar qualchedun altro...” “Come?” “Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi. ” “Ebbene?” “Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e... Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io... è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza... ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.” “Che diavolo!” disse don Rodrigo: “tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!” “Credo, signor padrone, d’aver date prove...” “Dunque!” “Dunque,” ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, “dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.” “E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio... lo Sfregiato, e il Tira-dritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.” Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata, se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda, e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perchè mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti. L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, nè metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. — Le gride son tante! — pensava: — e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome. — Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare. Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodochè, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista. Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: “di grazia, quel signore.” “Che volete, bravo giovine? ” “Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?” L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, chè non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: “figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate.” Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: “siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine.” E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacchè, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodochè, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, nè, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. — Grand’abbondanza, — disse tra sè, — ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna. — Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perchè, diamine! non era luogo da pani quello. — Vediamo un po’ che affare è questo, — disse ancora tra sè; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. — È pane davvero! — disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: — così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? — Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. — Lo piglio? — deliberava tra sè: — poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò. — Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodochè, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva. “Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei,” disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo. “Io non li butto via; cascan da sè: com’ho a fare?” rispose quello. “Ih! buon per te, che ho le mani impicciate,” riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. “Via, via,” disse l’uomo: “torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.” In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: - dove si va a prendere il pane? “Più avanti,” rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: “questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.” “Un po’ per uno, tormento che sei,” disse il marito: “abbondanza, abbondanza.” Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento. Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era. “Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo. ” “Date qui,” disse il portinaio, mettendo una mano alla grata. “No, no,” disse Renzo: “gliela devo consegnare in proprie mani.” “Non è in convento.” “Mi lasci entrare, che l’aspetterò.” “Fate a mio modo,” rispose il frate: “andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra.” E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. — Andiamo a vedere, — disse tra sè; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.
Come na sclapada de ciagni da ciazza, dopo che i g’à córs dré a ‘n léver, i torna de vòuta scornadi vèrs el padron, con i musi bassi, e con la cóa ‘ntrà le giambe, enzì entel gazèr de ca nòt, nideva de vòuta i róbleri entel palaz de don Rodrigo. Chesto ‘l ciaminava inanzi e ‘ndré, al scùr, ente na ciamerazza vòida de l’ultim piano che vardava sul spiazzal. Ogni tant el se fermava e ‘l scoutava, el vardava travèrs a le crèpe dei scuri ‘nciaioladi, plen de azitazion e nó ge manciava nancia la preocupazion, no sol perché nó l’era segur che l’azion la reusisés, ma ancia per chel che avròs podèst suzzéder dopo; perché l’era la pù gròssa e la pù riszosa che chel brào òm l’eva ‘nvià via. Però ‘l se calmava col pensier che tute le prudenze che era sta tòt per scònder ogni ségn, se non i sospèti — Cant ai sospèti — ‘l pensava, — no me ‘nterèssa ‘ngot. Voròssi savér cì che poròs èsser chel corazós che vèn cassù a véder se g’è o nó g’è na putèla. El vègnia, ‘l vègnia pur chel tànger, che ‘l sarà bèn azetà. El vègnia pur el frate, che ‘l vègnia. La vècla? Che la vàgia a Bergamo la vècla. La zustìzia? Poh, la zustìzia! El podestà nó l’è ‘n putèl e nancia ‘n mat. E a Milan? Cì èl po' a Milan che ge varda sora a chesti? Cì èl po' che ge daròs fé? Cì èl po' che sa che i g’è? L’è come zènt perdùda su sta tèra; nó i g’à nancia ‘n padron: l’è zènt de ‘nzun. Dai, dai, paura nècia. Come che ‘l resterà ‘l Tìlio doman matìna! El vederà, el vederà, se mì fon zàcole o fati. E po'… se ancia dovés èsserge calche ‘mbròi… che sàite po' mì? calche nemìzi che volés tòr sta ocasion,… ancia ‘l Tìlio ‘l savérà consiliarme: g’è sota l’onor de tuta la famìlia. — Ma ‘l pensier che su chel el se fermava de pù, perché en chel el trovava ensèma, na calmada ai só dubi, e ancia ‘n nutriment a la passion primdetut, l’era ‘l pensier de le moìne, de le promesse, che l’avròs doprà per chietar la Lùzia. — La giaverà tanta paura a giatàrse cì da só pòsta en mèz a chesti, a ste fazzade, che… ‘l mus pù naturale cì son mì, demóscol… che la dovrà per fòrza vardàrme mì, ge tocerà a ela ‘mpregiàrme; e se la me ‘mprégia… — Entant che l’è dré a far tuti sti bèi conti, l’à sentù ‘n pestolòt, l’è nà su la finestra, l’à daverzù apena ‘n pòc’ per vardar fòra; l’era lori. — E la portantìna? Diàolo pòrco! Endo ela pò la portantìna? Tréi, zìnc’, òt: i g’è tuti; g’è ancia ‘l Grìs; la portantìna nó la g’è: diaolo porco! diaolo! El farà bèn i conti ‘l Grìs — Come che i è nudi ént, el Gris l’à pozà ‘nten ciantón de na ciamera al piano tèra ‘l só baston da pelegrìn, ‘l s’à tirà zó ‘l ciaplàz e la mantelina, e, come che voleva la regola de la só mansion, che ‘nchel moment enzun ge ‘nvidiava, l’è nà su a rapòrto da don Rodrigo. Chesto i lo spetava su ‘nzìma a la s-ciala; e vedèndol nìr con ca ghigna ‘mpazzada e sfazzada da brigante malcontènt, “e alor,” el g’à dit, o ‘l g’à zigià: “sior blagón, sior capitano, sior lagiàmefaramì?” “L’è dura,” g’à respondù ‘l Gris, restando con en pè sul prìm s-cialìn, “l’è dura zapar strapazzade, dopo aver laorà onestament, e vardà de far el só dovér, e riszà ancia la pèl.” “Com’èla nada po'? Sentìnte, sentìnte,” el dis don Rodrigo, e ‘l s’è ‘nvià vèrs la só ciamera, endo che ‘l Gris g’è nà dré, e la fat sùbit la so relazion de chel che l’eva ordenà, fat, e vist e chel che nó l’eva vist, sentù, dubità, comodà; e i l’à fata col critèri e con ca confusion, con chel dubi e con chel sbalordiment, che geva da èsserge per fòrza ensèma ‘nla só testa. “Tì nó g’às tòrt, e te sés comportà bèn,” el dis don Rodrigo: “às fat chel che sé podéva; ma… ma, che ‘nte sta ciasa ge fus na spìa! Se la g’è, se arivi a scoprìrla, e ‘l spierén bèn se la g’è, te la méti a pòsto mì; vederàstus mì, Gris, se te ‘l cònzi per le fèste.” “Ancia a mì, padron,” dis el Gris, “è passà ‘ntel zervèl sto sospèt: e se ‘l fus vera, se se nidés a scoprìr en brigante de sta sòrt, el sior padrón i lo deve méter enle me man. Un che se fus tòt la brìgia de fàrme passàr na nòt come chesta! Toceròs a mì pagiàrlo fòra. Però, da arcante robéte che ài vist me ‘mparéva che ge fus calche àuter intrìc’, che per entant nó son bon de ciapìr. Doman, sior padrón, doman se saverà vergot de pù.” “Nó i v'à migia cognossù no?” El Gris l’à respondù che ‘l sperava de no; e la conclusion de ca zacolada l’è sta che don Rodrigo ‘l g’à ordenà, per el dì dré, trei ròbe che l’averòs pensà de far ancia da só pòsta. Mandar la doman bonora doi òumni a ‘ntimàrge al console de tàser, che dopo l’è stada fata, come che én vist; àutri doi enla baita a far la rónda, per tègner lontan ogni curiosón che fus nà ìo a véder, e scònderge a tuti la portantìna enfìn a la nòt dré, cando che i saròs nadi a tòrla, sicome per entant nó conveniva far àutri passi che podés dar sospèt; nar po' dopo el, e mandar ancia àutri, de chei pù arditi e con en pòc’ de cràiz, en mèz a la zènt, per ciapìr vergot su tut chel rafanàs de ca nòt. Dat chei ordeni, don Rodrigo, i l’à mandà via con tante lode, e da cheste se ciapìva benón che ‘l geva l’intenzion de pagiàrlo de tute le ofése che ‘l geva dit cando che l’era arivà. Vai a dormìr, pòer Gris, che doròstus avérnen de bisògn. Pòer Gris! A tavanar tut el dì, a busnar scasi tuta la nòt, senza contar el perìcol de nar sota le sgrinfie dei contadini, e de zapàrte na taglia per rapto di donna honesta, come se nó fus assà chele che g’às zà; e po', èsser rizevù ‘nca maniera ìo! Ma! enzì pàgia de spes la zènt. Però tì às podèst véder, enche l’ocasion ìo, che calche bòta la zustìzia, ancia a sto mondo, se nó l’arìva prima, prést o tardi l’arìva. Vai a dormìr per entant: che ‘n dì forse giaveràstus da dàrne n’àutra pròva, e ‘ncor pù granda de chesta. La doman dré, ‘l Gris l’era partì de nòu per afàri, cando che don Rodrigo l’è levà. L’à domandà sùbit se g’era il conte Tìlio che vedèndol nir, l’à fat en mus e n’ato da tòi per ziro, e ‘l g’à zigià: “san Martìn!” “Nó sai che dìrve,” à respondù don Rodrigo, arivàndoge ìo dausìn: “pagerài la scoméssa; però nó l’è chesto che me sbrusa de pù. Nó v’evi contà ‘ngot, perché, son sinzéro, pensavi de fàrve n’emprovisada stadoman. Ma… basta, adès ve conterài tut.” “G’à metù su la zata chel frate 'nte sto afare,” dis el cusìn, dopo che l’eva sentù tuta la storia, con pù serietà de chela che se se speteròs da un col zervèl enzì bislac’. “Chel frate,” l’à dit amò, “con chel far da comediante e con che prèdice siòche, mì ‘l tègni come ‘n dritón e per un che mét el bèc’ dapertut. E voi nó ve seo fidà de mì, nó m’éo mai dit fòr dai denti chel che l’era nù cì a contàrve zó l’àuter dì.” Don Rodrigo alor el g’à contà tuta ca zacolada. “E voi eo bù tuta ca tribulazion?” l’à sclamà ‘l conte Tìlio: “E po' l’éo lagià nàrsen come che l’era nù?” “Che voléveo po', che me tiràssite contra tuti i ciapuzini de l’Italia?” “Nó sai,” dis el conte Tìlio, “se ‘nchel moment ìo, me saròssi ricordà che ge fus al mondo àutri ciapuzìni èstra chel brigante ardito; ma dai, ancia a volér èsser prudente, nó se pòl tòrse la sodisfazion con en ciapuzìn no? A so tèmp ge vòl savér ardoplar i onori a tuti i frati, po' dopo, cando che ocor, se podrà dàrge na ciàrgia de pache a un de lori. Basta; el s’à schivà la punizion che ge steva pù ben; ma ‘l tògi mì sota le me ale, e vòi aver mì la sodisfazion de ‘nsegnàrge come che se parla con chei come noi.” “Nó ste a fàrme de pézi.” “Fidàve na bòta, che mì ve fón en piazér da parènt e da amizi.” “Ma, che pensào de far po'?” “Nó ‘l sai ancora; ma chel frate el sistèmi mì de segur. Ge penserai, e… ‘l sior conte zio del Consìli secrèt l’è el che ‘l me deve far el piazer. Caro ‘l sior conte zio! Cant che mé plas ogni bòta che pòdi fàrlo laorar per mì, en politicón de chel calìbrio ìo! Passandoman sarai a Milan, e, ‘nten modo o ‘nte n’àuter, el frate ‘l sarà servì.” Entant è nù ora de far colazion, che però nó l’à fermà che zàcole su chel’afare ‘nzì ‘mportante. El conte Tìlio el ne ‘n parlava con segurezza, e ancia i lo zapava a far la part endo che ge voleva mossar l’amicizia per só cusìn, e l’onor per el nom compagn che i geva tuti doi, en base a le só idee che ‘l geva de l’amizia e de l’onor, ogni tant nó ‘l podéva far a men de grignar sota i bafi, per ca bèla reussìda. Ma don Rodrigo, che ‘l g’era dént enfìn al còl, e che, avèndo credù de far con calma ‘n gran colpo, l’era nà a ruar enten rafanàs, l’era pù azità per passion pù grosse, e zapà da pensieri pù fastidiosi. “De bèle zàcole,” el diseva, “i ne ‘n farà bèn sti lazeróni cì ‘ntorn. Ma che me ‘nteressa po'? cant a la zustìzia, me ne ‘n cègi: pròve nó ge n’è; cando che ge ‘n fus, me ne ‘n cegeròssi compagn: ad ogni modo, stadoman ài fat avisar el cònsole che ‘l se ‘n vàrdia bèn da far la denónzia del fato. Tanto nó i faròs engot; ma le bàtole, cando che le va per le lònge, le mé ‘nzìgera. L’è ancia massa che mì sia sta grignà fòr enzì crudelment.” “Eo fat benón,” rispondeva ‘l conte Tìlio. “Sto vòs podestà… gran testón, gran zucia vòida, gran seciabale de ‘n podestà… l’è po' ‘n gialantòm, n’òm che sa far el só dovér; e apunto cando che se g’à da far con persone ‘nzì, ge vòl pù riguardo per nó méterle enle rògne. Se ‘n contadinàz de ‘n cònsole el farà na denónzia, el podestà, per tant che ‘l sia propènso, ge vorà ben che…” “Ma voi,” à dit, en pòc’ enzispà, don Rodrigo, “voi me rovinào su tute le me fazènde, col vòs contradìrge su tut, e dàrge sora con la ós, e ancia a coionàrlo, se ocór. Ma, òstrega, che ‘n podestà no ‘l pòdia èsser bestia e restìu, cando che ‘ntel rèst l’è ‘n gialantòm!” “Ma, ‘l séo cusìn,” el dis vardàndol plen de maravéa, el conte Tìlio, - “séo che, scoménzi a créder che gébieo en pòc’ de paura? Ma diséo sul sèrio, ancia ‘l podestà…” “Ma dai, dai, nó èo dit ancia voi che ge vòl tègnerlo ‘n bòna?” “L’è vera, l’ài dit: e cando che se trata de n’àfare sèrio, ve farai véder mì che nó son en putelòt. El seo chel che faròssi per voi? Son un che naròs de persona a fàrge visita al sior podestà. Ah! saràl contènt de l’onor? E son un che i lo lageròs parlar per mez’ora del conte duca, e del nòs sior ciastelan spagnòl e da dàrge sèmper reson de tut, ancia cando che i le disés pròpri grosse. Ge peterài ìo calche paroléta sul conte zio del Consìli secrèt: el seo ben che efèto che le fa che paroléte enle récle del sior podestà. A la fìn dei conti, ‘l g’à pù bisògn el de la nòssa protezion, che voi che ‘l ve obedìssia sèmper. Narài per dalbòn e narài, e ve ‘l convìnzerai dal tut.” Dopo ste parole e àutre che ge ‘nsomiàva, el conte Tìlio l’è partì per nar a ciazza; e don Rodrigo l’è restà ìo a spetar con ansia che ‘l Gris el nidés de vòuta. A la fìn chel’ìo l’è nù a ora de disnar, a far el só rapòrto. El scompìli de ca nòt l’era sta pròpri ‘mpressionante, era sparì trei persone da ‘n paesòt e chesto l’era ‘n fato che le tamisade, sia per interès, sia per curiosità, le geva da èsser per fòrza tante, ciàude e restìi; e da na banda, chei che seva calche vergot i era massa per nar tuti d’acòrdi a nó dìr engot a ‘nzun. La Perpetua nó la podeva fàrse véder su l’us, ché sùbit l’era tompestada da chel e da chel’àuter, perché la disés cì che l’era sta a fàrge ‘nzì paura al só padrón: e la Perpetua, a pensar e tute le azion de chel fato, e avèndo ciapì de èsser stada buzerada da l’Agnese, la geva adòs na rabia de chele per ca ciativéria, che la geva pròpri bisògn de sfogiàrse. Nó l’è che la se lamentava con chesto o con chel’àuter del modo come che l’era stada ‘ngianada: su chesto nó la diséva baf; ma ‘l schèrz fat al só pòer padrón nó la podéva de segur lagiàrlo passar senza dir engot; e soratut nó la mandava zó che ‘n schèrz enzì ‘l fus sta parezà e metù en opera da chel brao putèl, da ca pòra védoa, da ca madonina dolorata. Don Abondio ‘l podeva bèn comandàrge, e ‘mpregiarla col còr che la tegnìs la bócia serada; ela la podeva ben tornar a dìrge che nó ocoréva suzerìrge na ròba sacrosanta e tanto naturale; zèrto l’è che ‘n grant secrèt come chesto l’era ‘ntel còr de ca pòra feumna, come, ‘l vìn zóven, ‘nte na bót vècla e mal zerclada, che ‘l bói, el scròcola e ‘l bói, e se nó ‘l fa nar ‘l tap per aria, el gè plànz ìo ‘ntorna e ‘l vèn fòr con la sbòfa, e ‘l spénz trà na dóva e l’àutra, e ‘l sgózzola de cà e delà, tanto che se pòl tastàrlo e dir en pressapòc’ che vìn che l’è. El Gervaso, che nó ge pareva vera de èsser per en bòt pù ‘nformà dei àutri, e che nó ge pareva na gloria da ‘ngot aver abù na gran paura, e che per aver tegnù ‘n man na ròba che spuzzava da disonèst, ge pareva de èsser deventà ancia el n’òm come tuti i àutri, e ‘l crepava da la vòia de scacheràrla. E ancia se ‘l Tòni, che ‘l pensava per dalbòn a le tamisade e ai possìboi prozèssi e prima o dopo a far i conti, ‘l ge comandas, coi pugni sota ‘l mus, de nó dir engot a ‘nzuni, ancia chesto nó g’è sta vèrs de fàrlo tàser dal tut. Tra l’àuter el Tòni, ancia el, dopo che ca nòt l’era sta fòr de ciasa de pù del sòlit, tornà de vòuta, con en pas e na zéra mai visti e con n’azitazion che i lo portava a èsser sinzéro, nó l’à podèst scònderge ‘l fato a la só spósa che nó l’era de segur muta. Cì che eva parlà de men, l’era sta ‘l Ménec’; ma perché chesto apena che ‘l geva contà la storia ai só zenitori e ‘l perché de la só spedizion, ai sòi g’era parèst na ròba ‘nzì tremenda che un dei só fiòi l’avés podést mandar a mónt n’impresa de don Rodrigo, scasi scasi nó i l’à lagià nancia finìr de contàrge chel che g’era suzèst. I g’à ‘ntimà sùbit ‘mprometèndoge castìghi, de star ben atènto a nó dir baf a ‘nzuni: e la doman dré, sicome a lori nó ge pareva de èsserse sicuradi dal tut, i l’à tegnù serà ént en ciasa, per tut el dì, e calche àuter ancor. Ma che? lori stessi po', batolàndo con i paesani e senza volér mossar de savérnen de pù de chesti, cando che se arivava a discórer de chel che g’era suzèst ai nòssi trei poréti, e del come, e del perché, e de ‘ndo che i era nadi a finìr, i ge zontava, come i lo savés tuti, che i era nadi a ‘ntanàrse a Pescarenico. Enzì, ancia sto fato l’èra nà a ruar enle zàcole de la zènt. Con tuti sti tòci de notìzie, messi ‘nsèma e po' ligiadi come se fa de sòlit, e con na sfranza che se ge tacia naturalment entel cosìr, g’era tut per far na storia làmpita e de na segurezza tale, che ogni persona con en pòc’ de testa e che la fus ancia critegóna, la podeva èsser contentada. Però ca sclapada de róbleri, azidènt massa gròs, e che l’era sta na baraónda nó la podeva èsser lagiàda fòra e che de chesta ‘nzun g’eva n’idea ‘n pòc’ bòna, chel’azidènt l’era chel che ‘mbroiava tuta la storia. Se mormorava ‘l nom de don Rodrigo: e su chesto tuti i neva d’acòrdi; per tut el rèst l’era ‘n gran strovèz e idee tute diferènti. Se parlava tant de doi róblerazzi che i era stadi visti per le strade ‘n valnòt, e de n’àuter che l’era sta ‘mplantà su l’us de l’ostarìa; ma che ségn se podéva vadagnar po' da sto fato tòt enzì da só pòsta? Se ge domandava bèn a l’òst cì che era sta ìo la sera inanzi, ma l’òst, a dàrge fé, nó ‘l se ricordava nancia se l’eva vìst zènt ca sera e ‘l pessegiàva a dir che l’ostarìa l’è come ‘n pòrt de mar. Ma pù de tut, che confondeva le teste, e ‘ngarboiava le opunion l’era chel pelegrìn che eva vist el Stèfen e ‘l Carlandrea, chel pelegrìn che i malandrini i voleva mazzàr, e che l’era partì con lori, o che lori i eva portà via. Che èrel nù a far po'? L’era n’anima del purgatòri, compàrsa per aidàr le feumne; l’era n’anima danada de ‘n pelegrìn brigante e bosiàdro, che ‘l nidéva sèmper de nòt a méterse ‘nsèma con cì che fés chele che el l’eva fat cando che l’era ‘n vita; l’era ‘n pelegrìn vìu e vero, che lori i eva volèst copàr, per la paura che ‘l zigiàs, e ‘l desdromenzàs tut el paes; l’era (vardà voiàutri, chel che se va a pensàr!) pròpri un de chei malandrini vestì da pelegrìn; l’era chesto, l’era chel, l’era tante ròbe che tuta la finezza e la speriènza del Gris nó la saròs stada assà a scoprìr cì che ‘l fus, se ‘l Gris l’aves dovèst ciapìr sta part de la storia da le zàcole dei àutri. Ma, come che ‘l lezidor el sa ben, chel che la ‘mbroiava ai àutri, l’era apunto chel che a el g’era ben presènte: dopràndo chel che ‘l seva el per entènder le àutre notìzie metùde ‘nsèma sia da el e sia dai só sòzi che l’eva mandà a tamisar trà la zènt, l’à podèst fàrge a don Rodrigo ‘n rapòrto assà complèt. El Gris el s’è serà ént con don Rodrigo ‘nla só ciàmera e ‘l g’à contà del colpo che i doi pòri spósi i eva tentà, e chesto ‘l spiegiava naturalment perché la ciasa i l’eva trovada vòida e che le ciampane le sonava a martèl, e sichè senza nar a pensar che ‘n ciasa ge fus calche traditor, come che diséva chei doi gialantòumni. Po' i l’à avisà che i era s-ciampadi; e ancia per chesto l’era fàzile trovàr le só resón; che podeva èsser el timor che dei sposi zapàdi ‘n fal, o che i era stadi avisadi da calchedun de chel’invasion dopo che l’era stada scoprìda, e po' ‘l paes che l’era tut en rafanàs. A la fin l’à dit che i se era ‘ntanadi a Pescarenico; de pù nó l’eva podèst savér e ciapìr. Don Rodrigo l’era contènt de èsser segur che ‘nzun l’eva tradì, e notar che nó restava pròve en zìro del só fato; però chesta l’è sta na contentezza che g’è passà sùbit. “S-ciampadi ‘nsèma!” l’à zigià: “’nsèma! E chel fratón brigante! Chel fratón!” ca parola la ge nideva fòr da la gola con la gràcola, e bezgolada tra i denti, che i mordeva ‘l dé: la só fegura l’era bruta come le só passion. “Chel fratón el me la pagerà. Gris! Nó son pù cì che son dalbòn… vòi savér, vòi trovar… stasera, vòi savér endo che ì è. Nó g’ài paze. A Pescarenico, sùbit, a savér, a véder, a trovar… te don càter scudi sùbit, e la me protezion per sèmper. Sta sera vòi savérlo. E chel brigante…! chel fratón…!” El Gris de nòu a l’opera; e, pròpri la sera de chel dì ìo, l’à podèst portàrge la al só dégn padrón la bòna nòva: eco ‘n che modo. Una de le pù gran consolazion de sta vita l’è l’amicìzia; e una de le consolazion de l’amicìzia l’è chela de avér calchedun che se pòl confessàrge ‘n secrèt. Alor, i amìzi i è doi a doi, come i sposi; ognun, a parlar en zeneràle, el ge n’à de pù che un: e sto fato ‘l met ensèma na ciadéna, che ‘nzun poròs trovàrge la fìn. Sichè cando n’amìzi ‘l se procura ca consolazion de méter en secrèt enla testa de n’àuter, el ge dà a chesto la vòia de procuràrse la stessa consolazion ancia el. L’è bèn vera che ‘l ge racomanda de nó dir engot a ‘nzun; e n’òbligo tale, cì che lo togés entel sènso rigorós de le parole, el desmeteròs sùbit el córs de le consolazion. Però la pràtigia zenerale l’à volèst che se è obligiadi sol a nó confessar el secrèt se non a cì che sia n’amìzi autertant fidà, e racomandàndoge el stés òbligo de tàser. E ‘nzì da amìzi fidà en amìzi fidà, el secrèt el zira e ‘l zira per ca ciadéna grandiosa, tanto che l’arìva ‘nle récle de chel o de chei endo che ‘l prìm che à parlà ‘l voleva apunto che nó l’arivàs mai. De sòlit però ge voròs tant de chel tèmp per far zircolar na nòva, se tuti i giaves sol doi amìzi: un che ge la conta, e un che ‘l ge la riconta chel secrèt da nó podér dir a ‘nzuni. Ma g’è persone fortunade che de amìzi le ge n’à a zentenàri; e cando che ‘l secrèt l’è arivà a un de sti cì, i ziri i deventa ‘nzì velòzi e ‘nzì tanti, che nó l’è pù possìbol stàrge dré. El nòs autor nó l’à podèst contar tute le bóce endo che era passà ‘l secrèt che ‘l Gris geva l’orden de giatàr fòr: ‘l fato l’è che ‘l bòn òm che eva compagnà le dòne a Monza, nidèndo de vòuta, vèrs le ùndes de nòt, col só ciarét, a Pescarenico, l’à ‘ncontrà, prima de arivar a ciasa, n’amìzi fidà, e ‘l g’à contà, en gran confidanza, l’òpera bòna che l’eva fat, e tut el rèst; e ‘l fato l’è che ‘l Gris l’à podèst, apena doi ore dopo, córer al palaz, a portàrge tut a don Rodrigo che la Lùzia e só mama le era logiade enten convent de Monza, e che ‘l Renzo l’eva zapà la strada per arivar enfin a Milan. Don Rodrigo l’à sentù na contentezza de che ciatìve per ca separazion, e la sentù crésserge ‘n pòc’ ca speranza ciatìva de arivar al só scòpo. L’a pensà a la maniera, per scasi tuta la nòt; e l’era levà bonora, con doi intènti, un zà dezìso, l’àuter apena ‘mpensà. El prìm l’era chel de mandar subitiènto ‘l Gris a Monza, per avér nòve pù fres-ce de la Lùzia, e savér se ‘l fus possìbol tentar calche vergot. L’à fat clamar sùbit chel só fedél, el g’à metù ‘n man càter scudi, i l’à lodà de nòu de la braùra che ‘l geva metù per gadagnàrsei, e ‘l g’à dat l’órden che l’eva ‘mpensà. “Sior…” el dis, dubitàndo, ‘l Gris. “Che g’è po'?” nó àite parlà ben no? “Se ‘l podés mandar calchedun àuter…” “Come po'?” “Sior lustrìssim, mì son pronto a méterge la pèl per el me padron: l’è ‘l me dovér; ma sai ancia che el nó ‘l vòl riszar massa la vita dei só servi.” “E alor?” “Vòssiorìa lustrìssima la sa bèn de che pòce taglie che g’ài su la gròpa: e… Cì son sota la só protezion; sén na brigada; el sior podestà l’è amìzi de ciasa; i sbìri i me rispèta; e ancia mì… l’è na ròba che fa pòc’ onor, ma per vìver en paze… i trati da amìzi. A Milan la divisa de vossiorìa l’è cognossùda; ma a Monza… i me cognós mì ‘nveze. E la sa ben vossiorìa che, nó fon per dìr, ma cì che podés denonziàrme, o presentare la mè crapa, ‘l faròs en bèl colpo? Zènto scudi un su l’àuter, e ‘l dirito de molàr doi bandìti.” “Eh òstrega!” dis don Rodrigo: “me ‘mpàres ‘n ciàgn da cortìu che ‘l g’à apena ‘l coràzo de petàrse adòs a le giambe de cì che passa dinanzi al portón, ma ‘l sèghita a voutàrse ‘ndré per véder se i padroni i lo protéz e ‘l g’à paura de slontanàrse massa! ” “Ma, sior padron, credi de avérge dat le pròve…” “Donca!” “Bòn, d’acòrdi,” el dis onestament el Gris, che l’era sta metù a le strénte, “alor fé cont che mì nó abia nancia parlà: g’ài en coràzo da leon, son velòze come ‘l léver, e son pronto a partìr.” “E mì nó ài dit che vàgies da tó pòsta. Tòte dré ‘n par de chei che è mèio… el Sflecià e ‘l Tira-drìt; vai con coràzo e fai véder cì che l’è ‘l Gris. Òstrega! Trei òumni come voi, che néo per i vòssi afari, cì èl che pòl avér interès a fermàrve? Ge voròs che i sbìri de Monza i fus stufi de vìver per riszar a far na ròba del zènere ‘nzì pericolosa sol per zènto scudi. E po', nó pensì de èsser enzì furèst da che man, e ‘l fato che tì sìes el me sèrvo doròs contàr ancor vergot.” Dopo avér svergognà ‘n pòc’ el Gris, don Rodrigo ‘l g’à dat órdeni pù complèti. El Gris, con i doi compagni sièlti, l’è partì sblagando n’alegrìa da bulo, ma ‘ntrà de el el maledìva Monza, le taglie, le feumne, e i ciaprìzzi dei padroni; e ‘l neva con prudenza, come ‘n lóu famà che sforzà da la lupia, con la panza lòngia che se pòl contàrge le coste, e che l’arbandona i só bos-ci sui monti scuertàdi de neo, endo che nó ‘l giata ‘ngot da magnar, e ‘l và con prudenza zó vèrs la planùra, e ogni tant el se ferma, con na zata per aria, scorlando la coa mèza pelàda, per sentìr l’odor de òm o de armi, e l’andrìzza su le récle e ‘l zira de cà e de là i òcli rossi, mossàndo ‘nsèma l’ingordìsia per el selvàdec’ e ‘l terór per el ciazzador. A propòsit, el paragon del lóu l’è tòt da ‘n lìber che ‘l sarà publicià a dì su le crociate e i lombardi, e che ‘l farà parlar de sé. L’ài ricordada perché la me pareva zusta per descrìver ca situazion, e vòi dir da ‘ndo che l’ài tòta per nó far la fegura de chel che vòl far sò le idee dei àutri. Nó voròssi che calchedun el pensas che son dré a far créder de èsser grant amìzi de l’autor de chel lìber, o che mì pòdia dopràr i só studi come che vòi. L’àutra ròba che ge premeva a don Rodrigo, l’era chela de trovar el modo che ‘l Renzo nó ‘l podés pù tornar da la Lùzia, e nancia de méter pù pè al só paes; e con sto scopo, el tramava de méter fòr le zàcole de perìcoi e tranèi, en modo che nidèndoge ‘nle récle, magiàri per via de ‘n só calche amìzi, le ge fés passar la vòia de tornar de vòuta da che bande. Però ‘l pensava che la pù segura saròs sta chela de fàrlo parar via dal stato: e per ressuìr ente chesto, ‘l vedéva che pù de le angiarìe g’averòs fat pù còmot la zustìzia. Se podeva, per esèmpi, esazerar su chel’azion fata ‘n cialòngia, fàrlo passar per n’atentato, per n’ato da ribèle, e per mèz del dotor, fàrge ‘ntènder al podestà che l’era ‘l caso de mandar calchedun a ‘mpresonar el Renzo. Però l’à pensà che a el nó ge convenìva manezàr sta fazènda; e senza star ìo a struciàrse ‘l zervèl, l’à dezìso de sentìr el dotor Azzecca-garbugli chel tant che ocoréva, per fàrge ‘ntènder el só desidèri. — Le lézi le è tante! — ‘l pensava: — e ‘l dotor nó l’è n’òca: vegot che me fàgia còmot i lo giaterà fòr de segur, calche giarbòi da ‘ndovinar a chel vilanaz: se no ge cambi ‘l nòm. — Ma (vardà come che le va a bòte le ròbe de sto mondo!) entant che don Rodrigo ‘l pensava al dotor, come a l’òm pù àbile a servìrlo ente sto afare, n’àuter òm, l’òm che ‘nzun se ‘mmazineròs, el Renzo ‘n persona, per