El pitàr (La giara)
Nota del traduttore La resa in noneso di questa celebre novella di Luigi Pirandello, ha incontrato diverse difficoltà a cominciare dal fatto che nella cultura contadina nonesa non esiste l’olivicoltura e di conseguenza tra i vari recipienti usati in Valle di Non non c’è la giara. C’è invece il pitàr (con il suo diminutivo pitaròt e il suo accrescitivo pitarón): anch’esso è un vaso di terracotta adoperato (in genere) per conservare lo strutto, ma ha altra forma e più ridotta capacità rispetto alla giara descritta da Pirandello. E tuttavia ci è sembrato legittimo di usare questo termine per tradurre «giara». Sono state ben altre, però, le complicazioni nelle quali ci si è imbattuti, soprattutto per rendere le situazioni paradossali della narrazione del grande scrittore siciliano, nella lingua nonesa. Del risultato, infatti, non c’è piena soddisfazione e restiamo in attesa di rettifiche e miglioramenti da parte di chi vorrà partecipare a questo lavoro. Ben volentieri saranno presi nella dovuta considerazione.
Piena anche per gli olivi, quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire. Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa. Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non la attaccava don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarli agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato. Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare. Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: – Sellate la mula! – Ora, invece: – Consultate il calepino! E don Lollò rispondeva: – Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane! Quella giara nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antro intanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghi senz’aria e senza luce, faceva pena. Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura delle olive, e don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una su gli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo. Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti. – Guardate,! guardate! – Chi sarà stato? – Oh mamma mia! E chi lo sente ora don Lollò? La giara nuova, peccato! Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne. Ma il secondo: – Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti! Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò: – Don Lollò! Ah, don Lollòoo! Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell’uomo sempre infuriato. – Don Lollò! Ah, don Lollòoo! Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro, gridando: – Sangue della Madonna, me la pagherete! Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto: – La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata ancora! Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? ma come? Non si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana! Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono a esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su, nuova. C’era giusto Zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco: se don Lollò voleva, domani, alla punta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr’otto, la giara, meglio di prima. Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; che non c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle. Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico d’olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino. Mutria, o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’inventore non ancora patentato. Voleva che parlassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto. – Fatemi vedere codesto mastice, – gli disse per prima cosa don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo, con diffidenza. Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità. – All’opera si vede. – Ma verrà bene? Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’attenzione eia curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d’occhiali col sellino e le stanghe rotti e legati con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta su l’aja. Disse: – Verrà bene. – Col mastice solo però, – mise per patto lo Zirafa, – non mi fido. Ci voglio anche i punti. – Me ne vado, – rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle. Don Lollò lo acchiappò per un braccio. – Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io. Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d’arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice. – Se la giara – disse – non suona di nuovo come una campana… – Non sento niente, – lo interruppe don Lollò. – I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare? – Se col mastice solo… – Càzzica, che testa! – esclamò lo Zirafa. – Come parlo? V’ho detto che ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi. E se n’andò a badare ai suoi uomini. Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto gli crebbero a ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo staccato per farvi passare il fai di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tanaglie fece del fi] di ferro tanti pezzetti quant’erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano. – Coraggio, Zi’ Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata. Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne la virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tanaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino d’applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc’anzi. Prima di cominciare a dare i punti: – Tira! – disse dall’interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, sì o no, come una campana, anche con me qua dentro? Va’, va’ a dirlo al tuo padrone! – Chi è sopra comanda, Zi’ Dima, – sospirò il contadino, – e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti. E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là dalla saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo. – Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi’ Dima. Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’ Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più modo a uscirne. E il contadino, invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata, e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva esser rotta daccapo e per sempre. Alle risa, alle grida, sopravvenne don Lollò. Zi’ Dima, dentro la giara, era come un gatto inferocito. – Fatemi uscire! – urlava. – Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto! Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci. – Ma come? Là dentro? s’è cucito là dentro? S’accostò alla giara e gridò al vecchio: – Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano!… Che! giù… aspettate! così no! giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccomandare tutt’ intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. – Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula! Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana. – Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate! – disse al prigioniero. – Va’ a sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po’ che mi capita! Questa non è giara! quest’è ordigno del diavolo! Fermo! fermo lì!». E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola. – Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido. La mula! la mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro… Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano? – Non voglio nulla! – gridò Zi’ Dima. – Voglio uscire! – Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire. Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso: – Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato. Ordinò che gli si desse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé al manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava. Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell’avvocato; ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì. – Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia! Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso, com’era stato, per farci su altre risate. Dentro, eh? S’era cucito dentro? E lui, don Lollò, che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara? – Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Il danno e lo scorno? – Ma sapete come si chiama questo? – gli disse in fine l’avvocato. – Si chiama sequestro di persona! – Sequestro? E chi l’ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – S’è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io? L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall’altro, il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine. – Ah! – rifiatò lo Zirafa. – Pagandomi la giara! – Piano! – osservò l’avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo! – E perché? – Ma perché era rotta, oh bella! – Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato! L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso. – Anzi, – gli consigliò, – fatela stimare avanti da lui stesso. – Bacio le mani, – disse don Lollò, andando via di corsa. Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia saltando e abbajando. Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi. Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara. – Ah! Ci stai bene? – Benone. Al fresco, – rispose quello. – Meglio che a casa mia. – Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze, nuova. Quanto credi che possa costare adesso? – Con me qua dentro? – domandò Zi’ Dima. I villani risero. – Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l’una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla, tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu. Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse: – Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così sconciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no. – Un terzo? – domandò lo Zirafa. – Un’onza e trentatré? – Meno sì, più no. – Ebbene, – disse don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un’onza e trentatré. – Che? – fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso. – Rompo la giara per farti uscire, – rispose don Lollò, – e tu, dice l’avvocato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré. – Io, pagare? – sghignò Zi’ Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi. E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara. Don Lollò ci restò brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non volesse più uscire dalla giara, né lui né l’avvocato lo avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula!» ma pensò ch’era già sera. – Ah sì? – disse. – Ti vuoi domiciliare nella mia giara? Testimoni tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l’uso della giara. Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose, placido: – Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria! Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo. – Vede che mastice? – gli disse Zi’ Dima. – Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l’ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vedremo chi la vince! E se n’andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò di far festa quella sera insieme coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era una luna che pareva fosse raggiornato. A una cert’ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d’inferno. S’affacciò a un balcone della cascina e vide su l’aja, sotto la luna, tanti diavoli: i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola. Questa volta non potè più reggere, don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo. E la vinse Zi’ Dima.