dirlo ben, el laorava de còr a servìrlo enten modo pù segur e pù velòze de tuti chei che ‘l dotor l’averòs mai savèst giatàr fòra. Ài vist de pù che ‘n bòt, en brào pòpo, a dir la verità ‘n pòc’ busnèl pù del normale, ma che da chel che ‘l fa véder, el móssa de volér deventàr en gialantòm; disévi che l’ài vist, pù de ‘n bòt endafarà ‘n valnòt a paràr sota ‘l cuèrt en sclàp de porcelini d’India, che l’era tut el dì che i coréva ‘nten pradestèl. L’avròs volèst fàrli nar tuti ‘nsèma ‘ntel stalòt, ma l’era fadìgia petàda via: un el nèva da na banda, e ‘ntant che ‘l pastorèl el coréva per paràrlo ‘nsèma a tuti i àutri, n’àuter, o doi o trei i s-ciampava da l’àutra, corèndo dapertut. De modo che, dopo èsserse ‘n pòc’ rot le bale, ‘l se adatava a lagiàrge far chel che i voleva, e prima ‘l spenzéva dént chei che era pù vizìni a l’us, po' ‘l neva a tòr i àutri, a un, a doi, a trei come che l’era bòn. Na ròba del zènere ne convièn far coi nòssi personazi: sistemada la Lùzia, sen nadi de corsa da don Rodrigo; e adès gen da arbandonàrlo per nàrge dré al Renzo, che even perdù de vista. Dopo la dolorosa separazion che en contà prima, el Renzo ‘l s’era ‘nvià a pè da Monza vèrs Milan, con l’umor che tuti pòl emmazinàrse fazilment. Arbandonar la ciasa, desméter de far el só mistér, ma pù de tut, slontanàrse da la Lùzia, giatàrse su ‘nte na strada, senza savér endo che l’avròs trovà da sistemàrse; e tut per ciàusa de chel slandrón! Cando che col pensier ge nidéva ‘n ment una o l’àutra de ste ròbe, el se ‘mpegolàva tut ‘nla rabia e ‘ntela vòia mata de vendiciàrse; però dopo ge nideva ‘n ment ca orazion che l’eva dit su ancia el col só bòn frate ‘nla glésia de Pescarenico; e alor el se pentìva: ge se desdromenzàva ancor la stìzza; ma vedèndo na Madonina ‘mpiturada su ‘nten mur, el se tiràva zó ‘l ciapèl, e ‘l se fermava n’àtimo a pregiar de nòu: tanto che, ente chel viàz, col pensier l’à copà e resussità don Rodrigo, almen vìnti bòte. La strada alor, là passàva sbassada tra doi rive, pléna ‘n pàuta, sassi e solciada da doi rodare fonde, che, dopo ‘n ploviàzi, le deventava rìgole; e ‘n zèrte part pù basse, la se ‘mplenìva de aca tanto che podéves nar con la bàrcia. Enchel pòsto, en sinteròt ért fat a s-cialìni el mossàva che àutri viazadori i era passadi da chela per nar a travérs i ciampi. El Renzo, dopo che l’è nà su per un de sti sinteròti sul cólem del terén pù àut, la vist la gran massa del Dòm che se distingueva solàgna ‘nla planadura, come se nó la pozàs en mèz a la zità, ma la fus en mèz al desèrt. El s’è fermà de colp, desmentegiàndo tuti i só fastìdi e ‘l s’è metù a considerar, ancia da lontan, ca maravéa straordenaria che l’eva sèmper sentù parlar da cando che l’era pòpo. Ma dopo calche moment, voutàndose ‘ndré, l’à vist tra ziel e tèra ca grésta de montagne, e l’à cognossù benón la zima pù àuta, chela del Resegone, e chesto i l’à fat enrabiàr tant, l’è sta ìo per en pòc’ a vardàr vèrs chei monti, plén de destrani e po', sèmper avelì come ‘n ciag bastonà, ‘l s’è voutà e l’à seghità per la só strada. En pòc’ al bòt l’à scomenzià a véder ciampanìi e tór e cùpole cuèrti; alor l’è nà zó ‘nla strada e l’à ciaminà ancor per en bèl pezzòt, e cando che ‘l s’è acòrt de èsser pròpri vizìn a la zità, ‘l g’è nà dausìn a ‘n viazador, e, con na svérgla, con tut el trato che l’era bòn, ‘l g’à dit: “el me scùsia, sior.” “Che voléo po', brào putèl?” “Poròsseo ‘nsegnàrme la strada pù curta per arivar al convent dei ciapuzìni ‘ndo che g’è ‘l padre Bonaventura?” Chel’òm che ‘l Renzo l’eva fermà, l’era ‘n bacàn che abitava enten paesón ìo vizìn, che cà doman l’era na a Milan, per zèrte só ‘ncombènze, e l’era dré a nir de vòuta, senza avér combinà ‘ngot, con na prèssa de chele, e nó l’anvedéva l’ora de arivar a só ciasa, e volintéra l’averòs fat a men de fermàrse. Con tut chesto, senza palesar tuta ca prèssa, ‘l g’à respondù con tuta la bòna creanza: “caro putèl, conventi ge n’è de pù che un: ge voròs che me saveròsseo dir vergot de pù prezìso de chel che zerciào.” El Renzo alor l’à tirà fòr da la sbòza la lìtera del padre Tòfol, e i ge l’à fata véder a chel sior, che, lezèndo: porta orientale, i ge l’à data ndré disèndo: “seo fortunà, brào putèl; el convent che zerciào l’è pòc’ lontan da cacì. Zapà sta viòta cì a manzància: l’è ‘n scùrtol: enten pòci minuti doròsseo arivar a ‘n ciantón de ‘n ciasament lònc’ e bas; l’è ‘l lazarét; costezà ‘l fossà che i lo zirconda e doròsseo arivar a véder la porta orientale. Né ént, e, dopo trei o caterzènto passi, vederéo na piazéta con dént bèi olmi: ìo g’è ‘l convent, nó podéo sbagliar. Che ‘l Sioredio ‘l ve assìstia, brào putèl.” E, compagnàndo le ultime parole con en zèst educà de la man, e ‘l se n’è nà. El Renzo l’è restà maraveà e consolà de la bòna creanza dei zitadìni vèrs la zènt che nidèva da la ciampagna; e nó ‘l seva che l’era ‘n dì fòr da l’ordinari, en dì che i siori i se ‘nchinava a la pòra zènt. la fat la strada che i geva ‘nsegnà e ‘l s’è giatà a la porta orientale. Nó ge vòl però che ‘l lezidor el se làgia tòr da chel che sto posto ‘l ge fa nir en ment encòi endì. Cando che ‘l Renzo l’è na ént da ca porta, la strada de fòr la neva drìta per tuta la longezza del lazarét; e po' la neva avanti a bissabòa strénta, tra doi strupàie. La porta l’era doi pilastri, con sora na tetòia, per scuertar i portoni, e da na banda g’era na ciasòta per i dazieri. I muri i neva zó ‘n pendéza malament e ‘l terén l’era scuertà da ‘n mùcel de rùderi e tòci petadi cì e ìo a caso. La strada che se daverzéva davanti per cì che neva ént da ca porta, nó la saròs mal paragonada a come che se presenta ‘ncòi la strada che ven ént da porta Tosa. En fossatèl ge coréva ‘n mèz, pròpri arènt a la porta, tanta da spartìrla ente doi stradèle pléne ‘n vòute, scuertade de pólver o de lòcia, conforma la stazón. Ente chel punto ‘ndo che l’era, e ‘ndo che la g’è ancia adès ca viòta che i clama del Borghét, el fossatèl el se perdeva ‘nte na fògna. Ìo g’era na colòna, con sora na crós, che i clama de san Dionìzi: a man dritta e a man anzància g’era òrti seràdi via da strupaie e, ogni tant, g’era ciasòte abitade perlopù da lavandàri. El Renzo ‘l va ént, e ‘l passa; nancia un dei dazieri ‘l ge abada: na ròba che g’era parèst stramba, sicome che da chei pòci só paesani che podeva scacherar de èsser stadi a Milan, l’eva sentù contar ròbe grosse de perquisizion e de ‘n mùcel de domande che i ge feva a chei che arivava da la ciampagna. La strada l’era desèrta, en modo che, se nó l’avés sentù en zonzonar lontan che voleva dir gran movimento, g’averòs emparèst de nar ént ‘nte na zità vòida. Nàndo avanti, senza savér che pensar, l’à vist per tèra zèrte strìse biànce e mòrbie, come la néo; ma néo nó ‘l podéva èsser, perché nó la vèn a strìse, e de sòlit nancia ente ca stazón. El s’è plegià sora una de che strìse, l’à vardà, l’à tocià e ‘l s’è acòrt che l’era farina. — Gran bondanza, — el dis entrà de el, — ge dev’èsser a Milan, se i pòl petàr via ente sto modo tuta sta grazia de Dio. I né deva da ‘ntènder che la ciarestìa l’era dapertut. Eco come che i fa per tègner chièta la pòra zènt de ciampagna. — Ma, fati pòci passi, arivà de flànc’ de la colòna, la vist, ai pèi de chesta, vergot de ancor pù strambo; l’à vist sui s-cialìni del pedestal zèrte ròbe sparpaiade ìo, che de segur nó l’era sassi, e se le fus stade sul banco de ‘n pistór, nó s’averòs podèst clamarli che panéti. Ma ‘l Renzo nó ‘l fidava a créder, enzì sùbit, a chel che ‘l vedeva; perché, òstrega! nó l’era ìo ‘l posto dei panéti. — Spèta che vardàn che razza de afare che l’è chesto, — el dis ancor ‘ntrà de el; l’è nà vèrs la colòna, ‘l s’è sgobà, e ‘l n’à tòt su un: l’era per dalbòn en panét tondo, biancìssim, de chei che de sòlit el Renzo ‘l magnava ‘nle feste grande. — L’è pan per dalbòn! — el dis con la ós fòrta; tanta l’era la só maravéa: — enzì i lo seumna ‘nte sto paes? pròpri chest’an? e nó i se tòl nancia la brìgia de tòrlo su, cando che ‘l cròda per tèra? Che ‘l sia ‘l paes de la cucagna chesto? — Dopo chìndes chilometri de strada, a l’aria fres-cia de la matìna, chel pan, ensèma a la maravéa, l’à desveglà l’apetìt. — Tòrlo? — ‘l pensava ‘ntrà de el: — poh! I l’à lagià cì per i ciagni; poderà ben gòderlo ancia ‘n cristian. A la fin, se sàuta fòr el padron, ge ‘l pagerài. — Pensàndo ‘nzì, ‘l s’à metù ‘n s-ciarsèla chel che ‘l geva ‘n man, e ‘l n’à tòt su n’àuter e i l’à metù ‘nl’àutra; en tèrz, l’à scomenzià a magnàrlo; e po' ‘l s’è metù a ciaminar ancor, pù maraveà che mai, e desideros de savér vergot de che storia che ‘l fus chela ìo. Apena che ‘l s’era ‘nvià, l’à vist nìr zènt dal de ént de la zità, e l’à vardà con atenzion chei che era a la testa. L’era n’òm e na feumna, e calche pas endré ‘n putelòt; tuti trei con na ciàrgia adòs, che ‘mpareva che nó i fus nancia bòni de portarla, e tuti trei i vardava fòr pròpri mal. I àbiti o le sdrazze ‘nfarinade; ‘nfarinà ‘l mus e per de pù desfeguradi e rossi come le brase; i ciaminava gòbi per el peso e ancia pléni ‘n dolor come se i giaves i òssi róti. L’òm el portava a stento su le spale ‘n gran sac’ de farina, che, sicome che l’era sbusà, cì e ìo en pòc’ i la seumnava, ogni bòt che l’antopava da calche man, o che ‘l se sgiambìrlava. Ma pù brut l’era véder la feumna: con na panza fòr de misura, che ‘mpareva fus tegnù fadigosament da doi brazzi plegiadi: come na marmitóna con doi màngi; e sota a chel panzón piciava fòr doi giambe, nudìze ‘nfìn sora ‘l zinòcel che nideva inanzi sgiambirlànt. El Renzo l’à vardà pù ben e l’à vist che chel gran còrp l’era la vèsta che ca feumna la tegnìva per na récla, con dént farina tanta che podeva stàrgen, e ancia ‘n pòc’ de pù; en modo che, scasi a ogni pas, en sgolava via na sventàda. El putelòt el tegnìva con tute doi le man su la testa ‘n gran zestón colmo de panéti; ma, sicome ‘l geva le giambe pù curte dei sòi, el restava ‘n pòc’ ‘ndré, e, per zapàrli ogni tant el neva ‘n pòc’ de corsa, e dal zestón crodava zó per tèra calche panét. “Péten via ancor n’àuter, bòn da ‘ngot che nó ses àuter,” la dis só mare, mossàndoge i denti al putelòt. “Mì nó i péti via no, i cròda zó da só pòsta: come g’àite da far pò?” à respondù ‘l popàt. “Ih! ses fortunà, che g’ài le man ocupade,” la dis ca dòna, azitàndo i pugni, come se la ge dés en bòn scorlón a chel pòr putèl; e ‘ntant con chel moviment l’à fat sgolar via pù farina ela de chel che ocoréva per far doi de che michéte che g’era crodà zó al putèl. “Dai, dai,” dis l’òm: “tornerén endré a tòrli su o i li binerà su calchedun àuter. Se patìs la fam da arcant tèmp: adès che g’è ‘n pòc’ de bondanza, godéntela ‘n santa paze.” Entant arivava àutra zènt da la porta; e un de chesti, svizinàndose a ca feumna, ‘l g’à domandà: - ‘ndo se va po' a tòr el pan? “Pù avanti,” la g’à respondù; e cando che i è stadi lontani dés passi, l’à g’à tacià tontonànt: “sti contadini birbanti, i nirà a spazzolar tute le pistorìe e i magazini, e per noi nó resterà pù ‘ngot.” “En pòc’ per un, tormento che nó ses àuter,” el dis el só òm: “bondanza, bondanza.” Da che ròbe che ‘l vedéva e che ‘l sentiva ‘ntorna a el, el Renzo l’à scomenzià a ciapìr che l’era arivà ente na zità ‘ndo che g’era la solevazion e che chel’io l’era ‘n dì de rivoluzion. En pratigia, tuti i se togéva chel che i voleva, conforma la fòrza e la volontà, e per pagiament e deva pache. Ancia se voròssen descrìver el nòs contadìn come na persona pù che da gialantòm, la storia la ne òbligia a dir che ‘l só prìm pensier l’era sta de sodisfazion. Ancia el el geva pòc’ da èsser content de come che neva le ròbe e per chesto el pendeva a véder de bòn òcel tut chel che podeva cambiar ca situazion en calunque modo. E èstra, come per tanti òumni del só tèmp, l’era d’acòrdi con ca idea che zircolava che se manciava ‘l pan, la colpa l’era de chei che speculava e dei pistori, e per chesto ‘l pendeva a pensar che l’era zusta tòrge ‘l da magnar a lori che, ‘nzì ‘l pensava, i ge negiava ‘l pan a tuta la pòra zènt. Però l’à dezìso de tègnerse fòr da chel rebalton e ‘l s’è tegnù content de èsser dirèt da ‘n ciapuzìn, che ‘l g’averòs ofèrt en refugio e che ‘l giaveròs fat da pare. Con sti pensieri ‘n ment e oservando ‘ntant i ribèli ciargiàdi de farina e pan, l’à fat el tòc’ de strada che ge restava per arivar al convent. Endo che adès g’è chel bel palaz, con ca lògia bela àuta, g’era alor, e la g’era ‘ncor che nó l’è tanti ani, na piazéta e zó ‘n font a chesta g’era la glésia e ‘l convent dei ciapuzìni con càter ólmi grandi ìo davanti. Sén contenti con chei càter lezidori che per fortuna nó à vist le ròbe en che condizion: vòl dir che i è zóveni, e tant, e nó i à bù tèmp, enfìn adès, de combinar tante stupidade. El Renzo l’è nà drìt a la pòrta, l’à metù ‘nla sbòza chel mèz panét che ge restava, l’à tirà fòr e tegnù preparà la lìtera, e l’à sonà ‘l ciampanèl. S’è daverzù na finestrèla con la só ramada, e s’à fat véder la fazza del frate portenar a domandar cì che l’era. “Un che vèn da la ciampagna, che ‘l pòrta al padre Bonaventura na lìtera ‘mportante del padre Tòfol.” “Déme cì,” dis el portenar, slongiàndo na man vèrs la ramada. “No, no,” dis el Renzo: “G’ài da consegnàrgela mì ‘nle só man.” “Adès nó l’è cì ‘ntel convent, no.” “El mé làgia nìr ént, che l’aspeterai.” “Fé come che vé dìgi mì,” à respondù ‘l frate: “né a spetar en glésia, che ‘nzì ‘ntant podéo far en pòc’ de bèn. Entel convent, per adès, nó se pòl nìr ént.” E dit enzì l’à serà la finestrèla. El Renzo l’è restà ìo, con la só lìtera ‘n man. L’à fat dés passi vèrs la porta de la glésia, per nar dré al consìli del portenar; ma prima l’à pensà de nar a dar n’oclada al tumulto. L’à traversà la piazéta, e ‘l s’è portà su l’or de la strada, e ‘l s’è fermà, con i brazzi ‘ncrosadi sul stómec’ a vardar a man zancia, vèrs el dé ént de la zità endo che 'l fólò l’era pù tant e ‘ndo che g’era pù ghèto. Tut chel rebalton l’à ‘ngolosì ‘l Renzo. — Nén a véder, — ‘l dis entrà de el; l’à tirà fòr la só mèza michéta, e sboconzelàndo, ‘l s’è ‘nvià da ca banda. Entant che l’è dré a nar, noi ve conterén, pù velòze possìbol, le ciàuse e ‘l prinzìpi de chel sconvolziment.
Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla nè affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sè e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perchè le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro. Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno nè in cielo, nè in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, nè di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore. Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sè una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo. Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che danno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perchè il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, nè che avessero molta paura; bisognava potere: e un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacchè, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare. Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì. La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi. Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. “Ecco se c’è il pane!” gridarono cento voci insieme. “Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame,” dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: “lascia vedere.” Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. “Giù quella gerla,” si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. "Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, "dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. “Al forno! al forno!” si grida. Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono 1. A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada. Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: “pane! pane! aprite! aprite! ” Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. “Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia,” grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodochè quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega. “Ma figliuoli,” predicava di lì il capitano, “che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, ne per l’anima, nè per il corpo. A casa, a casa.” Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. “Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato,” diceva agli alabardieri: “ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.” “Indietro! indietro!” gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dànno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio! “Figliuoli,” grida: molti si voltano in su; “figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.” “Pane! pane! aprite! aprite!” eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta. “Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiu! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giu quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi...... Ah canaglia! ” Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. “Canaglia! canaglia!” continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata. Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra. “Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora!” s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti. La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: “ aspetta, aspetta, ” si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne. Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perchè fosser soddisfatti, quanto perchè gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perchè tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura. A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece. “Ora è scoperta,” gridava uno, “l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era nè pane, nè farina, nè grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza! ” “Vi dico io che tutto questo non serve a nulla,” diceva un altro: “è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori. ” Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco. “Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli.” Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo. “Io? ” diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: “ io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca. ” “Quello che protegge i fornai,” gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, “è il vicario di provvisione. ” “Son tutti birboni,” diceva un vicino. “Sì; ma il capo è lui,” replicava il primo. Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee. “Scellerati!” esclamava un altro: “si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.” “Pane eh?” diceva uno che cercava d’andar in fretta: “sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.” Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodochè potè contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta. — Questa poi non è una bella cosa, — disse Renzo tra sè: — se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi? — Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: " largo, largo, " passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. - Cos’è quest’altra storia? - pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non potè fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione. L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. “Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!” Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sè; perchè, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro. Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: " io vo; tu, vai? vengo; andiamo, " si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso. Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia. Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascinarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva! Dalla piazza de’ mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: “avanti, avanti.” C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: “c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco. “Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. “Dal vicario! dal vicario!” è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.
Chel’ìo l’era ‘l secont’an de magra . L’an prima, le scorte che era vanzà dai ani ‘ndré le era stade assà fin a ‘n zèrto punto, per chel che manciava; e la popolazion l’era arivada, né téncia né famada, ma de segur senza ‘ngot de metù via ‘nfìn a la sésla del 1628 che l’è l’àn dela nòssa storia. Sichè sta seslada tanto strangossàda a conti fati l’era ‘ncor pù grama de chela da prima, da na banda perché nó g’era na dré le só stazón zuste (e chesto nó sol entel milanes, ma per na gran part dei paesi e zità ìo ‘ntorna) e da l’àutra per colpa de la zènt. El dan e ‘l sparnazzar de la ghèra, de ca bèla ghèra che en parlà prima, l’era tale che ente ca part del stato pù dausìna, tanti ciampi, pù de l’ordenari, i restava grézi e arbandonadi dai contadini, che ‘nveze de podér vadagnar el pan col laóro, i era costréti a nar a domandar la ciarità. Ài dit: pù de l’ordenari, perché le tasse cressùde fòr de misura, mésse su con n’angordìsia e na pazzìa senza fin, ensèma a la condóta de sèmper de la trùpa che era lozàda ‘ntei paesòti, che ancia entei tèmpi de paze i se comportava come fus nemìzi (come che è testomonià dai documenti del tèmp), e àutre ciàuse che cì adès nó l’è ‘l caso de dir, zà da calche an i produséva plan plan chel efèto doloros en tut el teritòri del milanes: pròpri sti fati che sén dré a parlar i descrìu el crésser tut de colp de na condizion che ormai g’era da ‘n gran pèz. Apéna che la seslàda l’era ruada e ‘mmagazinada, le requisizion per l’armada, compagnade dal sòlit sparnazzar dei soldadi, le à ciausà en svoidament de le scorte, e la s-ciarsità la s’è fata sentìr sùbit. Ensèma a la ciarestìa, è arivà ancia ‘l cressiment dei prèzzi, n’efèto doloros sì, ma ‘nten zèrto modo utile. Però cando che la situazion l’ariva a ‘n zèrto livèl, vèn fòr sèmper (o almen enfìn a adès è sèmper nù fòr; e se l’è ‘nzì adès, sibèn tuti i studi de òumni lezùdi, figuràrse a chel tèmp!) na convinzion tra la zènt, l’era che la ciàusa nó l’è mai la s-ciarsità. Se se desméntegia de avér temù e prevìst la ciarestìa; tut de colp se scomenzia a créder che de gran ge ‘n sia per tuti e che la ciàusa de le rògne la sia sol entel fato che nó se ‘n vént assà per tut el consumo. Ste convinzion, dal tut senza fondament, nó le sta né ‘n ziél né ‘n tèra, ma ‘ntel stes tèmp l’è da sfògo a la rabia e l’è n’ensògni de speranza. La colpa de la ciarestìa e del cressiment dei prèzzi la ge nideva data a chei che se ciaparava ‘l formént, fus vero o fàus, ai bacanazzi che nó i vendeva tut el gran enten dì sol, ai pistóri che i lo comprava, e ‘n zenerale a calunque che giàves ancia pòci stari de gran o che sol se credés che la fus enzì. Ste persone le deventava bersàlio de tuti i reclami de la zènt e i deventava la mira de l’òdio de na fóla fata sia da siori che da poréti. Se diséva con segurezza endo che era i magazzini, i depositi de gran, pléni fin al cólem, che i neva per sóra, che i era ‘mpontadi; se diseva ‘l nùmer, sproposità, de sàci; se parlava con segurezza de na sforàzine de formént, formentón e formentàz che nidéva spedìda de scondión a l’èstero; e ìo i zigiava autertant e con la stessa segurezza che ‘l só gran i lo mandava a Milan. Se pretendeva dai zùdizi le lézi che ai pù tanti ‘mpar sèmper, o almen enfìn a adès i è sèmper emparèsti, ‘nzì zùsti, ‘nzì sèmplizi, enzì adatàdi a far sautàr fòr el gran, scondù, emmurà, sepolì, come che i diseva, e a far tornar la bondanza. I zùdizi, a dir la verità, vergot i feva: come chela de dezìder el prezzi massimo de zèrte ròbe, e ‘ntimar multe a cì che se refudàs de vénder, e àutri decrèti del zènere. Sicome però tuti i pefèi de sto mondo, per tant gaiardi che i sia, nó i pòl sbassàr el bisògn de magnar, e nancia de far nìr vìveri fòr de stazón, e sicome chesti spezialment nó i geva de segur la virtù de fàrnen nìr da ‘ndo che ge ‘n fus sta en bondanza, ‘nzì ‘l mal el durava e ‘l cresséva. El pòpol ‘l ge déva la colpa de n’efèto ‘nzì a la s-ciarsità e a la debolezza dei remèdi, e alor la pretendeva a urli e zìgi soluzion che le fus pù fòrte e segure. E per só sfortuna, de chel’òm, la popolazion l’à ‘ncontrà pròpri chel che ‘l rispondéva ai só desidèri e a le só intenzion. Entant che manciava ‘l governator don Gonzalo Fernandez de Cordova, che ‘l comandava la batalia de Casale del Monferrato, a Milan geva dat el cambi ‘l gran cancelliere Antonio Ferrèr, ancia el spagnòl. Sto òm l’eva ciapì – e cì èl po' che nó l’avròs ciapì – che aver el pan a ‘n prèzzi zusto l’è ‘n fato che tuti i avròs desiderà, ma l’à pensà, e l’è sta cì che l’à combinà l’eror, che bastàs un dei só pefèi per arivar a chesto. Sichè l’à dezìso ‘l prezzi massimo del pan (cacì i la clama meta, cioè ‘l calmiér de le ròbe da magnar) al livèl che saròs sta zusto sol se ‘l gran el fus sta vendù de sòlit a trentatréi lire al star; ma però ‘n realtà l’era cressù enfìn a otanta lire. L’è sta come se na feumna, volèndo tornar zóna, la pensàs de reussìrge cambiando la data de nàssita su le ciarte. Pefèi men ensensàdi e men spervèrsi, pù de na bòta, i era restàdi ìo come se nó i fus stadi nancia fati, perché nٖó l’era possìbol méterli ‘n pràtigia nancia a volérlo. Però, sto pefèl cì, ‘l nidéva osservà perché, l’era pròpri chel che voléva la zènt, che la garantìva che tuti i obedìs e ‘nzun toleràva che ‘l nidés tòt a la lizéra o desmentegià. Sùbit tuti i è córsi ‘nle pistorìe a pretènder el pan al prèzzi che era sta fissà da la léze; e i lo pretendeva con en far resoluto e supèrbo, pù fòrt per via del fato che g’era furia, facoltà e léze ‘nsèma. Nó g’è bisògn de domandar se i pistóri i se lamentàs. I cognéva ‘mpastar, mesdàr, méter entel forno e tòr fòr dal forno senza desméter mai, perche ‘l pòpol el seva che l’era n’órden sforzà, e tuti i assediava le pistorìe per profitar de ca mana ‘nfìn che la durava. Laorar senza mai desméter, sgobar e azitàrse pù del sòlit, per po' zontàrgen, ciapiréo ben che nó l’era pròpri na bela ròba. Da na banda, i zùdizi i eva metù su punizion putòst salade; da l’àutra, ‘l pòpol el pretendéva de èsser contentà. E apena che ‘l pistor el mossàva ancia ‘l minimo trabalamént, la fóla i lo assediava, brontolàndo con en far ciatìo e arivàndo ancia a ‘mprométer de ónzerlo con l’ónt de bós-c’ che ‘l saròs sta pròpri ‘l pèzo de tut. L’era muz: ge voléva ‘mpastar, enfornar, sfornar e vénder senza mai desméter. Però, per farli nar avanti ‘nca imprésa, nó l’era assà che i zapàs órdeni e nancia che i giaves el pipacul, l’era nezessàri podér fàrla. E se ca situazion la fus durada ancor en pòc’, nó i saròs stadi pù bòni de nar inant. I pistori i se lamentava coi zùdizi de cant che l’era inzùsto chel pesaròl che i geva ‘mponèst, e i amprometéva de arbandonar el laoro, de ‘mplantàr ìo la pala ‘ntel forno e nàrsen. Però i seitava a far el possìbol, sperando che prima o dopo el gran canceliér l’avròs ciapì le só resón. L’Antonio Ferrer, che ‘ncòiendì se diròs n’òm col pél sul stómec’, el rispondeva che i pistori i eva gadagnà assà e che i averòs gadagnà àuter tànt entel tèmp a nìr, cando che fus tornà la bondanza. E po' ‘l feva ‘ntènder che se saròs podést, forse, pensar a n’indenìzo apòsta per lori, ma che ‘ntant i cognéva seitàr a laorar e nar avanti. Nó se pòl dir che chel’Antonio Ferrer el fus pròpri convinto de le reson che ‘l diseva ai àutri, o se l’era furbo a spetar che ‘l fus calchedun àuter a scanzelar el só pefèl dopo aver osservà che l’era pròpri ‘mpossìbol mantègnerlo. El fato l’è però che l’è sta fermo ‘nla só dezision. A la fìn i decurioni (en consìli del comun fat da nòbili che l’è durà enfìn al 1796) i g’à scrìt na lìtera al goernator per dìrge che la situazion l’era putòst critica. Geva da èsser el a giatàr fòr en modo per sistemar ca rògna. Don Gonzalo, empetòlà ‘nfìn sora i ciavéi ente le fazènde de la guèra, l’à fat chel che ‘l lezidor el se ‘mmàzina de segur: l’à nominà na comissión e a chesta ‘l g’à dat l’otorità de destinar per el pan en prèzzi che ‘l podés nar ben; na ròba, ‘nsoma, che podés nar ben tant per un che per l’àuter. Sti comissari i s’è giatàdi, o, come che se diséva cì a la spagnòla, ente ca parlada dei ufìzi de chel tèmp, i s’era “giuntadi”; e dopo mili riverènze, complimenti, parole tut en tàifel, sospìri, sospension, zàcolade per aria, tira e mòla, spenzùdi tuti a tòr na dezision che geva da nar ben per tuti, sibèn che i seva benón chel che voleva dir la sièlta e ‘l riszo che la comportava, i à dezìso de aumentar el prèzzi del pan, convinti che nó fus possìbol n’àutra soluzion. I pistori i à tirà ‘l flà, ma ‘l pòpol el s’è ‘nfurià. La sera prima de chel dì che ‘l Renzo l’era arivà a Milan, le strade e le piazze l’era formigiari de zènt, che strassinadi da la rabia de tuti, comandadi da l’idea de tuti, cognossènti o furèsti, i se metéva ‘nsèma a sclapi, senza èsserse metùdi d’acòrdi, scasi senza nascòrzersen, come gozzàte de aca che slìta su ‘nte ‘l stes órbet. Ogni parlada la aumentava la segurezza e la passion de chei che scoutava, come ancia de chel che l’eva proferìda. En mèz a tante tèste ciàude, g’era però ancia arcante persone pù calme e capàzi che le osservava divertèndose, come che le ròbe le se complicava sèmper de pù. Le se deva da far per fàrle deventar ancor pù confusionarie, disèndo parole e contàndo stòrie ‘nventade a pòsta, che le persone zà azitàde le era pronte a créder. Le geva ‘n ment de sfrutar ca trebiliana e nó le voléva che la se chietàs prima de aver bù calche vantàzi. Zentenàri de zènt i era nadi ‘ntel lèt con l’impression che nó i seva ben nancia lori, che calche vergot geva da èsser fat, e che enten calche modo vergot se saròs fat. En valdì, le strade le era zà pléne de sclapi sparpaiadi de cà e de là: pòpi, feumne, òumni, vècli, operai e pouréti i se metéva ‘nsèma a caso. Cì se sentìva en mormorìo confùs de tante ós; ìo calchedun el parlava con en tono passionà e i àutri i ge batéva le man. Un ‘l ge feva a chel che era ìo dausìn la stessa domanda che n’àuter geva apena fat, n’àuter el ripeteva na sclamazion che l’eva apena sentù. Dapertut se sentìva rengiar, sfide, maravée: pòce le era le parole che formava tute che parlade. Nó manciava àuter che n’ocasion, na spenzùdèla, na messa ‘n mòto calunque, per passar da le parole ai fati; e nó l’à tardivà tant. La doman a bonora, i giarzoni i nidéva fòr da le botégie dei pistori, con en zèrlo ciargià de pan e i neva a portarlo ‘nle sòlite ciase. El prim che s’è fat véder de chei pòri putelòti enten ròz de zènt, l’è sta come fus crodà ‘n fulminànte ‘nte la polveriéra. “Vàrda se nó ‘l g’è ‘l pan!” le zigiava zènto ós tute ‘nsèma. “Sì, per i sioràzzi, che i nòda ‘nla bondànza e i vòl fàrne morìr de fam noiàutri,” el dis un; el ge va arènt a chel putelòt, el slòngia la man vèrs l’ór del zèrlo, e ge dà ‘n tirón, e ‘l dis: “Làgeme véder.” El putelòt el deventa rós, bròldo, ‘l trema, el voròs dir: lagiàme nar; ma la paròla la ge rèsta ‘n bócia; el mòla i brazzi e ‘l varda de liberàrli en prèssa da le rìmene. E ‘ntant i zigiava: “zó chel zèrlo.” Entel stes moment tante man i lo branca e ‘l croda per tèra; el pano che lo scuertava i lo péta per aria e ìo ‘ntórn se sènt en bonodór ciàut. “Ancia noi sen cristiani e gen dirito a magnar el pan,” dis el prim, el se tòl na michéta i la àuzza e i la fa véder a la fóla e po' ‘l ge ‘mplanta i denti. Le man le pességia a tòr michéte che le sgola per aria; ente n’àtimo i à fat sparìr tut. Chei che nó geva tocià ‘ngot, enrabiadi a véder el gadàgn dei àutri, e spenzùdi da la fazilità de l’impresa, i s’è movèsti a sclapade en zércia de àutri zèrli: tante che i ne ‘n giatava e tante i ne ‘n sgrinfava. E nó gera nancia bisògn de dàrge adòs ai giarzoni perché chei che, per só scarògna, i se giatàva ìo ‘n zìro, a la malparada, i pozava ‘n tèra da só pòsta ‘l zèrlo, e via a giambe levade. Con tut chesto, chei che restava senza ‘ngot, l’era, senza paragón, i pù tanti; ancia chei che era bòni de ciaparàrse ancia pòc’ nó i era sodisfati de chel che i s’eva tòt, e, mesdàdi con chesti e chéi gera i furbi che eva studià de profitar de chel rafanàs ancor pù grant. “Al forno! Al forno! I zigiava.” Ente la strada che i clama la Corsia dei Sèrvi, g’era, e g’è ancia encòi en dì, ‘n pistor che à mantegnù el stes nom. Sto nòm, entel dialèt de la Toscana, vòl dir el forno de le fèrle, envéze ‘ntel dialèt milanes l’è formà da paròle ‘nzì strambe, lunàstege e pòc’ cognossùde, che ‘l taliàn nó l’è nancia bòn de figuràr el sòn. La fóla la s’è dirèta vèrs ca direzion. I laorànti de la pistorìa i era dré a ‘nterogar chel giarzon che era apena nù de vòuta dopo aver fat la consegna, e sto cì tut confùs e azità el contàva bezgolando la só bruta speriènza; enchel moment se sènt el rumor de passi e zigi mesdadi ‘nsèma; el rumor el crés e ‘l se svizìna; se vét nir i capi de chel folò 'ncazzà. Serà, serà, ‘mprèssa, ‘mprèssa: un el cór a domandar aiùt al capetano de zustìzia; i àutri i sèra ‘mprèssa la botégia, e i amponta ‘l porton. La fóla la se bina de fòr, e la scomenza a zigiar: “Pan! Pan! Daverzé! Daverzé! Pòci momenti dopo, arìva ‘l capetano de zustìzia, con en ròz de armadi. “Fé pòsto, fé pòsto, putèi: a ciasa, a ciasa; fé passar el capetano de zustìzia,” el zigiava el e i àutri armadi. La zènt, che nó l’era ancor massa tanta, la fat en pòc’ de pòsto; en modo che sti cì i stadi bòni de arivar a postàrse, ‘nsèma ancia se nó i era pròpri ordenadi, davanti a la porta de la botégia. “Ma putèi,” el prediciava da ‘ndo che l’era ‘l capetano, “che féo po' cì? Né a ciasa, a ciasa. Ge néo no, timor de Dio? Che diràl po' ‘l re nòs padron? Nó volén fàrve del mal, ma né a ciasa. Da bravi! Che òstrega voléo far po' cì, tuti ‘mmucladi? Engot de bòn, né per l’anima, né per voiàutri. Né a ciasa, a ciasa.” Ma chei che vedéva ‘n fazza ‘l capetano, e i sentìva le só parole, ancia se i aves volèst obedìrge, diséme voi come che i avròs podèst far, spenzùdi come che i era, e cialciàdi da chei de dré, ancia chesti spenzùdi dai àutri ancor de drè, come le onde da le onde e zó e zó enfìn a ‘ndo che arivàva la fóla che la cresséva sèmper de pù. Al capetano scomenziava a manciàrge ‘l respìr. “Féli dar endré che pòdia tiràr el flà,” el ge diséva ai soldàdi: “ma nó sté fàrge mal a ‘nzun. Provàn a nar ént enla botégia: baté su l’ùs, féli star andré.” “’Ndré! ‘ndré!” urlava i soldàdi, petàndose adòs tuti ‘nsèma ai chei davanti, paràndoi andré con le frizze de le alabarde. Chesti cì i urlava, i se tirava ‘ndré come che i podéva; i déva le s-cene ‘nte le sbòze, i gómbeti ‘nle pànze, i cialciàgni su le ponte dei pèi de chei che era de dré: tuti i se tócia, se fa na moltitudine che chei che se giatàva ‘n mèz, i avròs pagià vergot de bèl per èsser da n’àutra banda. Entant davanti a la pòrta s’è fat en pòc’ de vòit: el capetano ‘l bat su l’ùs, pò ‘l torna a bàter e l’urla che i ge davèrzia: chei de ént i varda fòr da le finestre, i vèn zó de corsa, e i davèrz; el capetano ‘l và ént, el clama i soldadi che i se fìcia dénter tuti, un dopo l’àuter, i ultimi tegnèndo fòr la fóla con le alabarde. Cando che tuti i era de ént i à metù tanto de s-ciarnaz, e ‘mpontà per bèn el porton; el capetano ‘l va su àut de corsa, e ‘l vàrda fòr da la finestra. Òstrega, che formigiar! “Putèi,” el zìgia: tanti i vàrda ‘nsu; “putèi, né a ciasa. Ge sarà ‘n perdón per tuti chei che va a ciasa sùbit.” “Pan! pan! daverzé! daverzé!” l’era le parole che se sentiva pù bèn ente chel tremendo bói-bói che la fóla la déva de risposta. “Fé zudìzi, putèi! Vardà vèh! Séo ancor en tèmp. Dai, né, né a ciasa. Pan ge n’averéo; ma nó l’è chesto ‘l modo. Ehi!... ehi!... che féo po' zó ìo! Ehi!... a ca porta! Sacrato sacrato! Vedi, vedi: zudìzi! Vardà vèh! Vardà che l’è ‘n delìto gròs vèh. Adès vèni mì. Ehi! ehi! ruàla con chei fèri; zó le man. Vergogna! Voiàutri milanesi, che, per la vòssa bontà, séo nominadi ‘n tute l mondo! Sentìme, sentìme: séo sèmper stadi bravi pu… Ah canàia!” El cambiament de l’umor del capetano l’era sta ciausà da ‘n sas, che una de che tèste ciàude geva tirà, e che i l’eva zapà su la zucia, pròpri su l’anzància de ca part che l’è ligiada al profondo de la cossiènza. “Canàia, canàia” ‘l seitàva a urlar, entant che ‘l serava ‘mprèssa la finestra e ‘l se tirava dént. Però, per tant che l’avés zigià con tut el flà che ‘l geva, le só parole, bòne e ofensìve, l’è s’era perdùde per aria, scuertàde da chel gazèr de urli che feva tuta ca fóla che gera sota. Chel che ‘l capetano ‘l diséva de véder l’era ‘n gran traboldéri: sassi, fèri che la fóla l’eva binà su da tèra, i li dopràva per smaciar el porton e sfondàrlo, entant i provava a ciavàr fòr le ‘nferiàde da le finestre. E chel laoro ìo l’era zà a bòn punto. Entant, padroni e giarzoni de la botégia, che i vardàvo zó da le finestre dei piani de sora, armadi de sassi (che probabilment i eva raspà su dal salezà de ‘n cortìu), i urlava e i feva zèsti che ‘ntimava la fóla zó sot per fàrla desméter. I mossava i sassi e i feva ségn de volérgei tiràr. Però sicome i à vist che nó nidéva fòr engot, i à scomenzià a tiràr sassi sul sèrio. Nancia un de chei sassi l’era petà via, perché tuta fóla l’era ‘nzì struciada che ancia ‘n granelòt de mèi, come che se dis, nó l’avròs podèst crodàr per tèra. “Ah lazeróni! Ah lùdri! El chesto ‘l pan che déo a la pòra zènt? Ahia! Odìo! Ohi! Adès, adès!” i urlava chei sota. Pù de un l’era conzà pròpri mal; doi putèi i è restàdi ìo morti. La furia l’à fat crésser la forza de ca moltitudine: el porton l’è sta sfondà, le ‘nferiàde ciavàde fòr; e ‘l rì de zènt l’è passà ént dapertut endo che ‘l passava. Chei che era de ént, vìst la malparada, i è s-ciampadi su le stradùge: el capetano, i soldadi, e ‘ncalun de ca ciasa i è restadi ìo ‘ncuzzoladi ‘ntei ciantoni; zèrti, nando fòr dai bocéri, i neva come i giati su per i cuèrti. A véder el pan la zènt la s’è desmentegiada de vendiciàrse. Tuti i s’è petàdi vèrs i ciassoni e tut el pan l’è sta fat sparìr ente n’àtimo. Arcanti ‘nveze i è corsi al banco, i à sforzà la seradura e i à brancà manade de soldi per métersei en s-ciarsèla e i è partìdi ciargiadi de bèzzi per po' tornàr de vòuta a robar el pan se ‘n fus restà calche michéta. El folò ‘l s’è sparpaià per el fóndec’. E i à metù man ai saci, i l’à strassinadi, rebaltadi: g’era cì che blocava ‘n sac’ tra le giambe, i lo daverzéva e per portàrlo pù fazilment el petàva via na part de la farina; gera cì che zigiando “Spèta, spèta,” el se sgobava a tòrla su da tèra per méterla entel grombiàl, o ‘nten fazolét o ‘ntel ciapèl; calchedun el corìva vèrs la credènza el togéva en tòc’ de pasta che se slongiava e ‘l ge s-ciampava da tute le man; n’àuter, ciaparà ‘n sacét de farina, i lo levava per aria con orgòi. L’era de sèito ‘n moviment: cì che neva, cì che nideva, òumni, feumne, pòpi, spintóni, urli, e dapertut se levava ‘n polverón bianc’ che ‘l se pozava e ‘l se levava destendèndo ‘n vel che ‘l confondeva ogni ròba. De fòra na fóla fata da doi prozession, una che neva fòr col robà e n’àutra che la feva de tut per nìr ént per robar, le se ‘ncrosàva e le se ‘ntraversava de sèito. Entant che ca pistorìa ìo l’era metùda sot sora, nó ge n’era nancia una de le àutre che la fus stada pazìfica e al segur. Però nó g’è sta n’àuter pòsto ‘ndo che s’era radunà ‘nzì tanta zènt da podér méter ensèma n’azion del zènere. En zèrte pistorìe, i padroni i eva arzià grupi de aiùt e i eva pensà a difènderse; ente àutre, endo che i era men pronti, i arivava a na spèzie de compromés: i deva fòr pan a le persone che s’era radunà davanti a le botége, a pato però che dopo i se ‘n nés. E ste persone le se ‘n neva, ma no perché le fus contènte, ma perché i soldadi e le guardie, pur schivàndose ‘l tremendo Forno de le Fèrle, i se féva véder da àutre bande tanti assà da mantègner controladi i slandróni, pur che nó sia sta na fóla. Ente sto modo, la trebiliana al forno de le Fèrle la seghitava a aumentar, perche tuti chei che voleva combinarla grossa i se portava da chéla, endo che chei come lori l’era i pù e nó g’era perìcol de èsser punidi. A sto punto l’era la fazènda, cando che ‘l Renzo che l’eva ormai sgramolà ‘l só panét, el nidéva avanti per el borgo de porta orientale, e ‘l se ‘nviava, senza savérlo, pròpri ‘ntel pòsto ‘n mèz al rafanàs. E ‘l ciaminava a trati velòze, a trati frenà da la fóla; e ‘ntant che ‘l neva, el vardava e ‘l steva con le récle su drìte, per sentìr ente chel zonzonar confus de parole, calche nòva pù bèla de chel che l’era la situazion. E eco che en pressapòc’ le parole che l’era sta bòn de ciapìr en tuta la strada che l’eva fat. “Adès en ciapì!” el zigiava un. “È nù fòr la vergognosa bosìa de chei disonèsti che i diséva che nó g’era pan, né farina, né gran. Adès la verità l’è nuda fòr e nó i pòl scònderla ‘nzun; nó i sarà pù bòni de ‘mbroiàrne. Viva la bondanza!” “Vé ‘l dìgi mì che tut chesto nó ‘l conta ‘ngot,” el diséva n’àuter: “l’è ‘n bus enl’aca; anzi la narà pèzo, se nó se fa na bòna zustìzia. El pan el nirà a èsser bommarcià, ma i ge meterà ént el verén, per far morìr la pòra zènt, come le mos-ce. Zà i dis che sen en massa; i l’à dit en giunta ; e ‘l sai mì de segur, per avérlo sentù mì con le mé récle, da na mé comare, che l’è amica de ‘n parènt de ‘n sguàtorlo de un de chei siori.” Parole nancia da dìr el diséva, con la sbòfa a la bócia, n’àuter rabiós, entant che ‘l tegnìva con na man en tòc’ de fazzolét sui ciavéi despetenadi e spórci de sànc. Calche persona che era ìo dausìn a el, per consolàrlo, el ripeteva le só parole ‘n ségn de èsser d’acòrdi. “Fé posto, fé pòsto, zènt, per piazér; i làgîa passar en pòer pare de famìlia, che ‘l pòrta da magnar ai só zìnc’ pòpi.” Enzì diséva un che nideva sgiambirlànt sota ‘n gran sac’ de farina; e tuti i se ‘nzignava a tiràrse da na man, per fàrge pòsto. “Mì?” diséva n’àuter, scasi sotaós, a ‘n só compagn: “mì me ‘n vón veh. Ài vivèst assà per savér come che le va ste ròbe.” Sti pampalùghi che adès i fa tut sto gazèr, doman e passàn, i starà seràdi dént en ciasa, col pipacul. Ài zà vist zèrti tipi, zèrti furbazzi, che zira ‘ntorna e che i fa finta de ‘ngot, ma ‘ntant i osèrva e i tòl nòta de cì che g’è e cì che nó g’è: e dopo, cando che tut è finì, se fa i conti, e cì che g’à da pagiar, el pagia. “Chel che protéz i pistori,” la zigiava na osàzza forta, che ‘l Renzo l’à sentù sùbit “l’è ‘l vicari del panàdec’!” “I è tuti briganti,” el diseva un ìo dausìn. “Sì; ma ‘l capo l’è el,” diseva chel da prima. El vicari al panàdec’ del pòpol l’era n’impiegato sièlto tra sei nòbili proponèsti dal consìlio dei decurioni. Sto vicari l’era presidente sia de sto consìlio sia del tribunal del panàdec’, formà da dódes nòbili, e ‘l só mistér prinzipale l’era l’aministrazion de le scorte de damagnar èstra a àutre ròbe. En tèmp de ciarestìa e tanta ignoranza, cì che geva sta càrica, volér o no, ‘l geva tute le colpe per i patimenti e i desàsi del pòpol, a men che nó l’aves fat come ‘l Ferrer (che l’eva tòt dezision straordenarie per calmar zó i tumulti). Però, na dezision compagna nó l’era ‘ntei poteri del vicari, e forse nó l’era nancia ‘nle só intenzion. “Slandróni!” el sclamava n’àuter: “se poderà far pézi? i è arivadi a dir che ‘l gran ministro l’è ‘n vècel rimbambì, per tòrge ‘l crèdit, e comandar lori da só pòsta. Ge voròs far en gran polinar, e méterli dént, a vìver de sglaón e de lènt, come che i voleva far con noiàutri.” N’òm che ‘l vardàva de nàrsen en prèssa a só ciasa ‘l disèva con dispiazér: “Pan, ah? Àuter che pan: l’era sassi, e grossi, da ‘n chilo, che nidéva zó come tompèsta. E che pache! Sènti le còste s-ciavizzade. Nó ‘n védi l’ora de arivar a ciasa.” El Renzo sbalordì da che parole confùse e dai spintóni de la fóla, l’è arivà a la fìn davanti a la pistorìa. Ìo l’à giatà che la pù tanta zènt l’à s’era zà sclarìda, e l’à podèst osservar con calma tuti i dani de chel rafanàs apena suzèst: i muri desgrostàdi, pleni de busi de le sassàde, le finestre destrùte e destaciàde e ‘l porton batù zó. — Chesta vèh, l’è bèla, — dis el Renzo ‘ntra de el: — se i fa ‘nzì con tute le pistorìe, endo èl po' che i farà ‘l pan? entei pozzi? — Ogni tant, calchedun nidéva fòr da la pistorìa portàndose dré vergot de chel che restava: en tòc’ de ciassón, n’asmaròt, la stangia de na gràmola, na bància, na zésta, perfìn el lìber dei conti. Zigiàndo “fé passàr, fé passàr” i se feva strada tra ‘l folò. Tuti i se direzéva, e se vedéva benón, da la stessa banda. — Che èl po' ‘ncor sta storia? — el pensava el Renzo; e ‘l g’è nà dré a un che eva fat na fassìna de as róte e de s-ciàie, sto cì i se l’à metù su le spale, e ‘l s’è ‘nvià, come i àutri, per la strada che costéza ‘l flànc’ sul revèrs del dòm, che l’à zapà ‘l nòm dai s-cialìni che g’era ‘n bòt, e che da pòc’ nó g’è pù. Ancia se ‘l geva na gran vòia de curiosar chel che suzzedéva, chel bacanòt de Renzo, nó l’à podèst far a men de fermàrse a vardàr en su per prezziar ca gran fàbricia che l’era ‘l dòm, a bócia davèrta. L’à pessegià per zapàr chel che ‘l s’eva sièlto per nàrge dré; voutà ‘l ciantón l’à dat n’oclada ancia a la fazzàda del dòm, che l’era ‘ncor gréza e da ruàr; sèmper dré a chel’òm che ‘l neva en mèz a la piazza. La zènt la deventava sèmper de pù man a man che se néva avanti, ma a chel da le as i ge féva posto: chesto ‘l sfendéva la moltitùdine e ‘l Renzo, stàndoge tacià, l’è arivà ancia el en mèz a la piazza. Ìo g’era ‘n splàz vòit, e ‘n mèz, en mùcel de bràse, chel che restava de tute che arzàre che en dit sora. Entórn l’era tut en batimàn e de pèi, en regolèri de zìgi de vittoria e de maledizion. L’òm da la fassìna i l’à petàda su chel mùcel; n’àuter, col zonclón de na pala mèz brusà l’à slargià fòr ben la brasa: el fu mel crés e devènta spés; se vét la flàma; a véder chesto la fóla l’aumentàva i urli e i zìgi. “Via la bondanza! Che crèpia i sfrutatori! Che mòria la ciarestìa! Che crèpia chei dal panàdec’! che crèpia la giunta! Viva ‘l pan!” Destrùzer colìni e asmaròti, méter sotsóra le pistorìe e méter enle rògne i panetéri nó l’è de segùr el modo pù zùst per garantìr che ‘l pan el ge sia per tuti; però sta considerazion l’è massa difìzile da èsser ciapìda da na fóla. Epur, ancia senza èsser en gran sienziato, na persona la pòl ciapìr sùbit sta verità, enfìn che nó la ge tócia; ma, a seitàr a parlàrnen e sentìr che i nen parla, pòl nar a ruàr de desmentegiàrse de sta ròba tanto sèmplize. En realtà, sto pensiér el g’era nù ‘n ment sùbit al Renzo, come che savén, e ‘l seghitava a nìrge ‘n ment. Però l’à dezìso de nó scoutàrlo, perché tra tuti i musi che ‘l vedéva ìo ‘ntorna, nó ge n’era un che ‘mpareva che ‘l disés: “Se me sbagli, corézeme, perché per chesto te ringrazierài.” Le flame de chel falò le se era smorzàde de nòu; nó se vedéva pù ‘nzun che portas àuter materiàl per tègnerlo ‘mpizzà, e la zènt la scomenziava a stufàrse. A sto punto è na fòr la ós che al Cordusio (na piazéta o crosàra pòc’ lontana), era sta assedià n’àuter forno. En situazion come chesta, l’è fàzile che na sèmplize ós la devèntia sùbit na realtà. La notìzia l’à des-ciadenà la fóla che tuta ‘nsèma la geva ‘l desidèri de córer ìo: dapertut se sentìva dir: “Mì vón, vènes tì? Vèi che nén!” La moltitudine la s’è sclarìda e l’è deventàda na spèzie de prozession. El Renzo, envéze, ‘l restava ‘ndré, e ‘l se movéva apéna, strozzegià da ca marèa de zènt. Entant el pensava se l’era mèio nìr fòr da chel bacàn e tornar al convent a zerciàr el padre Bonaventura, o nàrge dré a la fóla per véder chel che suzzedéva. A la fin à venzù ‘ncór en bòt la curiosità. Però l’à dezìso de nó petàrse en mèz a la confusion, col riszo de fàrse mal o pézi, ma de mantègnerse en pòc’ lontan per osservar. Trovàndose ‘n pòc’ pù lìbero da la fóla, l’à tirà fòr el secónt panét, ‘l n’à mordù via ‘n bocón e ‘l s’è ‘nvià dré a ca prozession en tumulto. El Renzo, da la piazza, l’eva zà zapà ca viòta strénta e curta de la Pescherìa vècla e, a travèrs de ca arciàda de sbighèz, l’è arivà ‘nla piazza dei Merciandèi. Ìo ‘nchel pòsto i era pròpri pòci chei che, passàndo davanti a la nìza che piciàva fòr en mèz a la lòza de la ciasa che alor se clamava Colègio dei Dotori, senza dar n’oclàda a ca gran statua che g’era su, a chel mus sèrio, rùstec’ e ‘ngrintà e nó dìgi assà, che l’era don Filìpo II, che, ancia se l’era fat de màrmol, el déva na gran sudizion, con chel braz fòr drìt empareva che ‘l fus ìo per dìr: “Adès ge pensi mì, marmàia.” Ca statua adès nó la g’è pù per en caso unico. Zirconzìrca zèntosetanta ani dopo sta storia che vé contàn, en dì calchedun el g’à cambià la zùcia, el g’à tòt via da la man el bastón del comando, e cambià con en stilét; a la statua po' i g’à dal nòm Marco Bruto. Conzàda ‘nzì la statua l’è restada forse per en par de ani; ma, na domàn, calchedun che nó ge plaseva Marco Bruto, anzi che nó ‘l ge néva pròpri zó, i l’à tiràda zó con na fum, fasèndoge zènto dispèti; mutilada dei brazzi e de le giambe e ridóta a ‘n blòc de preda i l’à strozzegiàda per le strade e dopo, stufi e contenti, a la fìn i la petada cissà ‘ndo. Cissà chel che averòs pensà Andrea Biffi, el scultor che l’eva fata, se l’avés savèst come che la néva a ruàr. Da la piazza dei Merciandèi, la marmàia l’è nada, passando per n’àutra arciada, en via dei flustagnai, e da ìo l’à s’è perdùda entel Cordusio. Apena arivadi tuti i se ziràva sùbit vèrs la pistorìa che era sta dit. Però, ‘nvéze de giatàr na fóla tuta unita e d’acòrdi, come che i se spetava, i à vìst sol pòce persone ferme dinanzi a la botégia che l’era seràda. Drè a le finestre se vedeva zènt armàda, pronta a difènderse. A véder chesto, zèrti i è restàdi, zèrti i blestemàva e zèrti àutri i grignava. G’era cì che se zirava a spiegiar a chei che nidéva chel che suzzedeva, cì che se fermava perché ‘l se sentìva malsegùr, cì che proponéva de tornar endré, e cì che ‘nvéze se ‘mpontava a volér nar avanti. La fóla l’era tut en rafanàs, tra spintóni, frenàde, dubi e ‘n zigiar confùs de idee tute divèrse. Tut de colp, dal folò s’è sentù na ós che zigiava: “La ciasa del vicari del panàdec’ l’è cì vizìna: nén a far zustìzia e a svalisàrla!” Empareva che che parole le disés chel che l’era l’intenzion de tuti, putòst che na proposta nòva. Sùbit tuti ‘nsèma i à tacià a urlar: “Dal vicari! Dal vicari!” e la moltitudine l’è nada ‘nsèma vèrs la strada ‘ndo che g’era la ciasa de chel’impiegato che l’era ormai deventada ‘l bersàlio de la só rabia.
Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco; e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta. “Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!” Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta.... Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacchè era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza. Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacchè, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spedirono subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla. L’uffiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli. Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse. “Oibò! vergogna!” scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benchè muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. “Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!” “Ah cane! ah traditor della patria!” gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. “Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dàlli, dàlli!” Cento voci si spargono all’intorno. “Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dàlli, dàlli!” Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un “largo, largo,” che si sentì gridar lì vicino: “largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!” Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: “animo! andiamo!” La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura. Tutt'a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: “Ferrer! Ferrer!” Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega; chi benedice, chi bestemmia. “È qui Ferrer! — Non è vero, non è vero! — Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. — No, no! — È qui, è qui in carrozza. — Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! — Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. — No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! — Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario! ” E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere, il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata. Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più nè forza, nè motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi. I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a loro parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. “Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer!” E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario, “per andar subito.... in prigione: ehm, avete inteso? ” “È quel Ferrer che aiuta a far le gride?” domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale. “Già: il gran cancelliere” gli fu risposto. “È un galantuomo, n’è vero?” “Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.” Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza. Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzio di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: “pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia.” Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sè: — por mi vida, que de gente! — “Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane! ” “Sì; pane, pane,” rispondeva Ferrer: “abbondanza; lo prometto io,” e la mano al petto. “Un po’ di luogo,” aggiungeva subito: “vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita:” e soggiungeva sottovoce: “si es culpable.” Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: “adelante, Pedro, si puedes.” Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. “Di grazia,” diceva anche lui, “signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.” Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: “in là, via, un po’ di luogo, signori;” alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perchè potesse passare senza arrotar piedi, nè ammaccar mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferrer. Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; “venite pure avanti,” diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. “Adelante, presto, con juicio,” gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer. La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. “Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato... si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! Guardaos: non si facciano male, signori. Pedro, adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Cosa?” domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il "cosa?", era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari. Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere. Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo, lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino. La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: “pane e giustizia;” e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il desideratissimo ospite. “Presto, presto,” diceva lui: “aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso.... per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco.... Ehi! ehi! signori, un momento,” diceva poi ancora a quelli di dentro: “adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga!” Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita. Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto. “Presto, presto,” diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: “sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!” “Presto, presto,” ripeteva Ferrer: “dov’è questo benedett’uomo?” Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come potè, verso Ferrer, dicendo: “sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto.” “Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto.” Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sè: — aqui està el busilis; Dios nos valga! — La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni. La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza potè, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella. Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sè tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. “Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. E troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male... si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera.” Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacchè sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: “beso a usted las manos:” parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perchè l’ufiziale non intendeva il latino. A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: “ohe! ohe!” senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. “Levantese’ levantese; estàmos ya fuera,” disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: “ah!” esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, “que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe.” “Ah! per me, non voglio più impicciarmene,” diceva il vicario: “me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale.” “Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad,” rispose gravemente il gran cancelliere. “Sua maestà non vorrà la mia morte,” replicava il vicario: “in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.” Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi.
El pòr vicari ente chel moment l’era dré a poussàr dopo aver disnà malvolintéra e senza apetìt e senza pan fres-c’; entant l’aspetava che finìs, con na zèrta azitazion, tuta ca confusion, senza ‘mmazinàrse mìgia che tut chel gazèr el ge saròs nù tut adòs a el. Calchedun, prima che arivàs la fóla, l’èra córs col ciavàl per avisàrlo del perìcol che da ìo a ‘n pezzòt saròs arivà. I só servi, che i eva zà sentù ‘l remor che nidéva da la strada, i vardava spaventadi da ‘ndo che arivava ‘l ghèto. Entant che i scoutàva l’avertiment, i à vist che arivava la testa de la fóla e i cór sùbit a avisar al padron. Entant che chesto ‘l pensa a s-ciampàr, e a come far a s-ciampar, n’àuter l’è nù a dìrge che l’èra massa tardi. I servi i è arivadi a serar ént porte e scuri zùst a ora, come cando che è dré a nìr en temporalàz e la tompèsta. El regolèri ‘l cresséva sèmper de pù, ‘mpareva ‘n tòn, e l’amplenìva l’aria e ‘l rembombava ‘ntel cortìu; ogni ciantón de la ciasa l’era scombussolà. En mèz al gazèr ai urli e ai zìgi, se sentìva pròpri bèn le sassade fòrte e spésse contra ‘l porton. “El vicari! El tirano! El strozzìn! El volén! vìu o mòrt!” Chel sbrìs el ziràva da na ciàmera a l’àutra, bròlt, senza flà, batèndo ‘nsèma le palme de le man, racomandàndose al Sioredio e ai só servi, che i resistés e che i ge trovàs el modo de fàrlo s-ciampar. Ma come far po'? e da ‘ndo po'? l’è nà sora, su le stradùge e da na sfessidura l’à vardà zó ‘nla strada vedèndo ‘n folò de zènt furiosa. El sentìva benón i urli che i domandava la só mòrt. Ancor pù stremì el s’è tirà ént e ‘l s’à zercià ‘n pòsto ‘ndo che nar a scònderse e sentìrse pù segur. Encuzzolà ‘nchel cianton el scoutava con atenzion, sperando che chel rafanàs tremendo el cialàs e che ‘l tumulto ‘l se calmàs zó. Ma ‘nveze ‘l rumor el deventava sèmper pù fòrt, i urli sèmper pù crudéi, e i colpi su la porta i era ancor pù séci. Zapà ancora da n’ataco de schechèo, el se strupava le récle per nó sentìr. Po', come ‘l fus nà fòr da mat, el sgringenava i denti, ‘l storzéva ‘l mus, l’andrizzava fòr i brazzi e ‘l feva i pugni, come se con chei zèsti ‘l podés tègner la porta serada. Per àuter, nó se sa de segur chel che ‘l feva ente chel moment, dato che l’era da só pòsta, e la storia la pòl sol emmazinàrsel. Per fortuna che l’è abituada a fàrlo. Sto bòt el Renzo, ‘l se giatàva pròpri ‘n mèz al tumulto, ma no perché ‘l fus spenzù da la fóla, ma perché ‘l s’era petà ént de propòsit. Cando che l’à sentù la prima propòsta de copàr calchedun, l’à sentù ‘n gran scombussolament: a riguardo del grìpete nó ‘l seva bèn se l’era zùst o sbaglià en ca situazion ìo, ma l’idea de ‘n delìto la g’à fat sùbit ribréz. Pur essendo convinto, a sentìr le acuse de la fóla contra ‘l vicari, che chesto ‘l giavés la colpa se gera la ciarestìa e che ‘l fus en tirano con i poréti, l’eva ancia sentù, ente tut chel ghèto, calche ós che la diséva de volér salvàrlo. Alor l’à dezìso de concórer a sto sfòrz e, con sto scòpo, ‘l s’è svizinà scasi ‘nfìn al portón che i geva dat adòs. Ìo ‘nzì l’à vist ca moltitudine de zènt che ‘n tuti i modi la provàva a bàter zó l’us: gera cì che a sassade el smaciàva sui clòudi de la seradura per fàrla sautàr, cì che laurava con pù inzègn coi pali, s-ciarpèi e martèi, e cì che, con chel che i geva ‘n man – prede, cortèi spontadi, bastoni, perfin con le óngle – el desgrostava ‘l mur, per tòr fòr i matóni e per davèrzer na crèpa. Entant, cì che nó podéva dar na man coi brazzi, l’uzzava i àutri coi urli, ma ‘ntel stes tèmp, restando ìo ‘mmucladi, i deva da dir a chei che laorava e che zà i era ‘ntrigiadi ente tut chel rebaltón. En realtà, a bòte suzét, ancia ‘nte chei momenti ìo, che chei che voròs far de pù i finìs per èsser chei che è pù daidadir. I zùdizi, apena savèst chel che suzzedéva, i à mandà sùbit na domanda de aiùt al comandante del ciastèl de Porta Giovia e chesto l’à mandà arcanti soldàdi. Però, tra ‘l moment che i à dat l’alarmo e che le trupe le se sia metùde ‘nsèma, che le se sia ‘nviade, e che le sia arivade la ciasa l’era zà zincondàda da na marèa de zènt e i s’è fermadi prima de svizinàrse massa a la fóla. L’ufizial che li comandava nó ‘l seva chel che ‘l geva da far. G’era ìo, lagiàmel dir, àuter che ‘n mùcel de zènt zóni e vècli, òumni e feumne che vardàva fermi. Ai órdeni che i ge deva, de sfantàrse e de far pòsto, i rispondeva con en mormoramént lònc’ e soturno, e ‘nzun se movéva. Sbaràrge adòs a ca moltitudine, ge ‘mparéva a l’ufizial, estra che na crudeltà, ancia pericolós assà, perché l’averòs podèst far enfuriar i pù ciàudi; e po', nó l’eva nancia zapà ordeni seguri per far na roba del zènere. Davèrzer ca fóla, spintonàrla da le bande e nar avanti ‘ndo che g’era da far órden ‘l saròs sta ‘l mèio de tut, ma a reussìrge l’era ‘l fato. Cì èl po' che séva se i soldàdi i podeva nar i nanzi tuti ‘nsèma senza che ‘nzun ge dés adòs? Perché se ‘nveze i se fus sparpaiàdi, i avròs ris-zà de èsser sozetàdi da la fóla e l’era pézi che pézi. I dubi del comandante e la trupa che l’èra stada ìo ferma, nó i à fat àuter che convìnzer la fóla che ancia lori i geva paura. Chei che era arènt ai soldàdi i vardàva fìs entei òcli con en far da buli; chei che era ‘n pòc’ pù lontani i li stuzgiava a fàrge zèsti col mus e a tòrli per i coioni; pù ‘ndré, tanti nó i seva nancia che g’era ìo i soldàdi e nó i ge obadava nancia. Entant che era dré a bàter zó la ciasa la seghitava senza preocupàrse de àuter che nó ‘l sia de far el só mistér, entant che la fóla la spenzéva con urli e zigi chei che destruzéva. Tra tuti chei che g’era ìo, se féva véder en vècel che l’eva passà tuta la vita da linzéra, che l’era el stés en spetàcol; i só òcli sbatùdi e rossi i era spalancàdi e ‘l mus plén de fìze, ‘l se torticlava enten sgrignotolàr crudél e contènt. Con le man auzzàde sóra i só ciavéi bianci che i mossava ‘n ségn de la só vita disonèsta, l’azitava per aria ‘n martèl, na còrda e càter clòudi da vara. Con chesti ‘l prediciava de volér encloudàr el vicàri sul portón en bòt che i l’eva copà. “Che vergògna!” l’à sclamà ‘l Renzo, tut scombussolà a sentìr che parole e a vardàr tanti che ‘mpareva che i ge dés resón. Però, l’à vist che tante àutre persone le era scandolizàde come el. “Vergognós! Volénte robàrge ‘l mistér del sassìn? Copàr en cristian? Come podénte sperar che ‘l Sioredio ‘l ne dàgîa ‘l pan pò, se combinàn robe ‘nzì brute? El ne manderà saéte, àuter che pan!” “Can da l’òstrega! traditór de la patria!” à zigià, voutà vèrs el Renzo, con en mus da ‘ndemonià, un de chei che, ‘n mèz a tut chel regolèri, l’eva podèst sentìr che sacrosante parole. “Spèta, spèta! L’è ‘n sèrvo del vicari, vestì da contadìn: l’è na spia: zàpel, zàpel!” Ìo ‘ntorna s’à sentù zènto ós. “Che g’è po'? endo èl po'? cì èl po'? En sèrvo del vicari. Na spìa. El vicari vestì da contadìn, che ‘l s-ciampa. Endo èl po'? ‘ndo èl po'? zàpel, zàpel!” El Renzo l’è restà mut, stremì e scasi umilià e l’averòs volèst scomparìr dal tut. Arcante persone che gera ìo ‘ntorna i l’à zircondà con chela de protèzerlo, e con la ós pù fòrta i vardava de parlàr sora a le ós pù ciatìve. Però, chel che l’à salvà per dalbòn l’è stà en zìc’ che de colp s’à sentù ìo vizìn: “Fé passàr, fé passàr! Arìva l’aiùt, fé passàr, ehi! Che èrel po' ca ròba? L’era na s-ciala lòngia che calchedun portava per pozàrla a la ciasa e nar ént da le finèstre. Ma per fortuna, ca idèa, che l’avròs fat en modo che l’impresa la fus pù sèmplize, nó l’era fàzile da méter en pràtigia. Chei che la portàva, doi, un davanti e un de dré e àutri doi che la tegnìva da le bande, i era de sèito spitonàdi da la fóla e i feva fadìgia a tegnìrla àuta. Un, che ‘l geva la testa ‘ntra doi s-cialìni e i la portava con le spale, ‘l sgengiàva perché l’era sghizzà dal pés, che l’era come ‘n zóu che nó stéva fermo mìgia. N’àuter, spenzù da la fóla, l’à perfìn perdù la ciàrgia e la s-ciala senza chei che la portava la batéva su le spale e le còste; emmazinàve i bèrgemi de chei che se zapàva le pàche. Àutri i pessegiàva a zapàr la s-ciala ficiàndose sota con le spale e dàndo ‘l colp coi àutri e i zigiàva “Dai! Dai, nidè che nén!”. La s-ciala la néva inanzi a sàuti e l’era sbatùda de cà e de là. Ca s-ciala però l’eva desvià e scombussolà le zènt che ge deva adòs al Renzo, e alor chesto l’à profità de sta situazion per mocàrsela. En prinzìpi ‘l s’è movèst con prudenza, vardando de nó dar ente l’òcel, e dopo spenzèndo con i gómbeti ‘l s’è slontanà da chel posto che per el l’era deventà pericolós. L’à dezìso de arbandonar chel tumulto pù prést che ‘mprèssa e de nar dalbòn a zerciar o spetar el padre Bonaventura. Tut de colp, forenzìma a la fóla, è scomenzià ‘n moviment che ‘l s’è slargià per tut la moltitudine; và fòr la ós che passa de bócia ‘n bócia: “Ferrer! Ferrer!” Sto nòm, a sentìrlo, ‘l procurava maravéa, contentezza, rabia, approvazion, crìtegia; zèrti i lo clàma, zèrti i vòl fàrlo tàser; cì che l’è d’acòrdi e cì che lo négia, cì che lo benedìs e cì che lo maledìs. “G’è cì ‘l Ferrer! — Nó l’è vera, nó l’è vera! — Sì, sì; viva Ferrer! Chel che à metù ‘l pan pù bòn marcià. — No, no! — L’è cì, l’è cì ‘n ciaròzza. — Che ‘nterèssa po'? che ge n’ampòdel po'? noi nó volén enzun! — Ferrer! viva Ferrer! l’amìzi de la pòra zènt! el vèn per portàr en presón el vicari. — No, no: i conti i fén noi: ‘ndré, ‘ndré! — Sì, sì: Ferrer! che vègnîa ‘l Ferrer! e ‘l vicàri ‘n presón!” E tuti, auzzàndose su la pónta dei pèi, i se voutàva a vardàr da ca banda da ‘ndo che i prediciava che era arivà ‘l Ferrer. Auzzàndose tuti ‘nsèma, i vedéva né pù né men, tant che se i fus stadi con i pèi postadi ‘n tèra, però tuti i se auzzàva lostes. Enfati, da l’àutra banda de la fóla, da chela ‘ndo che gera i soldàdi, era arivà con la ciaròzza Antonio Ferrer, el gran ministro, che, rendèndose cont de aver envià via ca solevazion coi só erori e la só testa dura, l’era nù per véder se l’era bòn de calmàrla zó, o almen, vardar che nó suzzedés vergot senza rimèdi che l’era ‘ncor pèzo. El vardava de méter a fruto la simpatìa che ‘l geva, però senza meritàrsel. Cando che g’è tumulti de pòpol, g’è sèmper en grupo de persone che, perché i è teste ciàude, o convinti esaltadi, o che g’à intenzion ciatìve, o sol perché le g’à ‘l maledét gusto de far gazèr, le fa de tut perchè la situazion la devèntia ‘ncor pù ‘ngiarboiada. Chesti cì i dà i consìli pù rabiósi e tremendi, i zìnzegia ‘l regolèri tute le bòte che ‘l se calma, e ‘mpar che nó i vòbia mìgia che ‘l tumulto ‘l finìssia o almen che ‘l se càlmia. Ma per fortuna che g’è ancia n’àuter grupo de persone che con la stessa forza e testardàzine la fa de tut per avér l’efèto contrari. Zèrti, i lo fa per afezion o per simpatìa vèrs cì che è ‘n perìcol; zèrti àutri i se comporta ‘nzì sol perché i g’à oror vèrs el sanc e i fati pù spervèrsi. El ziél i li benedìssia. Ente ognuna de ste doi part, i è bòni de organizzarse da só pòsta ancia senza nar d’acòrdi, grazie al fato che tuti chei de sto grupo i vòl la stessa ròba. Tra cì che fa part del gròs de la fóla, ‘nvéze, g’è ‘n miscùli a caso de zènt che se mét en mèz e ‘l tègn da un o da l’àuter de i doi grupi. Zèrti i è ‘n pòc’ pù ciàudi, àutri i è furbi, àutri ‘ncor portàdi a fàrse zustìzia come che dis lori, e ancia tanti che gòde a védernen de gròsse, pronti a èsser ciatìvi o compassionévoi, a odiar o adorar, conforma se le situazion le vòl un o l’àuter de chei sentimenti; zèrti i vòl savér e créderge a vergot de gròs, pronti a la ciativèria, bàterge le man o ofènder calchedun. I è bòni de dir sol “Viva!” e “Che ‘l crèpia”, e cì che è sta bòn de convìnzerli che ‘n tale nó ‘l se mèritia de èsser mazzà, nó ‘l g’à pù bisògn d’àuter per convìnzerli a portàrlo ‘n trionfo: atori, spetatori, marionéte, frenadori, conforma come che tira ‘l vènt; pronti a tàser se nó g’è ‘ngot da ripèter, a mocàrsela cando che nó g’è pù caporióni, a sfantàrse cando che tante ós compagne e confermade le abia dit: vèi che nén; e tornar a ciasa domandàndose un con l’àuter: ma, che è suzèst po'? Sicome però sta marmàia l’è i pù tanti e la pòl méterse con un o con l’àuter come che la vòl, e ‘nzì i doi partiti i fa de tut per ciaparàrsela e tiràrsela da la soa: le doi fazión le è come doi ànime nemìche e le laora ognuna per mesdàrse ént ensèma a sto mismas per farlo nar endo che se vòl. Le laora a méter fòra le parole pù zuste per zaigiar le teste pù ciàude, e per dirèzer i movimenti a favor de chesto o chel intento; a cì che sarà pù brava de ste doi part a trovar le ós che le sia bòne per stuzgiar le rabie o per calmarle, che le desdroménzia la speranza o che le métia ‘l teror, a chela che sarà bòna de trovar l’urlo che, ripetù pù fòrt dai pù tanti tra la fóla, el sia e ‘l próvia, entel stes tèmp, che l’è l’urlo de tut el pòpol, per una o l’autra part. Tuta sta zacolàda l’è fata per dir che, ‘nte la lita tra doi fazion ‘nteressade a convìnzer la fóla davanti a la ciasa del vicari, cando che è arivà l’Antonio Ferrer, per n’àtimo, la portà ‘n gran vantàzi per ca part pù calma. Se l’aves tardivà a arivar ancora ‘n pòc’, sta part che l’era ìo ìo per zéder, prést l’averòs perdù sia la forza che le resón per seitar a combàter. El Ferrer l’era tanto benvolù da la zènt perché l’eva metù na tariffa che ge convenìva a cì che comprava e ancia perché ‘l s’era ostinà a refudar de zéder a le crìtege de cì che vendéva. La só stima l’era cressùda ancor de pù cando che la zènt l’à vist con cant coràzo chel vècel el se presentava senza ‘nzun a protézerlo e dezìso a fàrla fòr el stes con la fóla ‘nrabiada e azitada. E po' a sentìr che ‘l nidéva per portar el vicari ‘n presón, l’abù n’efèto straordenari, e sto fato l’à smorzà zó, almen na part, de chel’odio furios contra de el se ‘l se fus presentà con le ciatìve. Se calchedun avés zercià de difènder el vicari enten modo sevéro o senza dar calche resón, la rabia de la fóla la saròs scopiada ancor de pù. Ma la promessa de far zustìzia, che l’era, se pòl dir “l’òs da mòrder”, l’è stada assà per contentar la zent encazzada, e anzi la rabia la fat pòsto a sentimenti contrari che scomenziava a nìr fòr da tanta zènt. La part che tegnìva per la paze, zapà coràzo, la feva de tut per aidàr el Ferrer en zènto maniere: chei che era pù vizìni a el, batèndoge le man e fasèndoge bàter le man a tuta la fóla, ‘ntel stes tèmp i feva ‘n modo de far star endré la zènt, per fàr passar la ciaròzza; i àutri, pù lontani, batèndo le man, i ripeteva e i consegnava le só parole o chele che ge paréva che fus le pù zuste, e dàndoge sora a le ós dei pù ciatìvi, e i sfrutava tut chel vigor de la fóla contra i pù furiosi. Calchedun urlava: “Cì èl po' che nó vòl che se digia: viva Ferrer? ah, ti nó voròstus no, che ‘l pan el fus pù bonmarcià? L’è tut briganti che nó vòl na zustìzia da cristiani: e g’è ancia de chei che i urla pù dei àutri per far s-ciampar el vicari. En presón el vicari! Viva ‘l Ferrer! Félo passar el Ferrer!” Cressèndo sèmper de pù chei che parlava ‘nzì, en proporzion cialava l’ardiment de chei de l’àutra fazion; e è suzèst che i primi dal prediciar i è passadi a bastonar chei che batèva zó la ciasa, a paràrli ‘ndré, a tòrge fòr da le man le arzare. Chesti cì i boìva dal nervoso e adiritura i amprometèva de rèndergele; però la resón de copar el vicari l’eva pèrs: la parola che dominava l’era: presón, zustìzia, Ferrer! Dopo ‘n pòc’ de discussion chesti cì i è stadi paradi via: i àutri i à fat sóa la porta, perché nó i la assediàs pù e per fàrge strada al Ferrer; calchedun, à clamà dént en ciasa (crèpe nó ‘n manciava), per avisar che arivava aiut, e che ‘l vicari ‘l se tegnìs pronto, “per nar sùbit… en presón: ehm, eo ciapì?” “Èl chel Ferrer che àida a far le lezi?” à domandà a n’òm che era ìo arènt, el Renzo, che ‘l s’era ricordà del vidit Ferrer che ‘l dotor el geva zigià ‘nle récle, fasèndogel véder en font a chel pefèl. “Sì: ‘l gran ministro” i g’à respondù. “Sì mo che l’è ‘n gialantòm?” “Ecome che l’è ‘n gialantòm! L’è chel che à metù ‘l pan a bonmarcià; e i àutri nó i à volèst; e adès el vén per méter en prsón el vicari, che nó l’à fat le ròbe zuste.” Nó g’è bisògn de dir che ‘l Renzo l’è sta sùbit da la banda del Ferrer. Adiritura l’à volèst nàrge ‘ncontra: che nó l’era na ròba sèmplize, ma con calche spintón e calche sgombetàda da alpìn, l’è sta bòn de fàrse strada e a arivar en prima fila, pròpri de flànc’ a la ciaròzza. La ciaròzza l’era zà bèla dént én mèz a la moltitudine; e ‘nte chel moment l’era ferma, ciàusa una de che ròbe che sèmper se mét per travèrs enchei viàzi ìo. El vèzzo Ferrer el vardava fòr en bòt da una e ‘n bòt da l’àutra portèla, con la fazza tuta umile, sgrignotolànt, a la bòna, na fazza che ‘l tegnìva sèmper bòna per cando che l’era dinanzi al re don Filipo IV; ma che ‘l s’à vist obligià a dopràrla ancia ‘nchel’ocasion ìo. E ‘l parlava ancia, ma ‘l gazèr e ‘l zonzonar de tante ós, i eviva stessi che i ge féva a el, nó i lagiava sentìr ben le só parole a tuti. E alor el se aidàva con i zèsti; prima metèndo le ponte dei dedi su la bócia e mandàndo bósi da na banda e da l’àutra per ringraziar la zènt che la ge voleva ‘nzì ben; po' ‘l slongiava fòr le man da la ciaròzza movèndole plan plan come per domandar de lagiàrlo passar; po' i le sbassava con trato, per domandar en pòc’ de silenzio. Cando che la fóla l’eva sbassà, almen en pòc’, el rumor, chei che era pù dausìni i sentiva e i ripeteva le só parole: “pan, bondànza: vèni a far zustìzia: per piazér féme passar.” Sozetà e scasi stofegià da chel fracas de tanti urli e zigi e dal véder tanti musi ‘nzì spessi, e dai tanti òcli adòs, el se tirava ‘ndrè ‘n moment, el sgonflava le gòute e ‘l soflava come ‘n màntes, e ‘l diseva ntrà de el: — por mi vida, que de gente! — “Viva Ferrer! Nó ‘l stàgia a avér paura. El l’è ‘n gialntòm. Pan, pan!” “Sì; pan, pan,” el rispondeva ‘l Ferrer: “bondànza; ve l’amprométi mì,” e ‘l metéva la man sul còr. “Féme passar,” el ge taciava sùbit: “vèni per portarlo ‘n presón, per dàrge ‘l castìgo zust, chel che ‘l se mèrita:” e po' ‘l diséva sotaós: “si es culpable”. Sgobàndose po' dinanzi vèrs el veturìn, el ge diseva ‘n prèssa: “adelante, Pedro, si puedes.” Ancia ‘l veturìn el grignava con creanza a la moltitudine, come se fus sta cissà che gran personàzi; e con en bel modo che nó se pòl nancia dir, el scorlava plan planìn da na man e da l’àutra la scùria, per domandar a chei che era vizìni che i se tiràs endré per podér passar. E ‘l diseva “per piazér, sióri, fé ‘n pòc’ de pòsto, almen en pòc’; apena apena da podér passar.” Entant i pù dabèni tra la fóla i feva de tut a far far el posto domandà enten modo ‘nzì educà. Zèrti davanti ai ciavài i feva star endré le persone, con le bòne, metèndo le man a crós sui pèiti, o con spintonàti prudenti: “né là, dai, fé ‘n pòc’ de largo sióri;” zèrti àutri i feva la stessa ròba da le doi bande de la ciaròzza che la podés passar senza né limàr óngle dei pèi, né sbugnàr mostàci; che, oltre al mal a le persone, l’avròs metù enten gran perìcol l’onor de l’Antonio Ferrer. El Renzo, dopo che l’eva oservà per en bel pezzòt chel veclét del Ferrer, che ‘l geva en bel portament, ancia se l’era ‘n pòc’ débol e preocupà, ma che comunque ‘l geva chel bòn proponiment de salvar el vicari da na bruta fìn, el Renzo, diséven, l’à dezìso de restàr ìo per aidàrlo e ‘l s’è desmentegià de nar dal padre Bonaventura. Senza pèrder tèmp ‘l s’è metù sota sùbit, con tanti àutri, a davèrzer en passagio tra ‘l regolèri e i l’à fat con tuta la só bòna volontà. E ‘l pòsto i l’à fat; “nidé pur avanti,” diseva pù de un al veturìn, tiràndose ‘ndré e corèndo per far strada pù inanzi. “Adelante, presto, con juicio ,” g’à dit el padron al veturìn; e la ciaròzza la s’è movèsta. El Ferrer, en mez a tuti chei saluti che ‘l sparpaiava a tuta ca marmaia, el ne ‘n feva zèrti de ringraziament, fasèndo l’òclét, a chei che ge déva na man: e de sti ocléti, pù de un l’era per el Renzo, che, a dir la verità, el se li meritava, perché ‘nchel dì ‘l servìva ‘l gran ministro mèio de chel che averòs fat el pù brào dei só segretàri. Sentèndose premià da che atenzion, el bòn contadìn l’abù perfìn l’impression de èsser deventà adiritura n’amìzi de l’Antonio Ferrer. La ciaròzza, ‘n bòt che la s’era ‘nviada, l’è nada avanti pù o men plan plan e con na calche poussada. La strada da far l’era abastanza curta; ma se parlan del tèmp che i g’à metù, el podéva èsser sta ‘n bel viazét, ancia per cì che nó avés bù tuta la prèssa del Ferrer. La zènt la se movéva davanti, de dré, da na banda e da l’àutra de la ciaròzza, come fus grant onde entórn a na nave entel mar en tompèsta. Pù fòrt, pù stonà e pù rumorós de chel de la tompèsta l’era ‘l gazèr. El Ferrer, voutàndose ‘n pòc’ da na banda e ‘n pòc’ da l’àutra, el se sforzava de ciapìr chel che diséva la fóla, e po' l’adatava le só risposte a la situazion. Con zèsti manierosi ‘l provava a far doi parole con ca massa de zènt che se feva véder come só alleati. Però l’era n’impresa difìzile, forse la pù difìzile che ge fus ciapità ‘nfìn a chel moment en tanti ani de gran ministro. Ogni caltrat, però, calche parola o adiritura vergot de pù, ripetude da calche grupét en mèz a la fóla entant che ‘l passava, se ressuiva a ciapìrle ente chel bacan, come fus en razzo pù fòrt che ‘l scoppia e ‘l se fa sentìr entel gazèr de ‘n spetàcol de fògi. El Ferrer, zerciàndo de risponder pù ben che ‘l podéva ai urli de la fóla, el diséva o parole studiade per contentar tuti, o àutre che ‘l seva benón che l’era le pù prezziade; a bòte ‘nveze ‘l diséva parole comandade da la nezessità del moment, conforma a chel che la situazion la voléva. Enzì per tut chel tòc’ de strada, l’à seghità a parlar senza poussar. “Sì, siori; pan, bondànza. El pòrti mì ‘n presón: ‘l sarà ciastigià… si es culpable. Sì, sì, comandi mì: ‘l pan bonmarcià. Asi es… enzì l’è: vòi dir: só maestà ‘l re nó ‘l vòl de segur che sti pòri servi fidadi i patìssia la fam. Ox! ox! Guardaos” nó ste fàrve mal, siori. Pedro, adelante con juicio. Bondanza, bondanza. Féme passar, per ciarità. Pan, pan. En presón, en presón. Che g’è?” ‘l g’à domandà a un che ‘l s’era petà ent pù del mèz ‘nla ciaròzza, a urlàrge calche consilio o richiesta o compliment che fus sta. Ma chesto, senza podér rizéver el “Che g’è?”, l’era sta tirà ‘ndré da n’àuter che i lo vedéva ìo per èsser sghizzà sota na ròda. Con ste bòta e risposta, tra i batiman che nó ruava mai, e ancia calche parola contraria che se feva sentìr cì e ìo, ma che l’era sùbit metùda ‘n tàser, a la fìn el Ferrer l’è arivà a la ciasa, grazie a chei bravi volontari. I àutri che, come che en vist, i era zà ìo con le medesime bòne intenzion, enframèz, i eva seghità a sgombrar e a fàr pòsto. I supliciava, i paràva, i arciava ; i spenzéva da na banda e da l’àutra, sèmper pù dezìsi e sèmper con pù fòrza, chela che vèn cando che se vét che se è vizìni al scopo; a la fìn, i era stadi bòni de separar la fóla enten doi grupi e a spénzerli ‘ndré, tanto che tra la porta e la ciaròzza, che la s’era fermada pròpri ìo davanti, s’era fat en pòc’ de piaza. El Renzo, che ‘l s’era fat strada tra la zènt compagnàndo la ciaròzza, l’era ressuì a postàrse ente una de le doi file de persone che tegnìva per el Ferrer. Cheste, ‘ntel stes moment, le feva sia la scorta a la ciaròzza sia ‘n sbarament per tègner la fóla che la spenzéva da le bande. Pozàndose con le só spale gaiàrde per aidàr a tègner la moltitudine, el Renzo ‘l s’è trovà ancia ‘nte la posizion zusta per assìster a tuta la sèna. El Ferrer, cando che l’à vist la piazéta libera e ‘l portón ancor serà, l’à tirà ‘n gran sospìr. Serà cì vòl dir che nó l’era davèrta; perché i càncheni i era zà mèzi sbregiadi fòr dai pilastri: le porte des-ciaiàde, smanarotàde, sforzàde e sgangherade ‘ntela mèzerìa e se vedéva dént da la crèpa ‘n tòc’ de s-ciarnàz stòrt, mèz desghidà e scasi destacià, che, se volén dir enzì, i le tegnìva ‘nsèma. En gialantòm l’eva vardà dént da ca crèpa a zigiar che i daverzés la porta; n’àuter, en prèssa, l’à spalancà la portèla de la ciaròzza. El vècel Ferrer l’à picià fòr la testa, l’è levà ‘n pè e, brancando con la man drìta ‘l braz de chel’òm l’è nù fòr da la ciaròzza e l’è nù zó sul predelìn. La fóla, da tute doi le bande, la se levava su le ponte dei pèi per reussìr a véderge mèio: zentenàri de musi e barbe che vardava ‘n su. Gera ‘n silènzio zeneràle per via de la curiosità e de l’atenzion de tuti. El Ferrer, che ‘l s’era fermà n’àtimo sul predelìn, l’à vardà en zìro ‘ntorna a el, po' la saludà la fóla con n’inchìno, come se ‘l parlàs zó dal pùlpit. Dopo l’à portà la man zància sul còr e l’à urlà con na bèla ós fòrta: “Pan e zustìzia!” e, con en pas dezìso, drìt e plegià ént entel só tabàr, l’è desmontà, e tuta la zènt i l’à compagnà con urli de aprovazion che se levava su ‘nfìn al ziél. Entant chei che era de ént i eva daverzù, o meio, i eva ruà de davèrzer, tirando via ‘l s-ciarnàz ensèma ai anèi zà mèzi sbregiadi fòr, e slargiando la sfessidura apena chel tant che ocoréva per far nar ént l’òspite tanto desiderà. “Presto, fé prést,” ‘l diséva: “daverzé bèn, che pòdia nìr ént: e voiàutri, da bravi, tegnì ‘ndré la zènt; nó ste lagiàrmela nìr adòs… per amor del ziél! E vardà de tègner en pòc’ de pòsto per dopo… Ehi! ehi! siori, ‘n moment,” el ge diséva po' ancor a chei che gera dént: “plan, con chel porton, lagiàme passar: eh! le me còste; ve racomandi le me còste. Serà adès: no; eh! eh! el tabàr! el tabàr! Se ‘l Ferrer nó ‘l fus sta pronto a tiràrsel dré, che ‘mparéva la cóa de ‘n lanzón che s’ciampava ‘n la só tana, el só tabar el saròs restà ‘mpegolà ‘ntra i portoni.” Serà che i eva ‘l porton, i à metù ancia doi pali per ‘mpontarlo come che i podéva. De fòr, chei che s’era fat guardie del Ferrer, i laorava de spale, de brazzi, de de urli per mantègner la piazza vòida, pregiando ‘l Sioredio che i lo fés far en prèssa. “Présto, présto,” diséva ‘l Ferrer ancia de dént sot al pòrtec’, ai servi che i se gera metùdi ‘ntorna ansiósi e zigiàndo: “sia benedét! ah zèlzimo! oh zèlzimo! uh zèlzimo!” “Présto, présto,” el ripetéva ‘l Ferrer: “endo èl po' sto benedet’òm?” El vicari ‘l nidéva zó da le s-ciale, mèz strassinà e mèz portà da àutri só servi, bianc’ come na pèzza lavada. Cando che l’à vist el só protetór, l’à tirà ‘n gran sospìr; à tornà a bàterge ‘l còr, l’à sentù che ‘l sanc l’eva tornà a córer en le giambe, e g’era nù ‘n pòc’ de colór su le gòute; e l’è corèst, come che ‘l podéva, vèrs el Ferrer, disèndo: “son cì ‘nle man del Sioredio e de la vossiorìa lustrìssima. Ma come podénte far a nar fòr da cì? G’è fòr dapertut zènt che la me vòl mòrt.” "Venga usted con migo, e ‘l se fàgîa coràzo: cì de fòra g’è la me ciaròzza; presto, presto.” I l’à zapà per man, e i l’à portà vèrs la porta, sèmper fasèndoge coràzo; ma ‘ntant el diseva ‘ntra de el: — aqui està el busilis; Dios nos valga! — Se davèrz la porta; el Ferrer l’è nà fòr el prìm; l’àuter dré, sgobà zó, tacià, ‘ncolà a chel tabàr che lo salvava, come ‘n pòpo tacià a le vèste de só mare. Chei che eva mantegnù la piazza vòida, auzzàndo le man e i ciapèi come na ré, na nùgola, i scondéva a ca moltitudine ‘l vicari che è nà ént enla ciaròzza per prìm metèndose ‘ncuzzolà enten ciantón. El Ferrer l’è montà su sùbit dopo; e vèn serà la portèla. La zènt l’eva ciapì sì e no chel che era suzèst, e cì che l’eva ciapì l’è scopià enten misto de aprovazion e urli de malcontènt. El tòc’ de strada che restava da far el podéva èsser el pù difìzil e ‘l pù pericolós. Ma la volontà del pòpol l’era chela: el vicari ‘l geva da èsser portà ‘n presón. Entant che ‘l Ferrer el s’era fermà ente ca ciasa, tanti de chei che l’eva aiutà a farse strada entel nìr, i se era ‘mpegnadi a mantègner en pasagio lìbero en mèz al rafanas per nàrsen. Ente sto modo la ciaròzza l’è stada bòna de partìr e nar pù ‘mprèssa senza èsser fermada. Man man che la neva avanti, la zènt tegnùda da le bande la se tornava a mesdar de nòu dré la ciaròzza. El Ferrer, apena che ‘l s’era sentà zó, ‘l s’è sgobà per racomandàrge al vicari, de star ben encuzzolà zó ‘l font de la ciaròzza e che, per l’amor del ziél, nó ‘l se fés véder. El, envéze, ge voléva che ‘l se fés véder, en modo da ocupar e tiràr tuta l’atenzion de la fóla su de el. E per tut chel viazét, come per chel’àuter da prima, el Ferrer la seghità a parlàrge a la fóla con na prèdicia lòngia ma confusionaria che nó se ciapìva ‘ngot de chel che ‘l diséva. Ogni tant, el desmetéva de parlar per sussuràrge calche parola ‘n spagnòl al vicari, che l’era scònt dausìn a el. “Sì siori, pan e zustìzia! El porterai en presón, ge fón mì la guardia. Grazie, grazie tante! No, no nó ‘l me s-ciampa pù. Por ablandarlos. L’è massa zusto; esaminerén el caso. Ancia mì vé vòi ben. El sarà punì severament. Esto lo digo por su bien. Ge vòl arivar a ‘n scopo zust e onèst, punìr cì che ridùs a la fam el pòpol. Per piazer, féme passar. Sì, sì, mì son en gialantòm, amico del pòpol. El sarà punì, l’è vera, l’è ‘n brigante, ‘n malfatór. Perdone, usted.” el se la passerà mal… si es culpable. Sì, sì, i pisóri i amparerà a comportàrse ben. Viva ‘l re e i bravi milanesi só servi! El se la vederà bruta, el se la vederà bruta. Animo; estamos ya quasi fuera.” Difati i eva traversà el pù tant de ca confusion e i era zà vizìni a nar fòr dal tut da la fóla. Ìo ‘l Ferrer, entant che ‘l scomenziava a far poussàr i só polmoni, l’à vìst l’aiùt che ormai l’era tardìu, chei soldàdi spagnòi, che però a la fìn nó i era stadi pròpri inutili dal tut, perché aidadi e direzùdi da calche zitadìn, i eva concórs a mandar a ciasa ‘n pòc’ de zènt e a tègner libero el pasagio per nar fòr dal tut. Come che è arivà la ciaròzza, i s’è tiràdi da le man, i à fat el presentatàrm al gran ministro, e ancia el l’à fat en salùt da na banda e da l’àutra; e al’ufiziàl che era nù ìo arènt a fàrge ‘l so, ‘l g’à dit, compagnàndo le parole con en zèsto de la man: “beso a usted las manos :” parole che l’ufiziàl eva ciapì per chel tant che le voléva dir, e siché: m’eo dat en bel aiut! En risposta, l’à fat n’àuter salùt, e l’à strenzù le spale. L’era ‘l caso de dir per dalbòn: cedant arma togae; ma ‘l Ferrer enche moment ìo, nó ‘l geva per la testa provèrbi: e per de pù ‘l saròs sta parole petade via, perché l’ufizial nó ‘l ciapìva el latìn. Al Pedro, ‘ntel passar tra che doi file de micheleti, tra chei szòpi per aria ‘n ségn de riguardo, g’è nù ‘l coràzo de ‘n bòt. El s’è fat fòra da ca condizion de pèrs endo che l’era nà a ruàr, ricordàndose de la só posizion e de cì che ‘l portava, senza star ìo a far tante bale, el s’è metù a zigiar: “Ehi! Ehi!”, vèrs la fóla che ormai l’era assà sclarìda, da podérse perméter chel tono pù da comando. Po' la scurià i ciavài che i è partìdi al galòp vèrs el ciastèl. “Levantese’ levantese; estàmos ya fuera,” el dis el Ferrer al vicari e chesto che a sentìr che i eva desmetù de zigiàr, a véder che la ciaròzza la corìva pù ‘mprèssa, e sentìr che parole, ‘l s’è voutà, el s’è stironà, e l’è levà su e ‘l s’era calmà; essèndose fat fòra, l’à scomenzià a rigraziar, a ringraziar e a ringraziar chel che l’eva liberà. Chesto, dopo avérge dit el só dispiazér per el perìcol che l’eva passà e la contenteza perché era nà tut ben, batèndose la man su la pelada l’à sclamà: “que dirà de esto su excelencia, che zà ‘l g’à la luna per via de chel maledét tormént de Casale, che ‘l sèghita a resìster? Che diràl pò 'l Conte che ‘l se spaventa per el minimo rumor? E che diràl po' el re, nòssa maestà, visto che prima o dopo ariverà ‘nle só récle na fazènda del zènere? E po', saràla dal bòn ruàda ‘nzì? Dios lo sabe.” El vicari tut confùs, l’à respondù: “Ah! Mì nó vòi pù savérgen de ‘ngot! Me tiri fòr da tut, dón le me dimission enle man de vossiorìa e men vón a vìver ente na cavèrna sul mont, a far el remìt, lontan, lontan da sta zènt che l’è come le bestie.” “Usted faréo chel che convièn por el servicio de su magestad", à respondù severament el gran ministro. “Só maestà nó la vorà la me mòrt,” el diséva ‘l vicari “mèio scònderme ente na cavèrna, ente na tana; lontan da chésti.” Chel che è suzèst po' dopo de sto proponiment el nòs scritor nó i lo dis, che dopo aver compagnà ‘l pover’òm entel ciastèl nó ‘l dis pù ‘ngot dei só afari.
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perchè quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così imperfetta d’un così grand’apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c’eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: “non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo; ” chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch’era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera. Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finchè c’era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente. Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacchè, per andare al convento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non potè tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, “ signori miei! ” gridò, in tono d’esordio: “ devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacchè oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.” “Pur troppo,” disse una voce. “Lo dicevo io,” riprese Renzo: “già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sè. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perchè c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d’ognuno c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l’intenzione di que’ tre signori, tra i quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s’è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei? ” Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di “bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo,” fu come la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. “Eh sì,” diceva uno: “dar retta a’ montanari: son tutti avvocati;” e se ne andava. “Ora,” mormorava un altro, “ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s’avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi.” Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. “A rivederci a domani. — Dove? — Sulla piazza del duomo. — Va bene. — Va bene. — E qualcosa si farà. — E qualcosa si farà.” “Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo?” disse Renzo. “Son qui io a servirvi,” quel bravo giovine, - disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. “Conosco appunto un’osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.” “Qui vicino?” domandò Renzo. “Poco distante,” rispose colui. La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. “Di che cosa?” diceva colui: “una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo?” E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda. “Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?” “Vengo,” rispose Renzo, “fino, fino da Lecco.” - Fin da Lecco? Di Lecco siete? “Di Lecco... cioè del territorio.” “Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’ vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse.” “Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano.” “No, no! venite dov’ho detto io, che c’è poco,” disse la guida: “qui non istareste bene.” “Eh, sì;” rispose il giovine: “non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza!”! Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. “Bene; vi condurrò qui, giacchè vi piace così,” disse lo sconosciuto; e gli andò dietro. “Non occorre che v’incomodiate di più,” rispose Renzo. - “Però,” soggiunse, “se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.” “Accetterò le vostre grazie,” rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: — noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private. — Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, — maledetto! — disse tra sè: — che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei! — Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sè: — non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò. — Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi. “Cosa comandan questi signori?” disse ad alta voce. “Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero,” disse Renzo: “e poi un boccone.” Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un “ah!” sonoro, come se volesse dire: fa bene un po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s’era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescè subito da bere, dicendo: “per bagnar le labbra.” E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso. “Cosa mi darete da mangiare?” disse poi all’oste. “Ho dello stufato: vi piace?” disse questo. “Sì, bravo; dello stufato.” “Sarete servito,” disse l’oste a Renzo; e al garzone: “servite questo forestiero.” E s’avviò verso il cammino. “Ma...” riprese poi, tornando verso Renzo: “ma pane, non ce n’ho in questa giornata.” “Al pane,” disse Renzo, ad alta voce e ridendo, “ci ha pensato la provvidenza.” E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: “ecco il pane della provvidenza! ” All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: “viva il pane a buon mercato!” “A buon mercato?” disse Renzo: “gratis et amore.” “Meglio, meglio.” “Ma,” soggiunse subito Renzo, “non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.” “Bravo! bravo!” gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de’ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero. “Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così,” disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: “vedete come l’hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi.” E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: “da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S’è fatto un gran gridare!” “Preparate un buon letto a questo bravo giovine,” disse la guida: “perché ha intenzione di dormir qui.” “Volete dormir qui?” domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola. “Sicuro,” rispose Renzo: - un letto alla buona; “ basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.” “Oh, in quanto a questo!” disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra. “Cosa vuol dir questo?” esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: “è il lenzolo di bucato, codesto?” L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: “fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.” “Cosa?” disse Renzo: “cosa c’entrano codeste storie col letto?” “Io fo il mio dovere,” disse l’oste, guardando in viso alla guida: “noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi... quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida.” Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: “ah ah! avete la grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.” “Dico davvero,” disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo. “Ah! ecco!” esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: “ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo.” (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). “Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d’altri furfanti: perchè se fosse solo...” e qui finì la frase con un gesto: “se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.” L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: “ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest’imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perchè questo è fesso.” Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: “senti, senti, oste, come crocchia” Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio. “Cosa devo fare?” disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui. “Via, via,” gridaron molti di que’ compagnoni: “ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova oggi, legge nuova.” In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un’occhiata di rimprovero, per quell’interrogazione troppo scoperta, disse: “lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene.” “Ho fatto il mio dovere,” disse l’oste, forte; e poi tra sè: — ora ho le spalle al muro. — E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone. “Porta del medesimo,” disse Renzo: “che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città. “Del medesimo,” disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino. — Altro che lepre! — pensava, istoriando di nuovo la cenere: — e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie. — Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. “Bravi amici!” disse: “ora vedo proprio che i galantuomini si danno la mano, e si sostengono.” Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, “gran cosa,” esclamò, “che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!” “Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione?” disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva. “Sentiamo un poco,” rispose Renzo. “La ragione è questa,” disse colui: “che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.” Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva. “To’,” disse Renzo: “è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico delle curiose... ma quando le cose vanno bene.” Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano? “Ma la ragione giusta la dirò io,” soggiunse Renzo: “è perchè la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di... so io quel che voglio dire...” e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dell’indice; “e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia.” Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l'oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. “Eh! se comandassi io,” disse, “lo troverei il verso di fare andar le cose bene.” “Come vorreste fare?” domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento. “Come vorrei fare?” disse colui: “vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi.” “Ah! così va bene,” disse Renzo. “Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perchè c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per.... il vostro nome?” “Lorenzo Tramaglino,” disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone. “Benissimo,” disse lo sconosciuto: “ma avete moglie e figliuoli?” “Dovrei bene... figliuoli no... troppo presto... ma la moglie... se il mondo andasse come dovrebbe andare...” “Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.” “È giusto; ma se presto, come spero... e con l’aiuto di Dio... Basta; quando avessi moglie anch’io?” “Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche,” disse lo sconosciuto, alzandosi. “Così va bene,” gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: “e perchè non la fanno una legge così?” “Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perchè penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo.” “Un altro gocciolino, un altro gocciolino,” gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. “Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto.” Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: “buona notte,” e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: “ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacchè la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male.” Così detto, lo prese, e lo votò in un sorso. “Ho inteso,” disse il garzone, andandosene. “Ah! avete inteso anche voi,” riprese Renzo: “dunque è vero. Quando le ragioni son giuste...!” Qui è necessario tutto l’amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodochè se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola. Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l’uno in giù e l’altre in su, senza misura nè regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica. Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perchè, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato. “Ah oste, oste!” ricominciò, accompagnandolo con l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: “oste che tu sei! Non posso mandarla giù... quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio...! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la ragione... Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì... ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n’è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino.” “Tutta gente che beve acqua,” disse un vicino di Renzo. “Vogliono stare in sè,” soggiunse un altro, “per poter dir le bugie a dovere.” “Ah!” gridò Renzo: “ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d’un quattrino? E quel cane assassino di don...? Sto zitto, perchè sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n’è pochi de’ galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani... peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma... ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, anche Ferrer... qualche parolina in latino... siès baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!... Là ci volevano que’ galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato... So io a chi penso!” A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n’era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l’uno or l’altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’averselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt’altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodochè anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: chè troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.
La fóla restàda ‘ndré l’à scomenzià a pèrderse, a sparpaiàrse da tut le man per sta strada o per chel’àutra. Cì che néva a ciasa, e l’è nada dré ai só mistéri; cì che se slontanava per tirar el flà en pòc’ pù làrgi dopo tante ore che i era struciadi come le sardèle; cì che néva ‘n zércia de amìzi, per baderlàr dei gran fati de ca zornada. Ancia da l’àutra banda de la strada i parava via la plenéza, lagiàndo pòsto assà perchè i soldàdi spagnòi i podés nar avanti senza ‘ntopar ente ‘ngot e méterse dinanzi a la ciasa del vicari. Arènt a la ciasa g’era ancor ìo ‘l pè, come se dis, del tumulto; en ròz de brigànti malcontenti per ca fìn enzì besevìda e ‘nzì falòpa de tut chel gran laorar; zèrti i rantegiàva, zèrti i ostiava, calchedun questionava per véder se se podéva far ancor vergota; e, come per provar, i déva spintonàti e colpàti al portón, che ‘ntant i eva ‘mpontà a la bòna. Come che è arivà ‘l sclap de soldadi a ciavàl, tuta ca zènt cì drìt drìt, cì senza fàrse véder e come a stènto, i è sparìdi da l’àutra banda da ‘ndo che era nù i soldadi, lagiàndoge ‘l pòsto a lori che i se l’à tòt e i s’è metùdi a far la guardia a la ciasa e a la strada. Ma tute le strade ìo ‘ntorna le era pléne ‘n sclapi de zènt: ‘ndo che g’era doi o trei persone ferme, se ‘n fermava àutre tréi, càter, vinti e po' calchedun se destaciava; da n’àutra banda, en grupo de persone la se movéva ‘nsèma, come na nùgola che dopo ‘n temporàl la se pèrt entel ziél, fasèndo pensar a cì che la vardas che ‘l tèmp el pòl ancor cambiar. E po' ‘mmazinave la trebiliana: g’era cì che contàva con passion tuti i particolari che l’eva vist, cì che parlava de chel che l’eva fat, cì che diséva content che la situazion la s’era sistemada benón, la lodava ‘l Ferrer e la prevedeva rogne per el vicari; calchedun grignànt el diseva: “Nó ste preocupàrve, nó i lo coperà, el lóu nó ‘l magna carne de lóu”; calchedun de pù ‘nrabià ‘l se lamentava disèndo che le robe nó le era stade fate bèn come che se doveva, che l’era sta tut n’ingiagn, e che l’era sta na pazzìa far tant rumor per po' ruarla su ‘nchel modo ìo. Entant el sol l’era na zó, le ròbe le deventava tute de ‘n color; e tanti, straci de ca zornada e stufi de zacolàr al stròf, i tornava a só ciasa. El nòs putèl, dopo averge aidà a la ciaròzza a passar, enfìn che g’era sta bisògn de aiùt, e dopo èsser passà ancia el drè a chela, tra le file dei soldadi, come chei che à venzù, l’era contènt de véder che la podéva córer liberament, fòr dal perìcol; l’eva fat en pòc’ de strada en mèz a la plenéza, per po' nìr fòr al prìm ciantón, per arfladàr ancia el en pòc’ pù lìbero. Fati pòci passi ‘nla strada, en mèz a l’azitazion de tanti sentimenti e de tante ròbe viste da pòc’ e confùse, la scomenzià a sentìr na gran lùpia e bisògn de poussar; e la scomenzià a vardàr ensu, da na banda e da l’àutra, se g’era la tabèla de n’ostarìa, perché per presentàrse al convent dei ciapuzìni l’era putòst tardi. Ciaminànt con la testa per aria, ‘l s’è trovà arènt a ‘n grupét de zènt e ‘l s’è fermà; l’à sentù che i parlava de idee, su chel che se podéva far per el dì dré. L’èra sta ìo a scoutàr per en pezzòt e nó l’è sta bòn de tratègnerse de dir la sóa; di fati ge ‘mpareva, senza èsser supòsto, de podér propór vergot el che l’eva fat tant. Convinto, per tut chel che l’eva vist enchel dì, che oramai per far vergot bastas nar d’acòrdi con cì che se giatava per le strade, l’à sclamà vèrs chel grupo: “Siori, pòdite dir la me opunion? La mé opunion l’è chesta: le angiarìe nó i le fa sol col pan, e sicome ‘ncòi se à vist benón che, a farse sentìr, se pòl otègner chel che l’è zusto, ge vòl nar avanti ‘nzì, enfìn che nó se g’à metù rimedi a tute le angiarìe e che ‘l mondo ‘l vàgia ‘n pòc’ pù da cristian. Nó èl vera siori che g’è càter zìnc’ carògni, che i fa pròpri a la revèrsa dei dés comandamenti, e i va a zerciàr la bòna zènt, e che nó i se preocupa de lori, per fàrgen de tuti i colori, per po' avér ancor sèmper resón? Anzi cando che i ne ‘n combìna una pèzo de sòlit, i va ‘ntorn come se adiritura ge ‘n restàstus? Ge ‘n dev’èsser ancia a Milan, zènt del zènere.” “Purtropo,” à dit calchedun. “L’ài bèn dit mì,” dis el Renzo: “ancia da le me part i conta ste ròbe. E po' basta vardàr la realtà. Per esèmpi se un de sti slandroni che voròssi parlàrve, el vìu en pòc’ enla val e ‘n pòc’ a Milan, se da na banda l’è ‘n diàul, da l’àutra nó ‘l devènta de sugur n’ànzol, me par naturale. Bèn, adès diséme voi, se eo mai vist un de chesti nar en presón, mai! E chel che è pézi (e de chesto son segur) l’è che le lézi per ciastigiàrli le ge saròs. E nó l’è nancia lézi fate mal, anzi! Le è scrìte benón, che nó se poròs trovar engot de mèio: g’è su nominà tute le briconade pròpri come che le suzét per dalbòn; e per ogni una la só bèla penitènza. Le dis perfìn che tuti, calunque nòbile o contadìn, se ‘l g’à colpa ‘l dev’èsser ciastigià. Ma provà voi a domandàrge ai zùdizi, che i fàgia rispetar chel che g’è su scrìt su chei pefèi! I vé darà òra cant el Papa ‘l daròs fé a ‘n ladro. Robe che fa nar fòr da mat calunque persona onesta! Donca, l’è segur che ‘l re e i ministri i voròs ciastigiar i slandroni, ma a la fìn nó se fa ‘ngot perché g’è na spèzie de acòrdi tra i capi. E alor ge vòl róter sta crìca; doman a bonora ge vòl nar dal Ferrer, che chel sì l’è da gialantòm, en sior a la man, e ‘ncòi s’à podèst véder cant che l’era content de èsser con la pòra zènt, e come che ‘l scoutava le reson de tuti e come che ‘l rispondeva con bòna grazia. Ge vòl nar dal Ferrer e dìrge come che l’è la question e mì, per la me part, pòdi contàrgen de bèle; che ài vist mì coi me òcli, en pefèl con tanto de stèma ‘n zìma, e fata stampar da trei de chei che pòl, che i s’à firmàdi sota, e un de chesti l’era pròpri ‘l Ferrer, l’ài vista mì, coi me òcli: ben, sta léze la diséva pròpri le ròbe zuste per mì; e ‘n dotor che mì g’ài dit che alor el me fàgia zustìzia, come che l’era l’intenzion de chei trei siori, e tra lori ‘l Ferrer, sto sior dotor, che m’eva fat véder pròpri el la léze, chesta vèh l’è bela, ah! ah! emparéva che ge diséssite patarane. Son segur che, cando che chel caro veclón el sentirà ste bele ròbe, che el nó ‘l pòl savèrle tute, spezialment chele che suzèt fòr da Milan, nó ‘l vorà pù che ‘l mondo ‘l vàgia ‘nzì e ‘l ge meterà rimèdi. E po', se i fa ste lézi i doròs èsser contenti se i le rispetàs, se nò l’è come se i se togés per ziro da só pòsta. E se i spòtici nó i vòl desméter de comandàr, e i sèita a far i só còmodi, noi sén pronti a dar na man, pròpri come che en fat ancòi. Nó dìgi de segur che ‘l g’àbia da nar el en persona a zerciar e méter en presón i briganti, perché ge voròs l’arca de Noè! El cògn ordinàrge a cì de dovér, e no sol a Milan, ma dapertut, de far rispetar dalbòn la léze, prozessar cì che à combinà angiarìe, e darge i ciastìgi che è previsti. En presón cì che cògn star en presón, galera per cì che ge vòl che ‘l vàgia. E se i podestà nó i fa ‘l só laoro, mandàrli via e cambiarli con zènt pù onèsta! E po', come che ài zà dit ancia noi ge sarén a dar na man al Ferrer. E po' dopo, ‘l cògn ordinàrge ai avocati de scoutàr la pòra zènt e de difènder dalbòn la zustìzia. G’àite resón no, siori?” El Renzo l’eva parlà col còr en man e ‘nzì ben, che, ‘nfìn dal prinzìpi, la gran part de chei che lo scoutava, emplantà ìo ogni àutra chestion, i s’era voutadi vèrs de el; e, a ‘n zèrto punto, tuti i scoutava el. En bàtiman en pòc’ confùs, calche “brào, segur, el g’à reson, purtropo l’è vera,” l’era sta come na spèzie de risposta a ca parlada. Però nó era mancià ancia calche crìtegia. Un de chei che g’era ìo ‘l diséva “Eh sì, a dar fé ai bacani: i è tuti avocati;” e po' ‘l se ‘n neva. “Adès,” diséva n’àuter, “Adès ogni zuzzabró el vòl dir la sóa, a forza de taciàr chestión su chestión a la fìn el pan el sarà sèmper ciàr, che l’era per chesto che en scomenzià via sta solevazion.” El Renzo, però, de le crìtege nó ‘l s’era nancia acòrt, l’eva sentù sol i batiman e i complimenti. Calchedun ge strenzéva na man, calchedun l’àutra. “A doman alor! – Endo po'? – En piazza del Dòm. – Benón. – Sì, sì, vergot se farà! – Vergota se farà!” Alor el Renzo l’à domandà: “G’è calchedun de voiàutri, siori, che mè fa véder n’ostarìa endo che pòdia magnar vergot e dormìr senza spènder massa, come ‘n pòer contadinèl?” “Son cì per aidàrve, putèl” – dis un che l’era ìo che scoutava con atenzion tuta ca prèdicia senza dir ancor engot. “G’è cì vizìn n’ostarìa che la va ben per voi, e ve fon mì na racomandazión al padron, che l’è me amìzi e l’è da gialantòm.” “Cì vizìn?” à domandà ‘l Renzo. “Pòc’ lontan,” à respondù sto cì. Chel grupét el s’è sfantà; e ‘l Renzo, dopo che l’eva strenzù tante man mai viste, e ‘l s’è ‘nvià con un mai vist, ringraziàndol per la só bontà. “Ma de che po'?” ‘l diséva chesto: “na man la lava l’àutra, e tute doi le lava ‘l mus. Nó èl nòs dovér, far del ben al pròssim?” e ciaminànt, el ge feva na domanda e n’àutra togèndola largia. “Mìgia per fàrme i vòssi affari vèh, ma voi me ‘mparéo stràc’, da ‘ndo nidéo po'?” “Vèni, ‘nfìn, ‘nfìn da Lecco.” À respondù ‘l Renzo. — Enfìn da Lecco? Ma séo da Lecco? “Da Lecco… dal teritòri” “Oh pòr putèl! Da chel che ài podèst sentìr da le vòsse parole i doròs avérven combinà de grosse.” “Eh! caro mio! Ài cognèst parlar con en pòc’ de politica, per nó dir en piazza i me afari; ma… basta, calche dì se saverà; e alor… Ma cì vedi la tabèla de n’ostarìa; e vé dìgi la verità, nó voròssi nar pù lontan.” “No, no! Nidé ‘ndo che vé dìgi mì, g’è ‘ncor pòcia strada,” dis chel’òm: “cì nó staròsseo ben mìgia.” “Eh, sì” dis el Renzo: “nó son en sioràt usà a star entel bombàs: vergot a la bòna da saurìr el dènt e ‘n paiarìz, e ge n’ài assà: chel che me prèm l’è trovar prést un e l’àuter. Dio vede Dio provéde!” E l’è nà ént per en brut portón che sora ‘l geva la tabèla de la luna pléna. “Bòn bòn; se vé plas a voi vé pòrti cì” dis chel’òm; e ‘l g’è nà dré. “Nó ocór che vé disturbàgeo àuter no,” à respondù ‘l Renzo. — “Però, giaveròssi piazér se nidésseo a béver en bicér con mì.” “Azèti volintera i vòssi ringraziamenti,” à respondù chel tìzio, e sicome l’era pù pratico del pòsto, l’è nà avanti prima del Renzo, per na córt; l’è nà vèrs la pòrta che néva ‘n cosìna, l’à levà ‘l strapassìn e l’è nà ént col só compagn. El locale l’era pòc’ enluminà da doi lantèrne che piciàva zó da doi late taciade sul vòuplan. Tut entorna a na tàula lòngia e strénta che la ocupava scasi tuta la paré, sora doi bance una de cà e una de là g’era sentàde zó arcante persone, e nancia una per engot. G’era tovàie e piati sparpaiadi, ma ancia ciarte da zugiar ziràde e da ziràr, dadi petàdi e tòti su, e èstra chesto fias-ci e bicéri dapertut. Su la tàula se vedeva córer soldi de tuti i tipi berlinghe, reali e parpagliole che, se i avés podèst parlar, de segur i avròs dit de èsser stade enfìn a ca doman, ente la cassa de calche panetér o ‘n s-ciarsèla de calche dugo che era ‘ntel rafanàs, atento a tuti chei fati e distrat al só tacuìn privato. La confusion l’era tanta. En giarzon el ziràva inanzi e ‘ndré en prèssa e ‘n furia, a servìr su ca tàula i vantóri che magnava e zugiava d’azàrdo. L’òst envéze, l’era sentà zó su ‘nte na bància arènt al foglàr, e ‘mpareva che ‘l fus intento a far disegni sóra la zénder col fèr, ma ‘n realtà l’oservava con atenzion tut chel che suzzedéva ‘ntorn a el. Come che l’à sentù ‘l rumor del strapassìn, l’è levà su ‘n pè e ‘l g’è nà ‘ncontra ai vantori. Cando che l’à cognossù chel che era col Renzo, l’à pensà ‘ntrà de el: —Maledét! Cogneràstus nìrme sèmper ‘ntrà i pèi, nó pòdi véderte! — Po' l’à dat n’oclada ‘n prèssa al Renzo, e sèmper entrà de el l’à dit: — Nó te cognóssi, ma se vènes con chesto, o che sés en ciagn o ‘n léver: cando che avràstus dit doi parole t’averài pesà. — Però, de tuti sti pensieri sul mus de l’òst nó s’à vist engotiènto, fermo come fus en ritràt: na fazza tonda e lùstra, con na barbéta spéssa e sul rós, e doi ocléti clari e fissi. “Che comandào po' siori?” el dis con na ós fòrta. “Prima de tut portàme ‘n fias-c’ de vin bòn,” dis el Renzo, “e po' ‘n bocón da magnar.” Entant che ‘l parlava ‘l s’è petà su ‘nte na bancia vèrs la zima de la taulàda e po' con la ós àuta ‘l dis “ah!” come per dìr: sentàrse zó ‘l fa ben, dopo èsser sta tut el dì ‘n pè ‘mpegnà ente che fazènde. Ma sùbit g’è nù ‘n ment ca tàula e ca bancia ‘ndo che ‘l s’era sentà zó l’ùltim bòt con la Lùzia e con l’Agnese: e l’à tirà ‘n gran sospìr. Alor, scorlàndo la testa, ‘l vardava de paràr via ‘l destrani, e ‘ntant nidéva l’òst col vin. El só compàgn l’era sentà zó dinanzi a el. El Renzo ‘l g’à petà fòr sùbit da béver disèndoge “per bagnar i làuri.” E ‘mplenù ancia l’àuter bicér, e i l’à beù tut enten flà. “Che me déo po' da magnar?” ‘l g’à domandà a l’òst. “G’ài carne col tónco, vé plàsel?” el dis chesto. “Sì, brào; portàme carne col tónco.” “Bòn saréo servì,” el dis l’òst al Renzo; e al giarzon: “contentà sto furèst.” E ‘l s’è ‘nvià vèrs el foglàr. “Però…” el dis tornàndo dal Renzo: “però ‘ncòi pan nó ge n’ài.” “Al pan,” dis el Renzo grignànt e con la ós fòrta, “g’à pensà la Providènza.” E tirà fòr la tèrza e ùltima de che michéte che l’eva binà su da tèra sota la crós de san Dionigi, i l’à levada per aria urlàndo: “eco ‘l pan de la Providenza!” A sentìr che parole, tanti i s’è voutàdi e vedèndo chel panét per aria, un l’à zigià: “viva ‘l pan bonmarcià!” “Bonmarcià?” dis el Renzo: “gratis et amore.” “Mèio, mèio.” “Ma,” g’à tacià sùbit el Renzo, “nó voròssi che i siori i pensàs mal. Nó l’è che mì l’àbia, come se dis, sgrafignà. L’ài tòt su da tèra; e se podéssite trovar ancia ‘l padrón, sono pronto a pagiàrgel.” “Brào! Brào!” zigiava e sbotaciànt pù fòrt tuta ca compagnìa; a ‘nzun de chesti g’era passà per la testa che che parole le fus dite per dalbòn. “I pensa che i coiónia; ma l’è pròpri la verità,” dis el Renzo al só sòzi; e, ziràndo ‘l panét en man el dis: “vedéo come che i l’à conzà, empar en pinzòt: ma g’era tanta de ca zènt! Se ‘ntrà de lori ge fus sta un con i òssi tèndri, de segur nó ‘l se l’à passàda ben.” E sùbit dopo, sbarbà tréi o càter bocóni de ca michéta, ‘l g’à beù dré n’àuter bicér de vin; e po' l’à dit: “da só pòsta nó l’è bòn de nar zó sto panét. Nó ài mai bù le ciane de la gola ‘nzì séce. Nó se à fat che urlar!” “Preparà ‘n bòn lèt per sto brào putèl,” dis chel tizio: “perché ‘l g’à l’intenzion de dormìr cacì.” “Voléo dormìr cì?” à domandà l’òst al Renzo, svizinàndose a la tàula. “Segur,” à respondù ‘l Renzo: — en lèt a la bòna; “basta che i linzòi i sia de lìssia; perché son bèn en pòver òm, ma son usà a la netìsia.” “Oh, cant a chesto!” el dis l’òst: l’è nà al banco, che l’era enten ciantón de la cosìna e l’è nù de vòuta con en cialamàr e ‘n tocét de ciarta biancia ente na man, e na péna ente l’àutra. “Che vòl dir po' chesto?” l’à sclamà ‘l Renzo, englotèndo ‘n bocón de tonco che ‘l giarzon geva metù davanti, e po' grignando plén de maravéa, ‘l dis: “èl el linzòl de lìssia, chesto?” L’òst, senza risponder, l’à pozà su la tàula ‘l cialamar e la ciarta; po' l’à pozà su la medésema tàula ‘l braz enzànc’ e ‘l gómbet andrìt, e con la péna per aria, e ‘l mus auzzà vèrs el Renzo, ‘l g’à dit: “féme ‘l piazér de dìrme ‘l vòs nòm, cognòm e patria.” “Che?” dis el Renzo: “che ge intra ste storie col lèt po'?” “Mì fón sol el mé dovér,” dis l’òst vardàndo chel tìzio: “noi sén obligiadi a rezistrar tute le persone che vèn cì a dormìr: nòm, cognòm, da ‘ndo che i vèn, el motìvo de la só visita, se i g’à armi… e per cant tèmp che i g’à ‘ntenzion de fermàrse ‘n zità. L’è i órdeni stabilìdi da le aotorità.” Prima de risponder el Renzo l’à svoidà n’àuter bicér: l’era ‘l tèrz; e da cì ‘n avanti g’ài paura che nó poderén pù contarli. Po' ‘l dis: “ah! ah! siché géo el pefèl! E mì fón finta de èsser en dotór en léze; enzì sai benón cant che le val ste lézi scrìte!” “Vàrda che dìgi per dal bòn vèh,” dis l’òsto vardàndo sèmper chel tipo che era nù ‘nsèma al Renzo; e, l’è nà de nòu vèrs el banco, l’à tòt fòr da ‘n ciassetìn en sfòi grant che l’era na copia vàlida de ca léze; e l’è nù a spiegiàrgela davanti ai òcli del Renzo. “Ah! eco!” l’à sclamà ‘l Renzo, auzzàndo con na man el bicér che l’eva ‘mplenù de nòu, e svidà sùbit ente na sboconada, e ‘ndrizzando fòr l’àutra man, con en dé fòr drìt, vèrs el pefèl: “eco sto bèl fòli de messal. Son pròpri contènt! El cognóssi benón chel stèma, e sai ancia chel che vòl dir ca figura de ca fazza da biondo con la corda al còl.” (A chel tèmp, en zìma ai pefèi gera sèmper el stèma del governator. Enchela ìo che eva fat el Gonzalo Fernandez de Cordova, gera su ‘n re mòro enciadenà per la gola.) “Ca fazza ìo vòl dir che comanda cì che pòl e ubidìs cì che vòl. Cando che che ca fazza ìo la sara bòna de mandàr en presón el sior don… bòn, lagiànte star, sai mì cì che l’è, come che g’è su scrìt su ‘nte n’àuter pefèl del zènere; cando che la sarà bòna de perméterge a ‘n putèl zóven e onèst el pòdia sposar na putèla zóna e onèsta e che l’è d’acòrdi a maridàrlo, alor mì dirài el me nòm a chel stèma e magiari ge darài ancia ‘n baso en ségn de respèt. Ma per entant g’ài le me pù che bòne resón per nó dir el me nòm. E po', scusàme! Se ‘n malfatór, che g’à sota de el na banda de slandroni (perchè se ‘l fus sol el…, e cì ‘l Renzo el s’è fermà con en zèsto che voleva dir tut), se ‘n malfatór el volés savér endo che son per fàrme del mal, me domandi se chel stèma ‘l faròs vergot per protézerme. Doròssite contàrge tuti i me afari a tuti? Chesta l’è nòva! Meténte ‘l caso, son nù a Milan, per confesàrme con en frate ciapuzìn, ma no con n’òst! L’òst el féva zito, e ‘l seghitava a vardàr el tizio, che nó ‘l féva na fìzza. El Renzo, ne desplàs dìrlo, l’à tracanà n’àuter bicér, e po' l’à dit: “Adès, caro òsto, te ‘l dìgi mì come che l’è la chestion, e vederàstus che la te convinzerà. Se le lezi che parla ben, a favor de le persone oneste, nó le vèn osservàde, alor tanto men dev’èsser rispetà chele che le comanda proebizion e le parla contra de noi. Donca làgia pèrder tute ste complicazion e pòrteme ‘nvéze n’àuter fias-c’ de vin, che chesto l’è difetà.” Disèndo ‘nzì l’à dat en colpàt con le noséte sul fias-c’ e ‘l dis: “Sènti, sènti, òsto, come che ‘l sgrìngena!” Ancia sta bòta, plan plan el Renzo l’eva tirà l’interès de chei che gera ìo arènt: e ancia sta bòta i g’à batù le man. “Che giàite da far po'?” dis l’òst, vardàndo chel tizio che ‘nzun cognosséva, ma che l’òst el cognossèva benón. “Dai, dai, el g’à resón sto putèl: l’è tut angiarìe, taiòle, complicazion: ancòi na léze, doman n’àutra;” i zigiava tanti che gera ìo. Entant che gera tut sto tololò, el tizio l’à vardà l’òst come per brontolàrge per avérge fat na domanda massa sclèta al Renzo e ‘l g’à dit: “Làgel star làgia che ‘l fàgia chel che ‘l vòl, nó sta ‘nviàr via complicazion.” “Mì ‘l me dovér l’ài fat,” dis fòrt l’òst; e pò ‘ntrà de él: — adès mì g’ài le spale al mur. — E l’à tòt la ciarta, la péna, ‘l cialamar, el pefèl, e ‘l fias-c’ vòit, per dàrgel al giarzon. “Porta sèmper de chesto,” dis el Renzo: “che l’è bonét assà; e ‘l meterén entel lèt come l’àuter, senza domandàrge nòm e cognòm, e da ‘ndo che ‘l vèn, e chel che ‘l vèn a far, e se ‘l g’à da star tant tèmp ente sta zità.” Dàndoge ‘n man el fias-c’ vòit al giarzon, l’òst el dis: “Del medésem,” e po' l’è tornà a sentàrse zó sota a la capa del foglàr. — Àuter che léver! — el pensàva, fasèndo disegni col fèr enla zénder: — e ‘nche man ses ciapità! Àsen che nó ses àuter! Se vòs negiàrte, négete; ma l’òst de la luna pléna nó ‘l deve nàrge de mèz, per le tó pazzìe. — El Renzo l’à ringrazià che l’òm che ‘nzun cognosseva, e tuti chei che geva dat resón. “Bravi amìzi!” el dis: “Adès védi che le persone onèste le se àida e le se sostègn una con l’àutra.” Po', auzzàndo la man sora la tàula e fasèndo la part de ‘n prediciatór, l’à sclamà: “Nó se pòl créder come tuti chei che comanda ‘l mondo i vòbia dopràr sèmper ciarta, pena e cialamàr! Sèmper con la péna ‘n man! I g’à la fissazion de doprar la pena, sti siori!” En zugiadór, che ‘nte chel moment l’era dré a vénzer, el s’è metù a grignar e ‘l g’à dit al Renzo: “Ehi, tì, brào òm de campagna! Vòs savér el motìvo?” “Sentìnte,” à rispondù ‘l Renzo. “El motivo l’è chesto,” ‘l dis: “che chei siori l’è chei che magna le oche e i vànza ‘n mùcel de plume, ma tante de che plume, che vergot ge vòl che i se ‘n fàgia.” Tuti i s’è metùdi a grignar, men che ‘l compàgn che perdeva. “Ma varda tì,” dis el Renzo: “chesto cì l’è ‘n poeta. Ge n’è ancia da ste man: ormai ge n’è dapertut. G’ài ancia mì ‘n pòc’ del poeta, e a bòte son bòn de tiràrnen fòra encaluna de bèle… ma sol can che le ròbe le và ben.” Per ciapìr ben sta bazanàda del Renzo, ge vòl saver che ‘ntel dialèt milanes e ìo ‘ntorna, la parola “poeta” nó la vòl dir chel che pensa la zènt lezùda, n’òm che cognos l’art del scrìver, istruì da la dea de le art, che vìu sul Pindo, ma putòst en strambèra, en redicolòt, che ‘ntei discorsi che ‘l fa e ancia ‘ntéi fati l’è senza costrùt. El pòpol l’è sèmper pronto a rebaltar chel che vòl dir zèrte parole, sichè ste parole le vèn a voler dìr tut a la revèrsa. Ma diséme voi: che cambia po' dir poeta o strambón? El Renzo ‘l s’è ‘ntrometù disèndo: “Ve la dìgi mì la verità: l’è perché ‘l làpis i lo g’à sèmper lori, siché le parole che i dis le sgola per aria e le sparìs; enveze le parole de ‘n pòr laór le vèn sùbit metùde su la ciarta, ìo pronte per èsser doprade a dàrge contra cando che l’è ‘l moment zust. E po', i g’à ancia n’àutra malìzia, cando che i vòl ‘ngianàr en pòver òm che nó à studià ma che però ‘l g’à ‘n pòc’ de…” — e cì ‘l Renzo, per fàrse ciapìr mèio, el se bateva col dé su la tèmpla — “e i se nascòrz che ‘l scoménzia a ciapìr l’ingiàgn, zàchete! I tìra fòr calche parola ‘n latìn, per fàrge pèrder el fil de la zacolàda e confónderge le idee. Comunque sia ge vòl ruàrla con ste abitudini! Almen ancòi s’à parlà fòr dai dènti, che tuti i ciapìva, senza bisògn de ciarta e pena. E doman, se la zènt la se comporterà ben, se poderà otègner ancor vergot de mèio, senza fàrge del mal a ‘nzun, sol con la fòrza de la zustìzia.” Entant, zèrti de chei compagnoni i eva scomenzià de nòu a zugiar, zèrti àutri a magnar, tanti i seghitava a zigiar; encalun el se ‘n neva, e àutra zènt l’arivava. L’òst el se ocupava de tuti, e ‘l se ‘nzignava tra i vantori. Tute ste ròbe però nó le conta ‘ngot per la nòssa storia. Ancia chel’òm arivà col Renzo, che ‘nzun cognosséva, emparéva che ‘l giavés prèssa de nàrsen. Empareva che ìo ‘n chel’ostarìa nó ‘l giavés engot da far, ma però nó ‘l voléva nàrsen prima de aver podèst far doi zàcole col Renzo a càter òcli. Sichè l’à tirà fòr ancor la chestion del pan. Dopo avér fat arcante zàcole, che entei ultimi tèmpi, le era su la bócia de tuti, l’à po' dit la só opunion: “Ah! Se fùssite mì a comandar,” el dis, “saveròssi ben mì come sistemar le ròbe per el vèrs zust.” “Come voròsseo far po'?” g’à domandà ‘l Renzo, vardàndol con doi ocléti slusènti pù del dovér, e storzèndo ‘n pòc’ la bócia, come per star pù atènto. E chel’ìo ‘l dis: “Come che faròssi? Voròssi che ge fus pan per tuti; tant per i pouréti che per i siori.” “Ah! eco, ‘nzì va ben,” dis el Renzo. “Mì faròssi ‘nzì. Dezideròssi ‘n prèzzi onèst per el pan, en modo che tuti i podés compràrlo e vìver da cristian. E po' ‘l pan el doròss èsser dat fòr conforma al nùmer de le persone per famìlia, perché ge n’è de chei angordóni che voròs tut per lori, ciaparàndonsen de pù de chel che zòva e lagiàndo senza i àutri. Donca, ge voròss spartìr el pan enten modo zust. Come? L’è sèmplize: dàndoge a ogni famìlia ‘n bigliet conforma al nùmer de le persone de ca famìlia, da presentàr al pistór per tòr el pan. Per esèmpi, a mì i doròs dàrme ‘n bigliet con su scrit: Ambrogio Fusella, de mistér ferar, con na spósa e càter fiòi, tuti entei ani da magnar pan (atenzion a sta picolézza), el g’à dirìto a na zèrta dòsa de pan e ‘l cògn pagiàr na zèrta soma. Ma ge vòl far tut con zustìzia, sèmper conforma al nùmer de le bóce da sfamar. A voi, per esèmpi, i doròss dàrve ‘n bigliet per… che nòm géo voi?” “Lorenzo Tramaglino,” el dis el putèl; che, ‘ngolosì dal chel prozèto, nó ‘l geva fat caso che ancia chesto l’era tut ciarta, pena e cialamar, perché per fàrlo laorar, la prima ròba da far l’era chela de tòr su i nomi de la zènt. “Benón,” dis chel tizio: “ma geo spósa e fiòi?” “Doròssi ben… fiòi no… l’è massa bonora… ma la spósa… se ‘l mondo ‘l nés come che ‘l g’à da nar…” “Ah seo da vòssa posta! Sichè alor, saréo d’acòrdi, na porzion pù pìzzola.” “Sì l’è zusta; ma se prést, come che spéri… con l’aiùt del Sioredio… Bòn, bòn; ma se giavéssite spósa ancia mì?” “Alor se cambia ‘l bigliet, e se crés la porzion. Come che ve ài dit; sèmper conforma a le bóce,” dis chel tizio prima de levàr su ‘n pè. “Enzì va ben,” l’à zigià ‘l Renzo; e urlando e batèndo ‘l pugn su la tàula, el dis ancor: “e perché po' nó i la fa na léze ‘nzì?” “Che voléo chevé dìgia po' mì? Entant mì ve dón la bonanòt, e me ‘n vón; perché pensi che la me spósa e i me fiòi i me spètia da ‘n pèz.” “N’àuter biceròt, n’àuter biceròt,” el zigiava ‘l Renzo, e ‘ntant l’amplenìva ‘n prèssa ‘l bicér de chel’òm; po' sautàndo su ‘n pè i l’à tirà fòrt per el bèc’ del giabàn perché ‘l se sentàs zó ancora. “Dài, dài, n’àuter biceròt: nó ste fàrme sto dispèt no.” Ma chel’amìzi, con na stironàda, ‘l s’è liberà dal Renzo fasèndo finta de nó sentìr tuta na confusion de sùplice e brontolade, e l’à dit sol: “bonanòt” e po' vàrda che nare. El Renzo ‘l seghitava ancor a parlàrge come se con le só parole l’avés podèst tègnerlo ìo, ma l’àuter l’era zà ‘nla strada. A la fìn, el s’è sdravacà su la bancia. L’à vardà ‘l bicér che l’eva apena ‘mplenù, e vedèndo passar el giarzon el g’à fat segn de fermàrse, come se ‘l giavés vergot de importante da dìrge. Po' fasèndo ségn al bicér e parlando plan e sèrio, ‘l dis: “Varda ìo, l’evi ‘mplenù per chel bòn òm: l’è plen enfìn a l’ór, pròpri da amìzi, e nó l’à volèst béverlo. A bòte la zènt la g’à idee pròpri stràmbe. Mì, colpa nó ge n’ài: el me bòn còr l’ài mossà. Adès, visto che l’è zà pronto, nó se pòl zèrto farlo nar de mal. E disèndo ‘nzì, i l’à tòt en man e l’à fat na rèsta.” “Ài ciapì,” dis el giarzon, e l’è tornà a far el só mistér. “Ah! eo ciapì ancia voiàutri,” dis el Renzo: “sichè l’è vera. Cando che le resón le è zuste…!” Cì l’è nezessàri tut el nòs amor per la verità per èsser bòni de contàrve onestament en fato che porta ‘n gran disonor per en personàgio tanto importante, anzi se poròs dir per el prinzipale de la nòssa storia. Però, pròpri per onestà, cognen ancia dir che per el Renzo l’era la prima bòta che ge ciapitava na ròba compagna; e l’è pròpri per chesto, per sto fato de nó èsser usà ai vizi, che ca bòta la g’è costada pròpri ciara. I pòci bicéri che l’eva beù ‘n prinzìpi, un dopo l’àuter enten modo che nó gera mai suzèst, sia per la gran bàmpa che ‘l sentìva, sia per l’azitazion che nó la ge lagiava far engot con calma, i g’à fat ziràr la testa sùbit. A ‘n bevidór pù spèrt, enveze, nó i averòs fat àuter che paràrge la sé. Su sto punto, chel che à scrìt a man sta storia ‘l fa n’oservazion che convièn dir, per chel che la pòl contar: le bòne abitudini oneste, ‘l dis, le g’à ‘n vantàzi che, pù che le è ‘ncarnade ente n’òm, tanto pù se ‘l se slontàna da chele, el ne ‘n patìs i efèti. Enten sto modo la speriènza la rèsta imprèssa ‘n la testa per en bèl pèz, e perfìn n’eror el pòl deventar na lezion per la vita. Ad ogni modo, cando che i primi efèti del vin i à scomenzià a fàrse sentìr enla zucia del Renzo, el béver e ‘l baderlàr i è nadi avanti senza frèni: ‘l vin el néva zó e le zàcole le nidéva su, e tut senza mesura. Al punto ‘ndo che l’éven lagià l’era zà putòst ciuco. El geva na gran vòia de zacolàr e le persone ìo ‘ntorna che podéva scoutàrlo nó le manciàva de segur, per en pezzòt le parole le g’era nude fòr senza complicazion, reussèndo perfìn a méterle ‘nsèma con en zèrto costrut. Ma plan plan a dir le ròbe l’è deventà sèmper pù difìzil. I pensieri che prima ge nidéva convìnti e seguri ‘nla testa, tut de colp i se confondeva e i svanìva; e le parole, che le tardivava a nir, a la fìn nó le era mai che zùste per spiegiar chel che ‘l voleva dir. Ente che condizion che l’era, per colpa de chel’istìnto fàus che tante bòte l’è la rovìna dei òumni, el néva a redùrse ancor entel fias-c’. Però, en che modo che ‘l fias-c’ l’avés podèst aidàrlo ente na situazion del zènere, tuti chei che g’à en pòc’ de cràiz, i pòl ciapìrlo da sé. Noi ve dirén sol encaluna de le tantissime parole che ge nù fòr enca sera maledéta: le pù tante che lagiàn star, nó le faròs àuter che fàrla ancor pézi; perché da chel che ‘l diséva nó se ciapìva ‘ngot, e se nó basta nó ‘mpareva nancia che le volés fàrse ciapìr e chesta le na ròba che nó pòl manciar enten lìber stampà. “Ehi, òsto, òsto!” diséva ‘l Renzo, e ‘l ge neva dré con i òcli ‘ntant che ‘l neva cà e là per l’ostarìa o che ‘l se fermava arènt al foglàr, e a bòte i lo fissava ancia cando che nó ‘l gera ìo, seghitando a zacolàr entel traboldéri de la compagnìa. “Che razza de òst ses po'! Nó son pròpri bòn de mandàrla zó chesta… ca storia del nòm, cognòm e mistér. A un come mì…! Nó te sès comportà ben no. Che sodisfazion, che piazér, che gusto g’era po' a méter su la ciarta ‘l nòm de ‘n pòr diàul? Dìgite ben no, siori? I òsti i doròs tòr la part de la brava zènt… Sèntime, sèntime cì, òsto; vòi fàrte n’esèmpi… per spiegiarte le me reson… Ah, grignào, ah? Sì son en pòc’ beù… ma le ròbe che dìgi le è zùste. Dìme mò: cì el po' che te permét de mandar avanti la tó ostarìa? La zènt normale, no? Dìgite ben no? Adès dìme se chei siori che scrìu le lézi i vèn cì da tì a béver en biceròt!” “Tut zènt che béu aca,” dis un ìo vizìn al Renzo. “I vòl restàr seréni,” g’à tacià n’àuter, “per podér dir meio le bosìe.” El Renzo l’à sclamà: “Ah! Adès à parlà ‘l poeta! Sichè ancia voi ciapìo le me reson. Tòi, òst, dìme: e ‘l Ferrer, che l’è ‘l mèio de tuti, èl mai nù cì a far na beùda e a spènder en sòldo? E chel maledét de ‘n sassìn, de don…? Mèio che tàsia, perché son ancor serén enfìn massa. El Ferrer e padre Crrr… sai ben mì cì che ‘ntèndi, l’è doi brave persone, ma de gialantòmni ge n’è pòci. I vècli i è pèzo dei zóveni, e i zóveni… i è ‘ncor pézi dei vècli. Però son content che nó se sia vist sanc: chel no, mai! Chele ìo l’è crudeltà. Ròbe da lagiàrge al sassìn. Ma ‘l pan… oh, chel sì che l’è importante! Ài zapà pache, ma… n’ài dat ancia mì! Fé passar! Bondanza! Viva! Epur, ancia ‘l Ferrer… calche parola ‘n latìn i l’à dita… siès baraòs trapolorum... Maledéto vizi! Viva la zustìzia! Viva ‘l Pan! Ah, eco le parole zuste! Ìo ge voleva chei òumni corazosi… cando che sonava chel maledét ton ton ton! Se i ge fus stadi ìo, nó saròssen s-ciampadi, vera no? Ge voleva tégnerlo ìo, chel sior curat… Sai ben mì cì che dìgi!” A sta parola ‘l Renzo, la sbassà la testa e l’è sta ìo en pezzòt a pensàrge su: po' la fat en gran sospìr, e la auzzà ‘l vis, con doi òcli ùmoi de làgrime e lustri, e a vardàrlo se vedéva che ‘l patìva de ‘n dolor enzì esazerà e tànger che ‘l saròs sta fastidios, se la persona che ge neva chel sentiment, i l’avés vist enchel moment. Chei oumnàzi che gera ìo, che i eva zà scomenzià a sbambolàrse per el modo confus e emozionà che geva ‘l Renzo entel parlar, i se divertìva ancor de pù a véderlo ‘nzì trìst. I pù vizìni i feva véder la sèna ai àutri, che i se zirava a vardàrlo, fasèndol deventar el zambèl de la compagnia. Nó l’è che tuti i fus stadi mesuradi e sereni, ma ‘nzun era ‘nzì ‘mbriàc’ e fòr per le frós-ce come el; en pù ‘l Renzo l’era ‘n contadìn, e chesto voléva dir coionarlo ancor de pù. A turno, zèrti i lo zinzegiava con domande siòche e vilane, àutri i lo togeva per ziro a fàrge fàussi zèsti de riguardo. El Renzo ‘l se contradiva: a bòte ‘mpareva che ‘l se ofendés, e po', vòutete l’òcel, el scherzava ancia el, a bòte nó ‘l scoutava le tòte per ziro e ‘l parlava d’àuter, o se no ‘l rispondeva fasèndo el le domande, però sèmper enten modo confus e fòr dal seumnà. Per fortuna, entela so confusion l’eva tegnù na zèrta prudenza e l’è sta bòn a nó far nomi de persone. Perfìn el nom che l’averòs dovèst aver en ment pù de tuti, nó ‘l g’è s-ciampà fòr da la bócia, e chesto l’è sta na bela ròba: ne saròs desplasèst massa se chel nom, che ancia noi ge portan rispèt e ge volén ben, el fus sta strozzegià ente ca sparlazzada vilana e ‘l fus sta grignà fòr da che bóce vergognose.
L’oste, vedendo che il gioco andava in lungo, s’era accostato a Renzo; e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e, con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone. “Andiamo a letto, a letto,” disse l’oste, strascicandolo; gli fece imboccar l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan più che mai, ora s’eclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno d’amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. “Bravo oste!” gli riuscì però di dire: “ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m’hai fatta, sul nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte...” L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. “Figliuolo caro,” disse, con una voce e con un fare tutto gentile: “non l’ho fatto per seccarvi, nè per sapere i fatti vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e... Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro nome, e... e poi andate a letto col cuor quieto. ” “Ah birbone!” esclamò Renzo: “mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio! ” Sta’ zitto, buffone; va’ a letto,” diceva l’oste. Ma Renzo continuava più forte: “ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io.” E voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: “amici! l’oste è della...” “Ho detto per celia,” gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: “per celia; non hai inteso che ho detto per celia?” “Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Son proprio celie.” E cadde bocconi sul letto. “Animo; spogliatevi; presto,” disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle), l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’era il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest’altro affare. “Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero?” disse. “Buon figliuolo, galantuomo,” rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare. “Bene,” replicò l’oste: “saldate ora dunque quel poco conticino, perchè domani io devo uscire per certi miei affari...” “Quest’è giusto,” disse Renzo. “Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari? Andare a cercare i danari ora!” “Eccoli qui,” disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi. “Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste,” disse Renzo. “Lo vedo anch’io, ve’, che ho addosso un gran sonno.” L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli disse sgarbatamente - buona notte, - che già quello russava. Poi, per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. “Pezzo d’asino!” disse nella sua mente al povero addormentato: - “sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.” Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a far le sue veci. “Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia,” soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: “occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario...” “Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire...” “Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perchè, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di tornare più presto che posso.” Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò, con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva ripreso, dentro di sè, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada. — Testardo d’un montanaro! — Chè, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sè, nelle parole, nella pronunzia, nell’aspetto e negli atti. — Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio! A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sè: — eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo vostro. Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da esser applicati, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie. — A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia. Lì, come a tutti gli altri ufizi, c’era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Potè però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cent’altre belle notizie congetturali; dimodochè, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome. “Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia;” disse un notaio criminale, mettendo giu la penna, “ma già lo sapevamo.” — Bel segreto! — pensò l’oste: — ci vuole un gran talento! — “E sappiamo anche,” continuò il notaio, “quel riverito nome.” — Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto? — pensò l’oste questa volta. “Ma voi,” riprese l’altro, con volto serio, “voi non dite tutto sinceramente.” “Cosa devo dire di più?” “Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.” “Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perchè, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.” “Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?” “Cosa ho da provare io? io non c’entro: io fo l’oste.” “Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti contro l’arme di sua eccellenza.” “Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome.” “Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.” “Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono un pover’uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e...” “Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il ruzzo. Cosa credete?” “Io non credo nulla.” “Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?” “Oh giusto!” “Vedrete, vedrete.” “Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.” “Avete ancora molta gente in casa?” “Un visibilio. ” “E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani?” “Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.” “Dunque avete molta gente... Basta; badate a non lasciarlo scappare.” — Che devo fare il birro io? — pensò l’oste; ma non disse nè sì nè no. “Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, - riprese il notaio.” “Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia.” “E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.” “Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste.” “La solita canzone: non avete mai altro da dire.” “Che ho da dire altro? La verità è una sola.” “Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.” “Cosa ho da informare? io non so nulla; appena ho la testa da attendere ai fatti miei.” “Badate a non lasciarlo partire.” “Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.” Allo spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett’ore, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava: “Lorenzo Tramaglino!” lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto. “Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino?” disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. “Animo dunque; levatevi, e venite con noi.” “Lorenzo Tramaglino!” disse Renzo Tramaglino: “cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome?” “Meno ciarle, e fate presto,” disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio. “Ohe! che prepotenza è questa?” gridò Renzo, ritirando il braccio. “Oste! o l’oste!” “Lo portiam via in camicia?” disse ancora quel birro, voltandosi al notaio. “Avete inteso?” disse questo a Renzo: “si farà così, se non vi levate subito subito, per venir con noi.” “E perchè?” domandò Renzo. “Il perchè lo sentirete dal signor capitano di giustizia.” “Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio...” “Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri.” “Mi lascino andare ora,” disse Renzo: “io non ho che far nulla con la giustizia.” “Orsù, finiamola!” disse un birro. “Lo portiamo via davvero?” disse l’altro. “Lorenzo Tramaglino!” disse il notaio. “Come sa il mio nome, vossignoria?” “Fate il vostro dovere,” disse il notaio a’ birri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto. “Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che...! Mi so vestir da me.” “Dunque vestitevi subito,” disse il notaio. “Mi vesto,” rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo: “ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacchè mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.” “Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, - rispose il notaio. In altre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacchè, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perchè la giustizia avesse preso tant’animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poichè Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzìo crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: “vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel’ha detto? ” “Bravo, figliuolo, bravo!” rispose il notaio, tutto manieroso: “vedo che avete giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che tant’altri. È la miglior maniera d’uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò... Lasciate fare a me... Basta; sbrigatevi, figliuolo.” “Ah! lei non può: intendo,” disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo spicciare. “Passeremo dalla piazza del duomo?” domandò poi al notaio. “Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà,” disse quello, rodendosi dentro di sè, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. — Quando uno nasce disgraziato! — pensava. — Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c’è scampo, — continuava a pensare, tendendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro: — non c’è rimedio; è risica d’essere una giornata peggio di ieri. — Ciò che lo fece pensar così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non potè tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l’impannata, e stette un momento in forse, se dovesse condur l’impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva. — Ma, — pensò subito, — mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere! Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi. Il notaio accennò a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: “da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.” Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. “Ohe!” disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: “qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio!” “Vi sarà dato ogni cosa puntualmente,” disse il notaio, “dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.” “No, no, no,” disse Renzo, tentennando il capo: “questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.” “Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto,” disse il notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra’ denti: “alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere.” I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sé: — se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l’hai da pagare. — Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: “e quest’oste benedetto dove s’è cacciato?” il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’ più che il giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi. Renzo si divincola, grida: “che tradimento è questo? A un galantuomo...!” Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, “abbiate pazienza,” diceva: “fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.” Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: “pazienza!” “Bravo figliuolo!” disse il notaio: “questa è la vera maniera d’uscirne a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’io; ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacchè vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c’è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi parlerò io.... Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri,” continuò poi, voltandosi a’ birri, con un viso severo: “guardate bene di non fargli male, perchè lo proteggo io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso.” E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: “m’avete inteso.” Voltatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: “ giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo. ” E la comitiva s’avviò. Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: nè che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, nè che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, nè che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi que’ bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da approfittarne. Dimodochè tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario. Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perchè s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sè sospetta, fosse andato suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’ ritrovati maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all’impazzata, senza garbo nè grazia. Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sè, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura. Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario; e benchè sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c’era. “Giudizio, giudizio!” gli susurrava il notaio dietro le spalle: “il vostro onore; l’onore, figliuolo.” Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo, tornavano indietro, e facevan coda. “ Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, ” continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini. “Ahi! ahi! ahi!” grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. “È un malvivente,” bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: “è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia.” Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, — se non m’aiuto ora, pensò, mio danno. — E subito alzò la voce: “figliuoli! mi menano in prigione, perchè ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!” Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: - cos’è stato? “Uh corvaccio!” rispose colui. “Corvaccio! corvaccio!” risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in quel momento, d’esser fuori di quel serra serra.
L’òst, a véder che la situazion la neva per le lònge, l’era nà arènt al Renzo e, domandàndoge con le bòne ai àutri de lagiàrlo star, i lo scorlava per en braz e ‘l provava a fàrge ‘ntènder e a convìnzerlo de nar a dormìr. Ma ‘l Renzo ‘l tornava sèmper da capo con la chestion del nom e cognom, e con i pefèi e i bòni fiòi. Però che parole, lèt e dormìr, ripetùde ‘nle só récle, a la fìn lé g’è nade ‘nla zucia; l’à scomenzià a sentìr el bisògn de poussàr e per n’àtimo l’era nù a èsser en pòc’ pù serén. Chel’àtimo che ‘n pòc’ i l’eva serenà, el g’à fat ciapìr che enten calche modo nó ‘l seva pù ‘ndo che l’era: come cando che rèsta ‘mpizzà sol l’ùltima ciandèla de ‘n luminàri e che la permét de véder tute le àutre che ormai le s’è smorzàde. Alor la vardà de fàrse fòrza: l’à slongià le man e i l’à pozàde su la tàula per aidàrse, l’à provà doi bòte a levar su, sospirant e sgiambirlàndo. Al tèrz bòt, con l’aiùt de l’òst l’è sta bòn a la fìn de méterse ‘n pè. L’òst, tegnèndol sèmper en pè, l’à aiutà ‘l Renzo a nir fòr da tra la bancia e la tàula. Po' l’à tòt na lanterna con na man e sostègnendol con l’àutra, l’è sta bon en calche modo a portàrlo, anzi a strozzegiàrlo vèrs la porta che neva su per le s-ciale. A sto punto, a sentìr el traboldéri dei àutri vantori che i lo saludava, el Renzo ‘l s’è voutà de cólp. Se l’òst nó ‘l fus sta pronto a tegnìrlo per en braz, ca ziravòuta la saròs deventada na bruta piciagnòla. Comunque, l’è sta bòn de ziràrse, e con el braz libero l’à scomenzià a far zèsti per aria per saludar, movèndo le man con mòti largi e desordenadi scasi come se ‘l volés disegnar per aria i grópi ‘ntortoladi de ‘n gróp de Salomone. “Vèi che nén entel lèt, entel lèt,” dis l’òst, strozzegiàndol; dopo avèrlo spenzù atravèrs la porta, con ancor pù fadìgia l’è sta bòn de fàrlo nar su per la s-cialéta e a la fìn portàrlo ‘nla ciàmera che ‘l geva destinà. Apena che l’à vist el lèt, el Renzo l’era contentón. L’à vardà l’òst con afèto, con doi ocléti che a momenti i sluséva a momenti i se smorzava come fus doi lusnèle. L’à provà a restar en pè su le giambe a stravèut e l’à slongià la man vèrs el mus de l’òst per fàrge en pizgotèl su la gòuta, per amicizia e per ringraziàrlo, ma nó l’è sta bòn. Però l’è sta bòn de dir “Brào òst! Adès vedi che ses en gialantòm: dàrge ‘n lèt a ‘n pòer putèl come mì l’è na bòna azion. Però ca storia del nòm e del cognòm, ca fegura che às fat prima, nó l’è stada da persona onesta. Per fortuna che ancià mì nó son pròpri ‘nzì malmadùr…” L’òst, sbalordì a véder che ‘l Renzo l’era ‘ncor bòn de ragionar si ben che l’era ‘mbriàc’, e segur, grazie a la só speriènza putòst lòngia, de cant che i ‘mbriaghéle i sia portàdi a cambiar idea ‘n prèssa, l’à dezìso de profitar de ca serenèla per provar ancora ‘n bòt a otègner le informazion che ‘l desiderava. Con en tono educà e calmante, ‘l g’à dit: “Caro putèl, varda che nó l’ài fat per savér i tó afàri. Che vòs fàrge po'? L’è la léze, ancia noi gen da ubidìr, se no sen i primi a pagiàrla ciara. L’è mèio contentàrli e… a la fìn che saràl po'? Engot de cissachè! Sol dir doi parole. Nó ‘l fón per lori, ma per fàrte ‘n piazér a tì. Dai valà, ‘ntrà de noi, en confidànza, fén fòr sta fazènda: dime come che te clàmes e… po' poderàstus nar a dormìr tranquilo.” El Renzo, però, l’à ciapì ‘l tài del prà, e ‘nrabià l’à sclamà: “Ah, brigante! ‘mbroión! Ancora ge das sora a sta storia maledéta del nòm, cognòm e mistér!” “Tasi valà, paiàzzo; vai entel lèt,” diseva l’òst. Ma ‘l Renzo, ‘l seghitava ancor pù fòrt: “ài ciapì: ses de ca crica ancia tì. Spèta, spèta che te cònzi mì per le fèste.” E voutàndo la testa vèrs la s-cialéta, el scomenziava a urlar ancor pù fòrt: “amìzi! l’òst l’è de la…” “Ài dit per schèrz,” ‘l g’à urlà sul mus l’òst, spintonàndol vèrs el lèt: “per schèrz; às ciapì no che parlavi per schèrz?” “Ah! per schèrz; adès pàrles ben. Cando che às dit per schèrz… l’è pròpri scherzi.” E po' l’è crodà a panza ‘nzó sul lèt. “Déhi mò; desvestìve, presto,” dis l’òst, e èstra al consili i l’à ancia aiutà, perchè ‘l ge neva pròpri de bisògn. Cando che ‘l Renzo ‘l s’à tirà fòr el giabàn (e ge n’à voléste), l’òst i l’à brancà sùbit, e l’à tastà con le man entorn a le s-ciarsèle per curiosar se ge fus calche sòldo. E vergot l’à trovà: savèndo che ‘l dì dré ‘l Renzo l’averòs dovèst far i conti con tut’àutra zènt, e che chei soldi i saròs nadi ‘n man a calchedun che n’òst nó i l’averòs pù visti, l’à dezìso de farli sòi prima che ‘l fus massa tardi. El dis: “Voi séo en bòn putèl, en gialantòm, èl vera no?” “Bòn putèl, gialantòm,” g’à respondù ‘l Renzo che ‘ntant el feva litegiar i dédi coi botóni dei drapi che nó l’era ancor sta bòn de tòrse fòr. “Benón,” à ripetù l’òst: “pagiàme adès chel pòc’ de dèbit che geo, perché mì doman cògni partìr bonora che g’ài afari…” “Chesto le zùsto,” dis el Renzo. “Son furbo, ma da gialantòm… Ma i soldi? Nàr a zerciàr i soldi adés!” “Vardàli cì,” dis l’òst: e metèndo ‘nsèma tuta la só pràtigia, tuta la só pasiènza, tuta la só malìzia, l’è sta bòn de fàrge ‘l cont al Renzo e de tégnerse i soldi per pagiament. “Tòi òst, dame na man valà, che pòdia ruàr de spoiàrme,” dis el Renzo. “El vedi ben ancia mì vèh, che g’ài adòs na gran sòn.” L’òst l’à aidà ‘l Renzo come che ‘l geva domandà, el g’à tirà su la cuèrta adòs e con en tono da vilan, el g’à dat la bòna nòt, ma chelìo zamài el ronzegiava. Po' tirà da chel’istinto che a bòte ‘l ne porta a fermàrne su chel che ne da fastìdi tanto cant su chel che ne plàs – forse per el desidèri de ciapìr mèio chel che ne tócia – l’è restà ìo a vardàr chel vantor enzì fastidios. L’à auzzà la lum vèrs el só mus e con na man, l’à fat en modo che la luze i lo ‘nluminas mèio con en zèst compagn a chel de la Psiche cando che ‘nle piture, la spia con la lanterna ‘l vis del só òm che nó la cognosseva nancia. Enla so testa l’òst l’à maledì ‘l Renzo e ‘l pensava: “Dugo che nó sés àuter! Te la sés pròpri zerciada. Vederàstus doman che bela speriènza che faràstus. Zènt ignorànta, che la pretènt de viazàr per el mondo senza nancia savér da che banda che leva ‘l sol, per po' nar enle rògne e dar fastìdi ancia ai àutri.” Dopo che l’à dit e pensà ste ròbe, l’òst l’à sbassà la lum, e ‘l sé né nà, l’è nà fòr da la ciàmera e l’à serà la porta con la clào. Su le s-ciale l’à clamà la só spósa e ‘l g’à dit de dìrge a la serva che la ge tèndia ai pòpi, e che la vàgia zó ela ‘n cosìna al só posto. “Cògni nar a ciàusa de ‘n furèst che l’è ciapità cì nó se sa come, per scarògna,” e ‘l g’à contà tuta la storia fastidiosa. Po' ‘l g’à dit come avertiment: “Stai atènta a tut, e spezialment varda de èsser prudènta, ente na zornàda maledéta come chesta. Zó ‘n l’ostarìa gen en ròz de linzére che, ‘ntrà ‘l béver e le bulàde, i ne ‘n dis de tuti i colori. Comunque, se calche ardito…” “Oh! nó son mìgia na pòpa, sai ben ancia mì chel che ge vòl far. Enfìn adès me par che nó se pòdia dìrlo…” “Bòn bòn va ben; e varda che i pàgia; e tute che zàcole che i fa sul vicari del panàdec’ e ‘l govenator e ’l Ferrer e i consiliéri e i cavaliéri e Spagna e Franza e àutre batoclade, fai a finta de nó sentìr; perché se i contradìges, la pòl méterse mal sùbit; e se ge das reson, la pòl nar mal enten doman: e sàs ancia tì che, a bòte, chei che parla enten modo pù sfazzà… Ensoma, cando che sèntes zèrte ròbe, zìrete da l’àutra e dì: “Arìvi!, come se calchedun t’avés clamà da n’àutra banda. Varderài de nir de vòuta pù prést che l’è possìbol.” Dit enzì, i è nadi zó ‘nsèma ‘n cosìna, l’à dat n’oclada ‘n ziro, per véder se gera calche vergot de importante; l’à tòt zó dal tacapàni ‘l ciapèl, e la mantèla, la tòt en bastón da ‘n cianton, po' oclàndo la spósa ‘l g’à ripetù le istruzion che ‘l geva zà dat e l’è partì. Ma, zà ‘ntel far ste ròbe, ‘l se ripeteva chel ragionament che l’eva ‘mplantà ìo cando che l’era vizìn al lèt del pòer Renzo e ‘l seghitava a sgrandìrlo ‘ntant che ‘l ciaminava per la strada. — Testàrt de ‘n contadìn! — Che, per tant che ‘l Renzo l’avés volèst tègnerlo scònt, sta calità i la feva véder sol a vardàrlo, ente le parole, entela pronunzia, entel vestìr e ‘ntel far. — Ente na zornada come chesta con tanta prudenza èri sta bòn de cavàrmela senza rògne; e pròpri a la fìn géves da arivar tì a rovinàrme su tut. Come se a Milan manciàs le ostarìe, géves pròpri da ciapitàr enla mia! E se almen fùstus arivà tì sol. Averòssi podèst seràr n’òcel per stasera e magiari doman t’averòssi fat ciapìr la situazion. Ma no naturalment! Sés arivà en compagnìa e per de pù con en poliziòt, tanto per complicar ancor de pù le ròbe! A ogni pas, l’òst l’ancrosava zènt che ciaminava da só pòsta, o ‘n doi, o ‘n grupo, tute le parlava sota ós. Pròpri cando che l’era dré a far i só pensieri, l’à vist arivar na patùlia de soldadi. El s’è tirà da na banda per lagiàrli passar, i l’à vardàdi con la cóa de l’òcel e l’à tornà a pensar ‘ntrà de el: — Vàrdei ìo, chei che tègn la zènt a stròpa. E tì stùpido, sol perché às vist en pòc’ de zènt en ziro a far bacàn, às credèst che ‘l mondo ‘l fus dré a cambiar. E con sta bela idea te ses rovinà tì e voléves rovinarme ancia mì, che nó l’è pròpri zusta. Mì ài fat de tut per salvàrte, e tì testón, en cambi, scasi scasi mandàves en malóra la mé ostarìa. Ma adès cogneràstus cavàrtela da tó pòsta: mì penserài per mì. Come se mì avessite volèst savér el tó nòm per la mé curiosità! Che me ‘nteressa mì po', se te clàmes Taddeo o Bartolomeo? Nó l’è zèrto bel per mì méterme a scrìver! Ma nó seo migia sol voi che vòl far le ròbe a modo so. El sai ben ancia mì che le lezi nó i le rispèta: bela nòva che vèn a dirme ‘n contadìn! Ma tì nó sas che i pefèi contra i òsti enveze i se fa valér, eccome! E pretèndes de ziràr per el mondo e de parlar, ma nó sas che, se vòs far come che vòs tì, e fregàrten de le lézi, la prima regola l’è parlàrnen con tanta prudènza. E sas, stupidón, chel che suzét a ‘n pòer òst che la pensa come tì e nó ‘l domanda ‘l nòm a cì che vèn dént enla locanda? Eco chel che dis la léze: “Chiunque non rispetti quest’obbligo sarà punito con una multa di trecento scudi.” Zèrto, come se mì giavéssite treizènto scudi da petàr via! E come se nó ‘l fus assà, “ la somma sarà divisa in due parti: due terzi alla regia Camera e il restante a chi farà la denuncia...” ” che bèl prèmi! E se nó se pòl pagiàrlo, “ la pena sarà di cinque anni di galera, o un’altra punizione, pecuniaria o corporale, a discrezione di Sua Eccellenza ”. Grazie tante per tuta sta zenerosità! — A ste parole, l’òst l’era su la sòlia del palàz de zustìzia. Enchel pòsto, come ‘n tuti i ufìzi del goèrno, gera na grant azitazion. Dapertut se laurava per preparar le azion nezessàrie a mantègner l’ordine del dì dré, a fàrge passar la vòia a calunque che giavés abù l’intenzion de provocar àutri gazèri e a rinforzar chei che era abituadi a manezàr la fòrza publica. Se à aumentà el numer de soldadi metùdi a protézer la ciasa del vicari; le strade che arivava ìo tute blocade con travi e sbaramenti fati de ciari. È sta ordenà a tuti i panetéri de laorar de sèito per far tant pan, e mandà staféte entei paesi vizìni per far arivar scòrte de gran en zità. A ogni pistorìa g’è sta assegnà dei nobili che, zà da la doman bonora, i averòs tendù a l’assegnazion del pan e mantegnù la calma tra ‘l pòpol con la só aotorità e con parole tranquile. Però, per méter dausìn le segurtà con n’azion pù dezìsa e spaventar ancia la minima solevazion, s’à dezìso ancia de méter en preson arcanti de chei che eva partezipà al rafanas. Sta incombènza la ge spetava perlopù al capetano de zustìzia, che zèrto nó ‘l geva simpatìa per chei che era pù s-ciaudàdi, avèndo ‘ncor na bènda con aca medicada su la ferìda che ‘l geva su la testa, ségn del tumulto. Le só spìe le era stade mandàde ‘n ziro fin dal prinzìpi de la solevazion. E soratut chel tale che s’era presentà col nòm de Ambrogio Fusella che nó l’era àuter che ‘n poliziòt che ‘nzun cognosséva, mandà ‘ntorna propri per scoprìr calche testaciàuda, narge dré e méterlo ‘n preson el pù prest possìbol, magiàri de nòt o se no ‘l dì dré, cando che la situazion la se fus calmada. Dopo che l’eva scoutà pòce parole del Renzo, el poliziòt i l’eva pesà sùbit, l’era ‘l bersàlio perfèt: en malmadur che eva parlà massa, sichè bastava pòc’ a ‘ncolpàrlo. Peràuter, essèndose acòrt che ‘l Renzo l’era ‘n furèst e nó ‘l cognosséva ben la zità, l’eva provà a portàrlo sùbit en preson con en tranèl, fasèndo finta de aidàrlo. Però, era nà tut a mónt come che se à vist. Comunque l’era sta bòn a portàrse via la notìzia segura che ge ocoreva: el só nòm, el cognòm e da ‘ndo che nidéva ‘l Renzo, e per de pù tante àutre conclusion su de el. Enzì, cando che l’òst l’è arivà a riferìr chel che ‘l seva del Renzo, i ufiziài i seva zà tut. Nà dént ente la solita ciàmera per testimoniar, l’òst l’à contà come ‘n furèst el fus arivà ‘nla só locanda e ‘l se fus refudà de dir el só nòm. “Eo fat ben a far el vòs dovér e a avisar la zustìzia;” dis un de chei zùdizi, pozàndo sul scritòri la pena, “ma ‘l séven zà.” — Bel secrèt! — pensava l’òst: — nó ocor èsser sienziati! — “E sen nudi a savér ancia chel benedét nòm,” à dit ancor el zùdize. — Diàolo! Ancia ‘l nòm, come averài fat po'? — el pensava l’òst sto bòt. “Ma voi” dis ancor chel’àuter, con en mus serio, “voi nó diséo tut chel che seo, sclèt.” “Che voléo che ve dìgia po' de pù?” “Ah! ah! noi sen de segur che chelìo l’à portà ‘nla vòssa ostarìa ancia pan robà, e ròbà con la fòrza, per via de saco e de solevazion.” “Ariva un con na michéta ‘n s-ciarsèla; e me ‘mmazini ancia da ‘ndo che ‘l vègnia. Però, parlàndo come fùssite dré a morìr, pòdi dir de nó avèrge vist àuter che chel panét sol.” “Ma sì; sèmper a portàr fòra, voiàutri, sèmper difènder: se den fé a voiàutri, i è tuti brava zènt. Ma come féo po' a dir che chel panét i l’à comprà coi só soldi?” “Ma che ge n’ampòdite po' mì? Mì nó g’ài nè art né part: mì fón l’òst.” “Nó podéo però negiàr che ‘l vòs vantór nó l’àbia bù ‘l coràzo de proferìr parole ofensìve contra le lézi, e de far ati bruti e scandalosi contra ‘l stèma de só Ecelènza.” “Ma, per piazér, ‘l me sèntia, vossiorìa: come fal po' a èsser me vantór, se l’è ‘l prim bòt che ‘l vedi? Parlando con riguardo, cissà che diaul che l’è sta a fàrlo ciapitàr enla me locanda. E po', se ‘l cognossésite, vossiorìa la ciapirà ben che nó averòssi bù bisògn de domadàrge ‘l só nòm.” Però, ‘nla vòssa ostarìa, e sota i vòssi òcli, è sta pronunzià parole de fòc’: parole sfazzade, parlade da ribèli, reclami, vèrsi e zìgi. “Ma come fal po' a pretènder vossiorìa, che mì pòdia abadar ai spropòsiti che pòl dir tante testeciàude che parla tute ‘nsèma? Mì cògni tènderge ai me mistéri, perchè mì son en pover òm. E po', vossiorìa, seo ben che cì che g’à la lénga lòngia, de sòlit l’è ancia lèst a passar dal dit al fat, spezialment cando che l’è ‘n compagnìa, e… ” “Sì, sì; lagiàli far e dir: doman, doman, vederéo che ge passerà ben i ciaprìzzi. Che credéo po'?” “Mì nó credi ‘ngot no.” “Che ca zentàia la sia deventada la padrona de Milan?” “Oh zusto!” “Vederéo, vederéo.” “Ciapìssi benón: el re ‘l resterà sèmper el re; ma cì che à zapà le pache dopo ‘l se le tègn: e naturalment en pòer pare de famìlia nó ‘l pòl perméterse de zapàrle. Voi siori podéo far tut e tócia voiàutri farla fòr.” “Géo ancor tanta zènt enla locanda?” “Tut plén.” “E chel vantór che fal po'? sèghitel a sblagàrla, a stizzegiar la zènt, a preparar tumulti per doman?” “Chel furèst, la vorà dir vossiorìa, l’è nà ‘ntel lèt.” “Sichè géo tanta zènt… Basta; vardà de nó lagiàrlo s-ciampar.” — Giaveràite da far el sbìr mì? — el pensava l’òst; ma nó l’à dit né sì né no. “Tornà pur a vòssa ciasa; e vardà de avér prudènza, dis chel zùdize.” “Mì ài sèmper bù prudenza. Vossiorìa la pòl ben dir se mì ài mai dat da far a la zustìzia.” “E nó ste créder che la zustìzia l’abia perdù la só forza.” “Mì? per piazér! Mì nó credi ‘ngot no: mì vardi de far el me mistér.” “Sì, sì, la sòlita storia: nó geo mai àuter da dir.” “Che dìrve po' àuter? La verità l’è sol una.” “Bòn, bòn; per entant tegnìn cont de chel che eo deponèst; se sarà ‘l caso, informeréo pù bèn la zustìzia, su chel che i poderà domandàrve.” “Che g’àite da ‘nformar po' mì? mì nó sai engot no; g’ài zust la testa da vardàr i me afari.” “Vardà de nó lagiàrlo partìr.” “Speri che ‘l lustrìssim sior capetano i lo saverà che son nù sùbit a far el me dovér. Con tut el me rispèt vossiorìa.” Cando che levava ‘l sol, el Renzo ‘l ronzegiàva da almen sèt ore, e l’era ancor, porét! sul pù bel, cando che doi colpi séci ‘ntei brazzi e na osàzza da zó ‘n font al lèt che la ge zigiava “Lorenzo Tramaglino!” i l’à fat fòr da la sòn. El s’è ‘nzigerà, l’à tirà ‘ndré i brazzi e l’à daverzù i òcli a stènto; l’à vist su drìt en pè zó ‘n font al lèt, n’òm vestì de néger, e doi soldadi, un de cà e un de là del lèt. E, ntrà la maravéa, e ‘l nó èsser dal tut desdromenzà, e ‘l mal de testa per el vin che l’eva beù, l’è restà ìo per n’àtimo ‘nciantà; e credèndo de ‘nsoniàrse, e nó plasèndoge chel’ansògni, ‘l se storzéva, come per desdromenzàrse ben. “Ah! alor ve clamào Lorenzo Tramaglino?” à dit chel’òm da la mantèla négra, chel zùdize medésem de la sera prima. “Dai mò dai alora; levà su e nidé con noi.” “Lorenzo Tramaglino!” dis el Renzo Tramaglino: “Che vòl dir po' chesto? Che voléo po' da mì? Cì èl sta po' a dìrve ‘l me nòm?” “Pòce zàcole, e fé prést,” dis un de chei sbìri che era ìo de flànc’, zapàndoge el braz de nòu. “Ohe! Che èl po' sta angiarìa?” à urlà ‘l Renzo, tiràndose ‘ndré ‘l braz. “Òst! oh òst!” “G’énte da portàrlo via ‘n ciamìsa da nòt?” dis ancor chel sbìr, voutàndose vèrs el zùdize. “Eo ciapì?” dis chesto al Renzo: “Vardà che ve portàn via ‘n ciamìsa vèh, se nó levào su sùbit e nidéo con noi.” “E perché po'?” à domandà ‘l Renzo. “El perché i ve lo dirà ‘l sior capetano de zustìzia.” “Mì? Mì son da gialantòm: nó ài fat engot; e me fón maravéa…” “Mèio per voi, mèio per voi; con doi parole ve la saréo cavada, e poderéo nàrven per i vòssi afari.” “Lagiàme nar adès alor,” dis el Renzo: “mì nó g’ài a che far con la zustìzia.” “Bòn, bòn, dai, ruàla cì adès!” dis un de chei sbìri. “El portànte via ‘nzì dalbòn?” dis chel’àuter. “Lorenzo Tramaglino!” dis el zùdize. “Come féo po' a savér el me nòm, vossiorìa?” “Fé ‘l vòs dovér,” dis el zùdize a chei doi sbìri, e chesti i g’à metù sùbit le man adòs al Renzo, per tiràrlo fòr dal lèt. “Ehi, ehi! Nó sté tociàrme vèh no, che mì son da gialantòm, e che…! Son bòn de vestìrme da me pòsta.” “Alor vestìve sùbit,” dis el zùdize. “Me vestìssi,” à respondù ‘l Renzo; e l’à scomenzià a raspàr su i só dràpi sparpaiàdi sul lèt come fus sta chel che restava de ‘n faliment. Entant che ‘l scomenziava a métersei el diséva: “Ma mì nó vòi nar dal capetano de zustìzia. Nó g’ài da che far mì con sto cì. Vist che mé féo sto dispèt che nó mé mèriti, vòi che me portàgeo dal Ferrer. El el cognossi e sai che l’è n’òm onèst e che l’è ‘n dèbit con mì.” “Sì, sì, putèl, vé porterén dal Ferrer,” - à respondù ‘l notaio. Ente n’àutra situazion, l’averòs grignà, ma pròpri de gusto, de na richiesta ‘nzì; ma nó l’era ‘l moment de grignar. Zà ‘ntel nìr l’eva vist per le strade ‘n zèrto moviment, che nó se podéva dir se l’era chel che restava de la solevazion ancor da smorzàr zó dal tut, o se ‘n scomenziava via n’àutra: g’era zènt che nidéva fòr da tute le man, sclapi che se giatava ‘nsèma a zacolàr. El notaio, pur senza dar ente l’òcel ‘l feva tanto de récle per scoutàr chel che i diseva, e ge ‘mpareva che ‘l regolèri ‘l fus dré a aumentar. Per chesto ‘l voleva spessegiar, ma ‘ntel stes tèmp el preferìva portàr via ‘l Renzo senza bègie, perché, se la situazion la fus nada per el pézi, na bòta nudi fòr per la strada nó l’era segur de portàrsela fòr con dré sol tréi òumni contra na fóla. E alor el ge feva oclade ai sbìri perche i stes calmi e che nó i fés enrabiar ancor de pù ‘l putèl, entant el vardava de convìnzerlo a nàrge drè con parole dólze. Con tut chesto ‘l Renzo, intant che ‘l se vestìva con calma, el provava a ricordàrse chel che era suzèst el dì prima. El seva ‘ntaià che ‘l problema el geva da èsser ligià al só nòm e a le lézi, ma come diàulo fével po' chel notaio a savér el só nòm. E che era suzèst po' ca nòt, che la zustìzia la s’è presentada per tòrlo con tanta segurezza? El dì prima el e àutri putèi i era ‘n piazza a reclamar e nó l’era possìbol che adès i fus stadi tuti ‘ndormenzadi, ancia perché el stes el sentiva ‘l gazèr che cresséva per le strade. Osservàndo ‘l mus del notaio, el Renzo l’à podèst véder benón che l’òm l’era ‘ntel dubi e nó l’era bòn de scònderlo. Alor, sia per véder se chel che ‘l pensava l’era zust, ma ancia per pèrder pù tèmp e provar a voutàr la situazion a só favor, el dis: “Ài ciapì che la ciàusa de tut chesto l’è ‘l me nòm e cognòm. Ieri sera, l’è vera, èri ‘n pòc’ aléger: sti òsti a bòte i g’à zèrti vinèi che tradìs… e po' se sa ben che cando che ‘l vin l’às mandà zó, dopo l’è chel che parla. Ma se l’è tut cì sono pronto a dar tute le spiegiazion che ‘l vòl. Tanto, ormai el me nòm el séo zà. Ma cì diàolo ve l’à dit po'?” “Brào, brào, putèl!” à respondù ‘l notaio, tut manierós: “vedi che ‘n ge néo dénter; e, credéme a mì che son del mistér, voi séo pù furbo de tanti àutri. L’è ‘l modo miór per nìrnen fòra prést e ben: con sto bòn caràter, con doi parole sèo a pòsto e i ve làgia lìbero. Ma mì, vedé putèl, g’ài le man ligiade, nó pòdi lagiàrve nar adès cì, come che voròssi. Dai valà, fé prést e nidè senza aver paura; cando che i vederà cì che séo, e po' mì dirài… Lagiàme far a mì… Bòn; fé prést dai.” El Renzo ‘l g’à respondù: “Ah! Ài ciapì, voi nó podéo dìrmel.” E po' la seghità a vestìrse con calma e ogni tant el paràva via a zèsti i sbìri che i ge metéva le man adòs perchè ‘l fés prést. “Passànte da la piaza del dòm?” el g’à domandà po' al notaio. “Da chela che voléo; da la pù curta, che ‘nzì podéo èsser lìbero pù ‘mprèssa,” el dis el notaio che ‘ntant ge brigolava ‘l figià per cognér lagiàr pèrder la domanda, ‘n pòc’ stramba, del Renzo, domanda che l’averòs podèst deventàr el punto de partenza per àutre zènto ‘ntorogatòri pù permenùdi. — Cando che un el nas disgrazià!” — el pensava. — “Vàrda cì, g’è un che no ‘l vét l’ora de parlar; basteròs sol en pòc’ de calma e con na bela zacolada da amìzi, se ge faròs confessàr tut senza bisògn de tante torture. El porteròssi ‘n preson zà bel e che ‘nterogà, senza nancia che ‘l se nascòrzia! E ‘nveze pròpri ‘n tipo ‘nzì ‘l me deve ciapitàr enten momént enzì complicà.” E ‘l seghitava a pensàrge su tegnèndo le récle davèrte e petàndo la testa ‘ndré: “Nó g’è ‘ngot da far, la zornàda la ris-za de èsser ancia pézi de chela da ieri.” Chel che g’eva fat nìr sto pensiér l’era sta ‘n gran colp che nó ‘l se spetava e che nidéva da la strada. Nó l’è sta bòn de resìster a la curiosità e l’à daverzù i scuri per dar n’oclada. L’à vist en grupo de zitadini che, dopo che i eva zapà l’ordine de sfantàrse fat da na patùlia de soldadi, prima i eva respondù a male parole, e a la fìn i se separava brontolànt. Chel che al notaio g’è parèst el ségn pù brut l’è sta che i soldadi i se féva véder pù educadi del sòlit. L’à serà i scuri e l’è restà per n’àtimo entel dubi: gével da nar avanti e portar en preson el Renzo o lagiàrlo ‘n man de chei doi sbìri e córer dal capetano de zustìzia per avisarlo de la situazion. Ma sùbit l’à pensà: “Se ‘l fon, i me dirà che son un bòn da ‘ngot, en spavènt, e i me dirà che averòssi dovèst obedìr ai órdeni. Ormai sen sul bal e ge vòl balar.” E tut trìst, l’à pensà a la fìn: “Maledéta la prèssa! Maledét sto mistér!” El Renzo l’era levà; con chei doi zendàrmi ai flànci. El notaio la fat ségn a chesti de nó sforzàr massa, e po' ‘l g’à dit al Renzo: “da brào, pòpo; dehi movéve.” Ancia ‘l Renzo ‘l sentìva, ‘l vedéva e ‘l pensava. Ormai l’era vestì dal tut, men che ‘l giabàn che ‘l tegnìva con na man, e fuziàndo con l’àutra enle s-ciarsèle. “Ohe!” ‘l dis, vardàndo ‘l notaio, con en vis che voleva dir tut: “cì g’era soldi e na lìtera. Caro sior!” “I ve lo darà tut enfìn ente ‘n soldo,” dis el notaio, “apena che en finì con ste pòce ciàrte. Dai che nén, nén.” “No, no, no,” dis el Renzo, scorlando la testa: “chesta nó la me va: mì vòi la me ròba, caro sior. Farai i conti con le me azion; ma mì vòi la me ròba.” “Vòi fàrve véder che me fìdi de voi: tegnì cì, e fé prést,” dis el notaio, tiràndo fòr da la sbòza e consegnàndoge, con en sospìr, al Renzo chel che i eva sequestrà. E ‘l Renzo metèndosele via la só pòsto, ‘l mormorava ‘ntrà i dènti: “stéme lontani! usadi coi ladri, eo emparà ‘l mistér.” I sbìri nó i ge n’ampodeva pù, però ‘l notaio a forza de oclade i li tegnìva frenadi, e ‘ntan el pensava ‘ntrà de el: — se arìves a méter pè dénter ca sòlia, g’às da pagiàrla con l’interès, ma ciàra vèh. — Entant che ‘l Renzo ‘l se metéva ‘l giabàn e ‘l se togéva ‘l ciapèl, el notaio l’à fat ségn a un de chei zendàrmi, che ‘l se ‘nviàs zó per le s-ciale; dré ‘l g’à mandà ‘l presonér, e po' dopo l’àuter sòzi; po' ‘l s’è movèst ancia el. En cosìna che i è stadi, entant che ‘l Renzo ‘l diséva: “e sto òst benedét, ‘ndo s’èl scondù po'?” el notaio ‘l g’à fat fat n’àuter ségn ai sbìri; chesti i l’à zapà una da na banda e l’àuter da l’àutra e ‘n prèssa ‘n prèssa i g’à ligià i polsi con zèrte arzàre che i clama “manichini”, en nòm belìn però per vergot de ben pù doloros. Sti argàgni i era fati con na cordesèla lòngia pòc’ pù del ziro de ‘n póls normale, con doi legnòti dale bande, come doi stangéte. La cordesèla i la plegiava ‘ntorna ai polsi del presonér, e i legnòti passadi tra i dédi del sbìr i restava seràdi dént entel só pugn; ente sto modo, ziràndoi, el zendàrmo ‘l podéva strénzer el stràngol come che ‘l voléva, per blocar el presonér, ma ancia per fàrge mal, tant mal se fus sta nezessari. E per far tut ancor pù utile, la corda l’era tuta fata a gropi, che i aumentava ‘l tormént se ‘l presonér nó ‘l feva chel che ocoréva. El Renzo ‘l speadava zigiàndo: “Ma che ingiàn èl po' chesto? A ‘n gialantòm…!” Ma ‘l notaio che l’era usà a aver pronta la scusa per ogni situazion bruta, el vardava de calmarlo e ‘l diseva: “Portà pasiènza, i fa sol el só dovér. Che voléo fàrge po'? L’è tut ròbe che cognen far per forza; ancia noi nó podén tratar la zènt come che voròssen. Se nó ubidìssente ai órdeni che ancia noi en zapà, saròssen el le rogne ancor de pù de voi. Sichè vardà de avér pasiènza.” Entant che ‘l parlava, i doi zendàrmi che i geva da far el só dovér, i g’à dat na ziràda ai legnòti. El Renzo ‘l s’è calmà, come ‘n ciavàl col morbìn che ‘l sènt strénzerse ‘l mòrs, e l’à sclamà: “passiènza!” “Brào putèl!” dis el notaio: “chesto l’è ‘l modo pù zust per nìrnen fòr ben. Che voléo po'? l’è na seciàda, el védi ben ancia mì; ma se ve comportào ben, enten momento ve ‘n seo liberà. E zà che vedi che séo ben propènso, e mì me sènti de aidàrve chel che pòdi, vòi dàrve ancia n’àuter consìli per el vòs ben. Credéme a mì che son aspèrto de ste ròbe: né via drìt drìt, senza vardàr encà e ‘nlà senza dar en l’òcel: enzì ‘nzun el se nascòrz de voi, enzun sa chel che g’è; e voi resteréo col vòs onór. Da cì a n‘ora voi seo lìbero: ge tant de chel da far, che i g’averà prèssa ancia lori de ruàrla su: e po' parlerài mì… Ve ‘n naréo per i vòssi afari; e ‘nzun saverà che séo sta enle man de la zustìzia. E voiàutri,” voutàndose vèrs i sbìri, con en mus serio: “vardà de nó fàrge mal, perché chesto ‘l protézi mì: el vòs dovér geo da fàrlo, ma ricordàve che l’è ’n gialantòm, en brào putèl, che da cì a pèz el sarà lìbero; e che ‘l cògn tègner da man el só onór. Ciaminà enten modo che ‘nzun se n’anvédia de ‘ngot: come fùsseo trei gialantòmni che va a spas.” E po', con en tòno de comàndo, auzzàndo le zìlie el dis: “Né sén ciapìdi.” Po' voutàndose vèrs el Renzo, con en vis men sèrio, anzi sgrignolènt, che ‘mpareva che ‘l volés dir: oh noi sì che sén amìzi!, el g’à dit sotaós de nòu: “vé racomandi fé zudìzi, fé come che ve dìgi mì: né avanti drìt e calmo; fidàve de cì che vé vòl ben: déhi che nén.” E ‘l ròz el s’è ‘nvià. El Renzo nó l’à credèst a na parola sola de tante de bèle che ‘l sentiva; nó ‘l credéva de segur che chel notaio el ge volés pù ben a el che ai sbìri, e nancia che ‘l fus preocupà per la só reputazion, e men che men che ‘l volés aiutarlo. L’eva ciapì benón che chel’òm, sicome ‘l geva paura che per la strada podés presentàrse l’ocasion bòna per s-ciampar, el provava a desviàrlo con che parole per encriciàrge de star atènto cando che se fus presentà chel’ocasion. Enzì tute che bele parole nó le à fat àuter che convìnzerlo ancor de pù a comportàrse a la revèrsa de chel che i ge diseva de far. Nó ge vòl pensar che ‘l notaio ‘l fus n’ambrioión redicoióni, en prinzipiante, perché ‘l saròs n’erór. L’era pròpri ‘l contràri, l’era ‘n furbàzzo, come che dis chel che lo descrìo, che ‘mpar adiritura che ‘l sia sta ‘ntel sclàp dei só sòzi: ma ‘nchel moment ìo l’era pròpri azità e se ‘l fus sta sol en mìgol pù fino, l’averòs grignà fòra cì che avés provà a convìnzer n’àuter a far vergot che ge portàs dan per sé, dàndoge consìli con le bòne, da amìzi e senza interès. Ma l’è ‘n caràter che g’à tuta la zènt che, cando che i è azitadi e preocupadi e i vét chel che poròs far calchedun per aidàrli a nìrnen fòra, i se ‘mponta a domandàrge aiut con tute le scuse possìbili. Ancia i embroióni pù furbi, cando che i è sota pression, a la fìn, i cròda ént ente sta tràpola. E per chesto ente ste situazion i fa pò na fegura da pantalóni. Che bèle malìzie che con chéle i è usadi a star sora come l’òio, e che de sòlit i dòpra con en bòn èsit, e che per lori le è ancia deventade scasi na ròba naturale, le funziona se le è fate con calma e cràiz, tanto che le risulta fate ‘nzì ben che ‘nzun se nascòrz e le è prezzade da tuti. Cando che i embroióni ‘nveze i è a le strénte i fa le ròbe con l’azitazion e l’ansia, en prèssa senza pensàrge su, senza furbìzia, en modo tale che le pèrt el só scòpo e i deventa adiritura redìcoi. En modo che, un che li vedés enzignàrse e sforzàrse ‘nca maniera, i vèn a fàr pecià o adiritura i vèn grignadi fòra e perfìn ca persona che i pretènt de ‘mbroiar, pur essèndo men furba de lori, l’è bòna de ciapìr el só scopo e i lo dopra per so vantàzi. Per chesto, ‘l consìlio miór per cì che fa de la malìzia ‘l só mistér, l’è de mantègner sèmper la calma opur de èsser sèmper el pù fòrt, perché chesta l’è la strada pù segura. Apena che ‘l Renzo l’era per la strada, l’à scomenzià a vardàrse ‘ntorna de cà e de là, a slongiàr el còl da na banda e da l’àutra a star con le récle su drìte. Però de zènt nó ge n’era pù che tanta, e ancia se sul mus de calchedun se podéva véder en zèrto malumór e ancia azitazion, tuti i néva per la só strada senza dar en ségn de volér ribelàrse. El notaio el seghitava a mormoràr dré la s-cena del Renzo per tègnerlo calmo: “Sté atènto putèl, fé zudìzi! Pensà al vòs onór, a la vòssa reputazion.” Ma ‘l Renzo avèndo vist trei òumni che ge nideva ‘ncontra e che i ge ‘mpareva azitadi e che i parlava de na pistorìa, de farina scondùda e de zustìzia, l’à scomenzià a dar oclade e a tossìr ancia fòrt per mandàrge segnài a chesti, perché i lo vàrdàs e i vedés la so situazion. Chei trei nascorzèndose de chel grupét, i s’è fermadi, e con lori s’è fermà ancia àutri che passava da chela. Zèrti che era zà passà, sentù chel mormòrio che cresséva, i è tornadi ‘ndré per ciapìr ben chel che suzzedéva. El notaio, sèmper pù procupà, el sconzurava ‘l Renzo: “Sté atènto! Pézi per voi se ve metéo enle rògne. Nó sté a magnàrve ‘l crèdit!” però ‘l Renzo el feva ancor pèzo e ‘nzì aumentava ancia i curiosi. Alor i sbìri pensàndo de far ben (ma i se sbagliava), i g’à strucià ancor de pù i pólsi con chei legnòti per tégnerlo a rédena. “Ahi! ahi! ahi!” à zigià chel tormentà: a sentìr sto zìc’, la zènt la g’è nuda tuta ‘ntorna; e da ogni banda de la strada tanti d’àutri i corìva tuti ìo: sichè ‘l drapèl el s’è ‘mpegolà. “L’è ‘n brigante,” el diséva sota ós el notaio a chei che g’era ìo vizìn: “l’è ‘n làder brancà sul fato. Tiràve ‘ndré, i làgîa passar la zustìzia.” Ma ‘l Renzo, vist che la se metéva benón, e vist i zendàrmi deventar bianci come le pèzze, — l’à pensà, se nó me aiùti adès, me dan. — E sùbit l’à urlà fòrt: “putèi! i me porta ‘n preson, perché ieri ài zigià: pan e zustìzia. Nó ài fat engot; sono en gialantòm: aiutàme, nó ste a arbandonàrme, putèi!” S’è levà en risposta ‘n zacolò, tante ós de protezion e i sbìri su le prime i comandava, po' i domandava, po' i ‘mpregiava i pù vizìni a nàrsen e a tiràrse ‘ndré: ma la fóla ‘nveze la se féva sót e la spenzéva sèmper de pù. I zendàrmi vist la malparada i à molà i legnòti e i à vardà de confónderse trà chel regolèri per podér s-ciampar senza dar en l’òcel. El notaio nó ‘l voléva àuter che far compagn, però nó ‘l podéva per via de la só mantèla negra che tuti i cognosséva. Chel pover’òm, bròldo e sbalordì, el vardava de fàrse pìzzol pù che ‘l podéva, e ‘l se storzéva come na vèrza per s-ciampar fòr da la fóla; e nó ‘l podèva auzzàr i òcli perché ‘l se ‘n vedéva àutri vìnti adòs a el. El studiava tute le maniere per ensomiàrge a un nozènt, che passàndo ìo per caso ‘l se fus trovà strucià ‘nca moltitudine come na paiòla ‘ntela glàz; e po' vardàndose entei òcli con un che lo fissava, e che ‘l geva ‘l zéfo pézi dei àutri, pròpri el, sgrignotolànt, con en far da siòco, ‘l g’à domandà: - che g’è sta pò? “Grolàz!” el g’à respondù chelìo. “Grolàz! grolàz!” s’è sentù ìo ‘ntorn. Ai zìgi i g’à tacià spintóni, en modo che, enten pòc’ tèmp, en pòc’ con le só giambe, e ‘n pòc’ a sgombetade, l’è sta bòn de far chel che ge preméva de pù de tut enchel moment, portàrse fòra da chel rafanas.
“Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di là,” si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. — Perchè, — aveva pensato, — il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono. — E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle. — Perchè, se posso essere uccel di bosco, — aveva anche pensato, — non voglio diventare uccel di gabbia. — Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de’ suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su’ casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche altro di quel conio; e risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, nè il perchè la domandasse. Disse a’ suoi liberatori: “grazie tante, figliuoli: siate benedetti, ” e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sè era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sè, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò, e disse: “di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo?” “Per andare a Bergamo? Da porta orientale.” “Grazie tante; e per andare a porta orientale?” “Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi...” “Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito.” E diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata. L’altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse tra sè: — o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui. — Renzo arriva sulla piazza del duomo; l’attraversa, passa accanto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de’ cappuccini; dà un’occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice tra sè, sospirando: — m’aveva però dato un buon parere quel frate di ieri: che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po’ di bene. — Qui, essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po’ riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo d’asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato fortemente d’entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò: — uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte. — Si voltò, per vedere se mai venissero da quella parte: non vide nè quelli, nè altri che paressero occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio, fischiando in semitono, arriva alla porta. C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro. Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e strofinando or l’uno or l’altro polso, ancora un po’ indolenziti, e segnati in giro d’una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si rammentava bene d’averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell’esibizioni che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d’essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de’ galantuomini; e scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de’ suoi affari: che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull’avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria, eran tutti malinconici. Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sè non ne poteva uscire. Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece. “Siete fuor di strada,” gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale. Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. Questa, in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: chè la voce n’era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse incamminato. “Devo andare in molti luoghi,” rispose: “e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano... Come si chiama?” — Qualcheduno ce ne sarà, — pensava intanto tra sè. - Gorgonzola, volete dire, - rispose la vecchia. “Gorgonzola!” ripetè Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. “È molto lontano di qui?” riprese poi. “Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.” “E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!” “A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta.” E glielo nominò. “Va bene;” disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera. Già cammin facendo, aveva disegnato di far lì un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso. Il corpo avrebbe anche gradito un po’ di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo l’avrebbe lasciato cader rifinito sulla strada. Il suo proposito era d’informarsi all’osteria, della distanza dell’Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato. Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un’idea precisa; ma, allora come allora, l’affar più urgente era di passarlo, dovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria. Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. “Vi prego di far presto,” soggiunse: “perchè ho bisogno di rimettermi subito in istrada.” E questo lo disse, non solo perchè era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio... Alla larga! L’oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi. C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione, nè soggiogata nè vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa tronca, la fine d’un atto piuttosto che d’un dramma. Un di coloro si staccò dalla brigata, s’accostò al soprarrivato, e gli domandò se veniva da Milano. “Io?” disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere. “Voi, se la domanda è lecita.” Renzo, tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: - Milano, da quel che ho sentito dire... non dev’essere un luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità. “Continua dunque anche oggi il fracasso?” domandò, con più istanza, il curioso. “Bisognerebbe esser là, per saperlo,” disse Renzo. “Ma voi, non venite da Milano?” “Vengo da Liscate,” rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perchè c’era passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola. “Oh!” disse l’amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma pazienza. “E a Liscate,” soggiunse, “non si sapeva niente di Milano?” “Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa,” rispose il montanaro: “ma io non ho sentito dir nulla.” E queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l’oste venne a mettere in tavola. “Quanto c’è di qui all’Adda?” gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta. “All’Adda, per passare?” disse l’oste. “Cioè... sì... all’Adda.” “Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?” “Dove si sia... Domando così per curiosità.” “Eh, volevo dire, perchè quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sè.” “Va bene: e quanto c’è?” “Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.” “Sei miglia! non credevo tanto,” disse Renzo. “E già,” riprese poi, con un'aria d'indifferenza, portata fino all'affettazione: “e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?” “Ce n’è sicuro,” rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: “il vino è sincero?” “Come l’oro,” disse l’oste: “domandatene pure a tutta la gente del paese e del contorno, che se n’intende: e poi, lo sentirete,” E così dicendo, tornò verso la brigata. — Maledetti gli osti! — esclamò Renzo tra sè: — più ne conosco, peggio li trovo. — Non ostante, si mise a mangiare con grand’appetito, stando, nello stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand’avvenimento nel quale egli aveva avuta non piccola parte, e d’osservare specialmente se, tra que’ parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di domandar la strada, senza timore d’esser messo alle strette, e forzato a ciarlare de’ fatti suoi. “Ma!” diceva uno: “questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.” “Mi pento di non esser andato a Milano stamattina,” diceva un altro. “Se vai domani, vengo anch’io,” disse un terzo; poi un altro, poi un altro. “Quel che vorrei sapere,” riprese il primo, “è se que’ signori di Milano penseranno anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri, come se non ci fossero.” “La bocca l’abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione,” disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata: “e quando la cosa sia incamminata...” Ma credette meglio di non finir la frase. “Del grano nascosto, non ce n’è solamente in Milano,” cominciava un altro, con un’aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti all’uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo, per i suoi traffichi, era solito passar la notte in quell’osteria; e siccome ci trovava quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s’affollano intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. “Ben arrivato, ben arrivato!” “Ben trovati.” “Avete fatto buon viaggio?” “Bonissimo; e voi altri, come state?” “Bene, bene. Che nuove ci portate di Milano?” “Ah! ecco quelli delle novità,” disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo in mano d’un garzone. “E poi, e poi,” continuò, entrando con la compagnia, “a quest’ora le saprete forse meglio di me.” “Non sappiamo nulla, davvero,” disse più d’uno, mettendosi la mano al petto. “Possibile?” disse il mercante. “Dunque ne sentirete delle belle... o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone, subito; perchè voglio andare a letto presto, per partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l’ora del desinare. “E voi altri,” continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava Renzo, zitto e attento, “voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?” “Di ieri sì.” “Vedete dunque,” riprese il mercante, “se le sapete le novità. Lo dicevo io che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano...” “Ma oggi, com’è andata oggi?” “Ah oggi. Non sapete niente d’oggi?” “Niente affatto: non è passato nessuno.”
“S-ciampa, s-ciampa, putèl: vàrda ìo, g’è ‘n convènt, ìo g’è na glésia; da chesta, da chela,” i ge zigiava al Renzo da tute le bande. Cant al s-ciampar emmazinàve voi se ‘l geva bisògn de consìli. Enfìn da prinzìpi, da cando che l’eva ciapì che ‘l podéva liberàrse da che sgrìnfe, l’eva zà prozetà la so fùgia e se la ge fus nada ben nó ‘l se saròs fermà enfìn che nó ‘l fus sta, no sol fòr da la zità, ma ancia da la contea. — Perchè, — ‘l geva pensà — ‘l me nòm i lo g’à sui só librazi, en calunque modo i l’aves abù; e col nòm e ‘l cognòm i pòl nir a tòrme cando che i vòl. — E cant a nar ente na glésia o ‘nten convènt el saròs nà sol se l’avés abù i zendàrmi dré la s-cena. — Perchè, se pòdi èsser auzzèl de bos-c’, — l’eva ancia pensà, — non vòi deventar auzzèl de giàbia. — Sichè l’eva prozetà, per èsser al segur, de nar enchel paés del teritòri de Bergamo endo che s’era ‘nciasà chel só cusìn, el Bortol, se ve recordào, che pù de ‘n bòt i l’eva ‘nvidà a nar ìo. Però ‘l problèma l’era trovar la strada. Lagià ìo ente ‘nposto che nó ‘l cognosséva de na zità che, se pòl dìrlo, nó ‘l cognosséva ancor de men, el Renzo nó ‘l seva nancia da che porta nàrsen per arivar a Bergamo; e ancia cando che i l’avés savèst nó ‘l saròs sta bòn de arivar a ca porta. L’è sta ìo ìo per fàrse ‘nsegnar la strada da calchedun de chei che l’eva liberà, ma sicome ‘ntel pòc’ tèmp che l’eva bù per pensàrge su ai só casi, g’era passà per la testa zèrte idee su chel ferar enzì manierós con càter fiòi da mantègner che ‘l s’era fat véder enzì educà con el, e per nó savér né lézer né scrìver, l’à pensà de nó fidarse de ‘nzun de ca marmàia, endo che podeva èsserge dént calchedun àuter de ca risma ìo; e l’à dezìso alor de slontanàrse pù prést che ‘n prèssa da ìo e de domandàr informazión enten pòsto ‘ndo che ‘nzun podéva savér cì che l’era e ‘l perché ‘l fes ca domanda. L’à ringrazià tuti chei che l’eva aiutà: “grazie tante, putèi: che ‘l Sioredio ‘l ve benedìssia” e, per la strada che geva fat sùbit la fóla, ‘l s’è metù a córer senza savér endo che ‘l neva, ént per vìcoi e stradèle enfìn che g’è parèst de èsser lontan assà. Alor l’è nà pù plan per nó far véder che ‘l s-ciampava e l’à scomenzià a oservar con atenzion le persone che ‘l geva ‘ntorn, en zércia de calchedun che a vardàrlo ‘l dés crèdit e se podés fidàrse per domandàrge informazion. Però ancia chesto l’è deventà ‘n problèma. La só domanda la podéva ‘nsospetìr calunque, e tèmp ge n’era pòc’. I sbìri, embòt che i se fus liberadi da chel rafanàs, i saròs tornadi sùbit a destanàrlo e po' ancia perché la ós de la só fùgia la podéva zà èsser arivada ancia ìo. Per chesto l’à cognèst consideràr ben almen dés persone prima de dizìderse a cì che domandàr. L’à s-ciartà en tripòta, che l’era postà su la sòlia de la só botégia con le giambe làrge, le man dré la s-cena, la só panza ‘n fòra, col barbizòl per aria da ‘ndo che ge crodàva zó gran bàrboi e che se dindolava sui pèi, però l’ampareva pù ‘nteresà a scuriosar che a risponder. L’à s-civà ancia n’òm che ‘mpareva pèrs, coi òcli fissi e ‘l làver en fòra, ma nancia a chesto nó se podéva domandàrge la strada perche forse ‘l seva malament la soa. L’eva vist ancia ‘n gaburo che a dir la verità ge ‘mparéva che ‘l fus desdromenzà, ma ‘l geva paura che nó ‘l fus massa malizios e che ‘l podés gòderse a mandàr en pòr contadìn da la banda sbagliada. L’è pròpri vera che a chel’òm engiartià, scasi tute le ròbe le deventa n’àutra rògna! A la fìn, l’à vist n’òm che ciaminava ‘n prèssa avèndo calche afare importante: l’à pensà: “Se chesto ‘l g’à prèssa ‘l me risponderà senza far tante domande,” en pù sentèndol parlar da só pòsta, geva ‘mparèst che ‘l fus na persona sinzéra. Senza pèrder tèmp el ge nà vizìn e ‘l g’à domandà: “El me scusia sior, da che banda se va po' per nar a Bergamo?” “Per nar a Bergamo? Da la porta a matina.” “Grazie tante; e per nar a la porta a matìna?” “Togé sta strada cì, a man zància; ariveréo en piaza del dòm; e po'…” “Bòn, bòn, sior; el rèst el sai. Dio vel mèritia.” E ‘l s’è ‘nvià da ca banda che i geva dit. L’àuter el g’à vardà dré ‘n moment, e, metèndo ‘nsèma entel so pensiér chel modo de ciaminàr con ca domanda, l’à pensà: — o l’à combinà vergot, o calchedun el vòl combinàrgela a el. — El Renzo l’è arivà su la piaza del dòm; i l’à traversada, l’è passà arènt a ‘n mùcel de zénder e de stizóni smorzàdi, e l’à vist chel che restava de chel falò che l’eva oservà ‘l dì prima; l’à costezà i s-cialìni del dòm, e l’à vist de nòu la pistorìa de le fèrle, mèz destrùt, coi soldadi che féva la guardia; po' l’è nà drìt per la strada da ‘ndo che l’era nù ensèma a la fóla; l’è arivà al convènt dei ciapuzini e l’à dat n’oclada a ca piazza e a la porta de la glésia, e pensàndo ‘ntrà de el: — el m’eva dat en bòn consìli chel frate ieri: che stéssite ‘n glésia a spetar, e a far en pòc’ de ben. — El Renzo ‘l s’è fermà n’àtimo a oservar con atenzion la porta da ‘ndo che ‘l geva da passar e vedèndo da lontan tanta zènt che era ìo a far la guardia, e la fantasia ancor scotada da chel che l’eva passà (e se podéva compatìrlo, avèndo i só bòni motìvi), l’à ge feva nir en zèrto pipacul a pensàr che ‘l geva da passar da chela. Pròpri ìo vizìn g’era ‘n pòsto segur, endo che l’averòs trovà na spòna grazie a ca lìtera che ‘l geva dré, en posto ‘ndo che i g’averòs fat en bel azzèt. Per n’àtimo l’abù la tentazion de ‘ntanàrse ìo dénter. Però, g’è tornà sùbit el coràzo e ‘l s’à dit: — auzzèl de bos-c’, enfìn che se pòl. Cì vòs che me cognóssia pò? Nó l’è possìbol che i sbìri i se sia fati in tòci, per nar a spetarme a tute le porte de la zità. — El s’è voutà a controlar se calchedun nó ge nes dré, ma nó l’à vist né le guardie, né àutre persone che le podés enteressàrse de el. E alor l’à nà avanti, e ‘l vardava de nar pù plan per nó dar sospèti—ancia se le só giàmbe le averòs volèst córer, plan plan, sigolànt l’è arivà a la porta. Pròpri ‘ndo che se passava per mèz a la porta, g’era ìo ‘n grupo de daziéri, e, per segurezza ancia arcanti micheleti spagnòi, che però i steva atènti sol a chei che nidéva, per nó lagiàr nìr ént chei che, a sentìr che g’era na rivolta, i se binàva come gròi entei ciampi ‘ndo che g’è sta na batàlia, de modo che ‘l Renzo, fasèndo finta de ‘ngot, coi òcli bassi, ciaminàndo né plan né ‘mprèssa come fa ‘n viandànt o un che va a spas, l’è nà fòr senza che ‘nzun ge disés engot; però ‘l còr el féva ‘n gran bàter. Apena fòr l’à vist na stradèla a man drìta e l’à tòt sùbit chela, perché ‘l preferìva star lontan da la strada prinzipale; e l’à ciaminà per en bèl pèz prima de voutàrse ‘ndrè. E ciamìna, ciamìna, travèrsa masi, travèrsa paési, el tiràva avanti senza nancia domandar el nòm, l’era segur de slontanàrse da Milan e ‘l sperava de nar vèrs Bergamo, e per entant ge bastava chesto. Ogni cal trato ‘l se voutàva ‘ndré e ogni tant el se vardàva e ‘l se fregiava ‘n bòt un e ‘n bòt l’àuter póls, ancor ‘n pòc’ endolenzìdi e segnadi da na vétola rossa per via de ca cordesèla. I só pensieri i era, come tuti i pòl ben emmazinàrse, en mismàs de pentimenti, de preocupazion, de ràbie, de destràni; el seghitava a pensar, senza méter ensèma tut, chel che l’eva dit e fat la sera inanzi, el provava a ciapìr come che i eva fat a savér el só nòm e chel che g’era ancor, enca storia dolorosa, che nó ‘l seva. I só sospèti i era tuti per chel ferar che ‘l se ricordava de avérge dit, da dugo, el só nòm. Pensàndoge su ben sul modo che chel’òm i l’eva portà a parlar e su le só domande fate per savér, el dubi ‘l s’è trasformà ‘nte na convinzion. Però ‘l se ricordava ‘npressapòc’ de aver seghità a baderlar ancia dopo che chel ferar l’era partì, senza ricordàrse con cì e de che argoment e pù che ‘l pensava pù la memòria i lo ‘ngianava; nó ‘l seva àuter che ‘n che ore l’era s-ciampada. El pòer putèl el se perdeva a ciapìrgen dént vergot, l’era come n’òm che à metù la firma su tanti sfòi bianci, e i ge l’avés afidadi a un che ‘l credéva èsser el fior dei gialantòmni, e che ‘nveze l’era ‘n grant embroión, e nó savér pù nancia ‘l só dan. N’àuter cialciaròt l’era chel de ‘mmazinar chel che g’aves podés plàser per el só doman: e le situazion che podéva suzzéder le era putòst triste, e po' restava chele melancoliche. Ma scasi sùbit, el pensier pù brut l’era chel de trovar la strada. Dopo che l’eva ciaminà per en bèl tòc’, se pòl dir, senza savér ben endo che ‘l neva, l’à vist che el da só pòsta nó l’era bòn de cavàrsela. E èstra ‘l geva na gran paura de pronunziar ca parola Bergamo, come se ‘l fus en nòm che ‘l podés far nìr calche sospèt; però nó se podéva far àuter. L’à dezìso alor de domandàr, come che l’eva fat a Milan, al prìm che passava che, a vardàrlo, ge ‘mparès un da gialantòm, e ‘nzì l’à fat. “Séo fòr de strada,” g’à rispondù chesto; e, dopo avérge pensà su n’àtimo, en pòc’ a parole e ‘n pòc’ a zèsti, ‘l g’à spiegià ‘l ziro che ‘l cognéva far per tornar su la strada zusta. El Renzo i l’à ringrazià, e l’à fat véder de far come che i geva dit, e difati l’è nà da ca banda ìo, però sol per svizinàrse a ca benedeta strada maestra, per tègnerla d’òcel, costezàrla pù che ‘l fus possìbol, ma senza méterge pè. Però sto propòsit l’era pù fàzile pensàrlo che fàrlo. En conclusion, dopo che l’eva ciaminà en pòc’ a caso, a bissabòa, e, come che se dis, a zigzàc’, dàndo rèta a àutre informazion che, fasèndose coràzo, ‘l domandava cà e là, en pòc’ fasèndo de só testa, en pòc’ fidàndose de strade che ‘l se trovava a far, el Renzo l’eva fat forse dódes chilometri, ma da Milan l’era lontan apena sei; e cant a Bergamo, l’era zà assà che nó ’l se fus adiritura slontanà. L’à scomenzià a convìnzerse che, ancia ‘nchel modo, nó nidéva fòr engot e l’à pensà de trovar fòr calche àutra idea. Chel che g’è nù ‘n ment, l’è sta de trovar, con en pòc’ de malìzia, el nòm de calche paés vizìn al confìn, e arivàr po' a chesto per strade che nó le fus comunali. Fasèndo ‘nzì l’averòs podèst domandàr informazion su chel paés senza cognér pronunziar ca parola Bergamo, che ge ‘mpareva che la podés far sospetar, che la podés spuzzar de fùgia, de diserzion, de bandìto che s-ciampa. Entant che ‘l zerciava en modo per aver tute le informazion che ‘l doprava, senza che ‘nzun se ‘nsospetìs, el Renzo l’à vist l’inségna, fata a fras-cia, taciàda sul mur de fòr de na ciasòta fòr de man, pòc’ lontana da ‘n paesòt. Sentèndose sèmper pù strac’ e ancia ‘n pòc’ famà, l’à pensà che chel’ìo fuse l pòsto pù zust per contentar tute doi le nezessità: magnar en bocón e sentìr calche nòva. L’è nà dént e l’à trovà sol na vècla intènta a filar con la ròcia sul flànc’ e ‘l fus en man. L’à domandà vergot da magnar e la vècla l’à g’à esebì ‘n pòc’ de strachìn e vin bòn. El Renzo l’à azetà ‘l formài, ma l’à refudà ‘l vin (dopo ‘l schèrz che ‘l geva fat la sera inanzi ‘l ge feva schìfo); el s’è sentà zó e l’à domandà a ca feumna de far prést. Chesta enten’àtimo l’eva metù ‘n tàula; sùbit dopo l’à scomenzià a tompestàr el só avantór de domande: su cì che l’era, su chel che era suzèst a Milan, che la ós l’era arivàda ancia ìo. El Renzo, con na gran braùra l’è sta bòn de schivàr le domande e anzi, l’à profità la curiosità de ca feumna per portar la parlada a só vantàzi, fasèndoge far a ela la domanda de ‘ndo che ‘l fus dirèt. “Cògni nar da tante bande,” à respondù ‘l Renzo: “e, se g’ài en pòc’ de tèmp, voròssi far na s-ciampàda ancia entechel paés, putòst gròs, che g’è su la strada per nar a Bergamo, vizìn al confìn, che però l’è ‘ncor Milan… che se clàmel po'?” — Calche paes el ge sarà ben, — el pensava ‘ntant entrà de el. - Voléo dir Gorgonzòla, - à respondù la vecléta. “Gorgonzola!” à ripetù ‘l Renzo, ancia per ficiàrse ‘nla zùcia mèio ca parola. E po' ‘l dis: “Èl tant lontàn da cacì?” “Nó saveròssi de prezìso: i sarà dés, o dódes chilometri. Se ge fus cì un dei mé fiòi, i ve lo diròs zust.” “Séo dìrme se se pòl arivar per ste bele stradèle senza tòr el stradón prinzipale? Perché g’è ‘n polverón, ma ‘n polverón! L’è tant de chel tèmp che nó ‘l plòu!” “A mì me par de sì: podéo domandar entel prìm paés che giatào a nar a man drìta.” E ‘l ge l’à nominà. “Va bèn,” dis el Renzo; l’è levà su, l’à tòt en tòc’ de pan che g’era vanzà da la colazion putòst s-ciàrsa, en pan diferènt da chel che l’eva trovà, ‘l dì prìma, ai pèi de la crós de san Dionìzi; l’à pagià ‘l cont, e l’è partì zapàndo la strada a man drìta. E, per nó fàrvela pù lòngia de chel che ocór, col nòm Gorgonzòla ‘n bócia, de paés en paés, l’è arivà, zirconzìrca n’ora prima che nés zó ‘l sol. Zà ‘ntànt che ‘l ciaminava l’eva dezìso de far na poussàda per far en pàst pù bondànte. Ancia se ‘l còrp l’averòs bù bisògn de ‘n pòc’ de lèt, el Renzo l’era dizìso a nó fermàrse per dormìr e po' l’averòs preferì crodàr en tèra ‘n mèz a la strada per la stracità, putòst che petàrse ‘nten lèt. La só idea l’era chela de tòr su informazion enchel’ostarìa su cant che l’era lontan l’Adda, e nir a savér, con en pòc’ de malìzia, na strada che lo portàs al fiume e po' méterse de nòu en viàz sùbit dopo èsserse ristorà. Essèndo nat e po' cressù vizìn a le sortìve de l’Adda, l’eva sentù dir tante bòte che, a ‘n zèrto punto, el fiume ‘l segnava ‘l confìn tra ‘l Ducato de Milan e ‘l teritòri del Veneto. Però n’idea zusta de ‘ndo che ‘l fus chel trato nó i la geva, ge ‘nteressava però traversàr el confìn pù prést che ‘mprèssa, en calunque pòsto ‘l fus sta. Se nó ‘l fus sta bòn enchel dì, l’era pronto a ciaminàr enfìn che le forze e ‘l scur i ge lo permetéva, per po' trovar en posto per passar la not enten ciàmp o ‘nten pòsto fòr de man pur che nó fus n’ostarìa. Fat calche pas per Gongonzola, l’à vist n’insegna de n’ostarìa e l’è nà ént; a l’òst, che g’era nù ‘ncontra, l’à domandà ‘n bocón e ‘n cartìn de vìn: la strada ‘n pù che l’eva fat, la geva fat passar l’òdio per el vin. “Fè prést per piazér, perché g’ài bisògn de partìr sùbit.” E chesto i l’eva dit perché l’era vera, ma ancia perché ‘l geva paura che a l’òst, emmazinàndose che ‘l volés dormìr ìo, nó ge fus nù ‘n ment de domandàrge ‘l nòm e ‘l cognòm, e da ‘ndo che ‘l nidéva, e perché… per amor de Dio! L’òst el g’à respondù che i l’averòs servì sùbit; e ‘l Renzo l’è nà a sentàrse zó fòr enzìma a la tàula, vizìn a la porta, ‘ndo che de sòlit se senta zó cì che g’à respèt. Enl’ostarìa g’era ìo arcanti paesàni vòia de laoràr, sàuteme adòs, che, dopo che i eva chestionà e considerà le notìzie che era nù da Milan el dì prima, i era ansiosi de savér come che l’era nada a finìr. El desidèri l’era ancor pù fòrt perché chel che i eva savèst enfìn cì, nó i l’eva contentàdi assà, anzi le eva fat aumentàr la curiosità. Se seva che gera sta na rivoluzion, né smorzàda, né vitoriósa, troncada da la nòt pù che ruàda dal tut. La situazion emparéva che la fus pù la fìn de n’ato che la conclusion de tuta na comèdia. Un de chesti ‘l s’è destacià dal ròz e ‘l s’è svizinà al Renzo e ‘l g’à domandà se per caso ‘l nidés da Milan. “Mì?” dis el Renzo sbalordì, e per vadagnàr en pòc’ de tèmp per risponder. “Sì, voi, se pòdi domandàrvel.” El Renzo, scorlàndo la testa, struciàndo i làuri, e soflàndo fòra na speze de sìgol, el dis: - Milan, da chel che ài sentù dir… nó ‘l dev’èsser en pòsto da nar ente stì momenti, se nó se è obligiàdi. “Sichè ancia ‘ncòi i seghita col gazèr?” l’à domandà restìu chel curiós. “Ge voròs èsser ìo, per savérlo,” dis el Renzo. “Ma voi, nó nidéo da Milan?” “Mì vèni da Liscate,” l’à respondù taià ‘l putèl, che ‘ntant l’eva studià che dir. A dir la verità el nidéva pròpri da Liscate, essèndoge passà e ‘l nòm i l’eva savèst, a ‘n zèrto punto de la strada, da ‘n viandànt che ‘l geva ‘nsegnà chel paés come ‘l prìm da traversar per arivar a Gorgonzola. “Oh!” dis l’òm; come se ‘l volés dir: faròstus meio a nir da Milan, ma pasiènza. “E a Liscate,” ‘l dis, “nó se seva ‘ngot de Milan no?” “Poròs ben èsserge de segur calchedun ìo che savés de pù” à respondù ‘l Renzo: “ma mì nó ài sentù dir engot.” Ste parole i l’à proferìde ente chel modo particolare come per dir: nó g’ài àuter da dir. Chel curios l’è tornà al só pòsto, e, n’àtimo dopo è nù l’òst a méter en tàula. “Cant g’è po' da cì per arivar a l’Adda?” g’à domandà ‘l Renzo mèz entrà i denti, con en far da ‘ndromenzà, che gen vist àutre bòte. “A l’Adda, per passar?” dis l’òst. “Ma sì… sì… a l’Adda.” “Ma voléo passàr dal pònt de Cassano, o su la bàrcia de Canonica?” “Ma sì, endo che ‘l sia… Domandavi ‘nzì per curiosità.” “No, l’è perché chei ìo l’è i pòsti ‘ndo che passa i gialantòmni, la zènt che che nó la g’à ‘ngot da scònder.” “Bòn va ben, ài ciapì: e cant g’è po'?” “Fé cont che tant da na banda che da l’àutra, pòc’ su, pòc’ zó, ge sarà sei chilometri.” “Sei chilometri! Nó credévi ‘nzì tant,” dis el Renzo. “E zà,” el g’à tacià dopo, come se nó ge ‘nteressàs mìgia: “e cì che giavés bisògn de zapar en scùrtol, g’è àutri pòsti da podér passar?” “Ma segur che ge n’è,” g’à rispondù l’òst fissàndol con doi òcli pléni de curiosità e putòst maliziosi. L’è sta assà chesto perché ‘l Renzo l’amplantàs ìo sùbit de far àutre domande. El s’è tirà davanti ‘l piat, e vardàndo ‘l cartìn de vin che l’òst el geva pozà ìo ensèma al piat su la tàula, ‘l dis: “èl bòn sto vin?” “Come l’òr,” dis l’òst: “domandàge pur a tuta la zènt del paés e cì ‘ntorna, che i lo sa ben: e po', sentiréo ancia voi,” e disèndo ‘nzì l’è tornà vèrs ca sclapada. — Maledéti tuti i òsti! — l’à sclamà ‘l Renzo ‘ntrà de el: — pù che ‘n cognóssi, pézi i tróvi. — El fato l’è che ‘l s’è metù a magnàr con en grant apetìt, e ‘ntel stes tèmp el féva récle, fasèndo finta de ‘ngot, per sentìr chel che i diseva e chel che i pensava de chei grant fati ‘ndo che el l’eva bù na part putòst granda, e sora tut se tra chei òumni ge ‘n fus sta ‘n calun da gialantòm e a chesto ‘n pòer putèl l’avés podèst domandàrge la strada, senza paura de èsser sospetà, e magiàri obligià a zacolar dei só afari. “Ma!” diséva un: “sto bòt empar pròpri che i milanesi i abià volèst far per dal bòn. Basta; al pù tardi, doman se saverà vergot de segur.” “Me clàmi malpentì de nó èsser nà a Milan stadomàn,” diséva n’àuter. “Se domàn vàs tì, vèni ancia mì,” dis n’àuter; e po' compàgn àutri doi. “Chel che voròssi savér,” dis ancor el prìm, “l’è se chei siori da Milan i penserà ancia a la pòra zènt de le val, o se i farà far la léze bòna sol per lori. El séo bèn come che i è no? Zitadìni superbóni, tut per lori: i àutri, come se nó i ge fus.” “La bócia la gen ancia noiàutri, sia per magnar sia per dìr le nòsse resón,” diséva n’àuter, con na ós ùmile, con prudenza: “E cando che la situazion la zaperà na zèrta plégia…” però l’à pensà che l’era mèio magnar tut che dìr tut. “Nó l’è sol a Milan che i à scondù ‘l gran…” el scomenziàva via un, con en far rabiós e maliziós; ente chela ì à sentù che se svizinava ‘n ciavàl. Tuti i è córsi su l’us a véder cì che l’era, e avèndol cognossù i g’è nadi ‘ncontra. L’era ‘n merciandèl milanes che, viazàndo de spés tra Milan e Bergamo per i só afari, el se fermava sèmper ìo ‘nca ostarìa per passar la nòt. Sicome l’ancontrava sèmper chei, i li cognosséva tuti benón. Sichè i s’è metùdi tuti ‘ntorn contènti: un el g’à zapà la bréna, n’àuter i l’à aiutà a desmontàr dal ciaval, con tanto de saluto: “Ben arivà, ben arivà!” “Ehilà, ge séo?” “Eo fat bòn viaz?” “Bonìssim; e voiàutri, come steo po'?” “Benón, benón. Che nòve né portào po' da Milan?” “Ah! eco che i g’è chei da le novità,” dis el merciandèl, desmontàndo dal ciaval, lagiàndogel en man a ‘n giarzón. “E dopo, e dopo,” el dis entel nar ént en l’ostarìa tuti ‘nsèma, “a st’ora, forse, saveréo de pù e mèio voi de mì.” “Noi, nó sén pròpri ‘ngot, dalbòn,” diséva arcanti de chei ìo, metèndose la man sul còr. “Possìbol?” dis el merciandèl, “Sichè, alor en sentiréo de bèle… o brute.” Ehi òst, èl lìbero ‘l me sòlit lèt? Benón: portàme ‘n bicér de vin, e ‘n bocón del sòlit, e sùbit, perché voròssi nar entel lèt prestòt, doman matìna g’ài da partìr en valdì, e arivar a Bergamo per ora de disnàr. “E voiàutri,” ‘l dis, sentàndose zó, da l’àutra banda de ‘ndo che l’era sentà zó ‘l Renzo, zito e atènto, “siché voiàutri nó séo engot de tute che strambade da ieri?” “Sì de ieri.” “Alor le séo le novità” dis el merciandèl, disévi ben mì. “Séo sèmper cì a tènder a cì che va e che vèn…” “Ma, ‘ncòi, com’èla nada po', ‘ncòi?” “Ah ‘ncòi. Nó séo engot de ‘ncòi no?” “Engot de ‘ngot: nó è passà pròpri ‘nzun.”