Ancia i olivi, chel’an i era ciargiàdi. Plante che bondava, l’an prima le eva fat nossocànt, e ancia stó an le era ciargiade ancia se can che le èra ‘n flór g’èra stà la nèbia. El Zirafa, che ‘l gé néva arcante ‘ntel só podér a le Quote a Primosole, calcolando che i zinc' pitaroni vècli smaltadi de teracòta che ‘l géva ‘n la cianva nó i saròss stadi assà per méter via tut l’òio de la nòva coidùra, a só tèmp el n’éva ordinà ‘n sèst a San Stèfen de Camastra endó che i li frabiciava, che 'l tegnìva de pù e àut enfin al stómec de n’òm, bèl co la só gran panza, e che ‘l fus l’abàte de i àutri zinc'. Nància dirlo, l’éva begià ancia col foghìn per sto pitàr. Con cì èl po’ che nó ‘l litegiava el Lollò Zirafa? Per ogni stupidada, ancia per en sassòt crodà zó dal murét de confìn, ancia per na paiòla, el zigiàva che i gé selàs la mula per córer da l’avocàt en zità. Enzì, a furia de ciarte bolàde e pagiàr avocati, denonziando chésto e chél e pagiando sèmper él le spese, el s’èra mèz rovinà. I disèva che ‘l só avocàt, stuf de védersel dinanzi dói tréi bòte la semmana, per tòrsel fòr da le bale, el géva regialà ‘n librét come chéi da messa: el còdize, che ‘nzì ‘l podéva ranʓàrse da só pòsta a trovarse la resón en le bège che ‘l voléva ‘nviàr via. Prima, tuti chéi che éva bu da dir, per tòrlo per ziro i gé zigiava: ― Selà la mula! ― Adès, envéze: ― Vardà sul vocabolàri! E don Lollò ‘l rispondeva: ― Segùr, e ve brusi tuti canti, cani da l’òstrega! Chel pitàr nòu, pagià càter ónze balanti e sonanti, prima de trovàrge ‘n posto ‘nla ciànva, entant i l’eva metù ente 'l vòut. En pitàr enzì nó se l’era mai vist. Metù ‘n chel bus plen de tanf de móst e de chel odór àger e crùo che stagna ente i posti senza aria e senza luze, el féva pecià. Da dói dì i éva scomenzià a bàter le olive, e don Lollò l’èra rabiós come ‘n bis, perché tra i batidóri e i menadóri che era nù con le mule ciargiàde de conzìme da méter a mucli su per la costa endo che néva ʓó le fave per l’an dopo, nó ‘l séva pù come spartìrse, a cì che ‘l géva da tènderge prima. E ‘l blestemava come ‘n turco, e ‘l prometéva de fulminar chésti e chéi, se n’oliva, che ‘l fus n’oliva, la ge fus manciàda, come se i l’aves contade tute una a una su le plante; o se ogni mùcel de conzìme nó ‘l fus come l’àuter. Col ciaplàz bianc, en mànge de ciamìsa, col stómec descuertà, ros come ‘n gialinàz e col sudór che sgozava, el coréva de cà e de là, zirando i òcli da lupo e fregiàndose con na rabia de chéle le gòute apena rasade, ma su che gòute la barba la rebutava sùbit entànt che ‘l se rasava. A la fin de la terza ʓornàda de laoro, tréi giarʓoni che éva batù le olive, i è nadi 'ntel vòut per méter via le s-ciale e le late e i s’è giatàdi dinanzi ai òcli chel bel pitarón nòu, spacà ‘n dói tòci, come se calchedun, con na smanarotada nèta, giavés destacià el tòc davanti de tuta ca gran panza. ― Vardà cì,! vardà! ― Cì saràl sta po’? ― Zesùmaria! E cì èl po’ adès che sènt don Lollò? El pitàr nòu de zéca, che pecià! El prim, el pù paurós de tuti, l’à proponèst de seràr en cà sùbit la porta e nàrsen ʓiti ʓiti, lagiando fòra, poʓàde al mur le s-ciale e le late. Ma però ‘l secónt: ― Séo mati? Con don Lollò? El saròs bòn de créder che gé l’én róta noiàutri. Fermàve cì tuti! L’è nà fòr davanti al vòut e, faséndose portaós de le man, l’à clamà: ― Don Lollò! Ooi, don Lollòoo! L’èra ìo sóta la còsta che ‘l vardava des-ciargiàr el conzìme; come al sòlit el se sbrazzava furiós, e ‘l se déva ogni tant con tute dói le man na ciaciàda al ciplàz bianc. A bòte, a forza de che cialciàde, l’arivava a nó podérsel pù tòr via dal copìn e da la zucia. Entel ziél era ʓà dré a smorzàrse i ultimi fògi de la sera, e su ca paze che regnava sóra la ciampagna col sol che néva zó e ‘n pòc de frescura, g’èra i ʓèsti de chel’òm sèmper rabiós. ― Don Lollò! Ah, don Lollòoo! Cando che l’è arivà e la vist el dan, empareva che ‘l volés nar fòr mat. Prima ‘l s’è petà contra chei tréi; el n’à zapà un per el cravatìn e i l’à ‘ndrizzà su per el mur, e ‘l zigiava: Madonaro, chésta mé la pageréo ciara! Brancà po’ dopo i àutri dói, spaventadi e con le fazze da bestie colór de la tèra, l’à voutà contra sé stes la rabia furiósa, l’à tràt el ciplàz per tèra, el se déva sbèrle su le gòute, el pestava i pèi e ‘l sbraitava come chéi che plànz sóra ‘n parènt mòrt: ― El pitàr nòu! Càter onze de pitàr! Ancora da ‘mprimar! El voléva savér cì che gé l’éva rót! Possìbol che ‘l se fus rót da só pòsta? Per forza calchedun l’éva rót per dispèt o per invidia! Ma cando po’? ma come po’? Nó se vedéva ‘l minimo ségn de furia! Che ‘l sia arivà difetà da la frabicia? Ma va là! El sonava come na ciampana! Apena che i giarʓoni i à vist che g’èra dat ʓó la rabia, i à scomezià a dirge de star calmo. El pitàr se podeva conzarlo. Nó l’era po’ rót malament. L’era ‘n tòc sól. Un bòn de ʓustàr pitàri i l’avròs rimessa come prima, nova. Caso l’è che g’era Zi’ Dima Licasi, che l’éva trovà ‘n màstize miracolós, che sol él séva ‘l secrèt e l’era ʓelós: em màstize, che nancia ‘l martèl gé ‘mpodéva, però cando che l’éva fat presa. Eco: se don Lollò l’aves volèst, la doman dré bonora, Zi’ Dima Licasi el saròs nù ìo e, ‘nt en bàter d’òcel, el pitàr, l’era mèio de prima. Don Lollò ‘l diséva de no a chei consìli: perché l’era tut inùtil; perché nó g’èra pù rimèdi; ma a la fin el s’à lagià convìnzer, e ‘l dì dré, che l’albeʓava, prezìso, s’è presentà a Primosole Zi’ Dima Licasi con la só zésta de le só arzare dré le spale. L’era ‘n vècel stòrt, dale noséte stropiade e sgropolóse, come ‘n zòc vècel antico de olivo moro. Per ciavàrge fòr na paròla da bócia gé voléva ‘n rampìn. El mus come ‘n s-ciarpón, o na gran malancolìa encarnade en chél òm malfat; o ancia pòcia fiducia che ‘nzuni podés ciapìr e prezziàr ʓustamént el só mèrit de inventór ancor senza patente. El voleva che parlas e fati, Zi’ Dima Licasi. E ‘l cognéva vardarse dinanzi e de dré, che nó i gé robas el só secrèt. ― Féme véder stó màstize, ― el g’à dit per prima ròba don Lollò, dopo che i l’èva squadrà per bèn con malfidènza. Zi’ Dima plén de orgòi ‘l g’à fat ségn de nó con la testa. ― A laóro finì se vedrà. ― Ma niràl ben? Zi’ Dima l’à poʓà la zésta per tèra; l’à tirà fòr en fazzolét de cotón ros, fluà e tut entortolà; el s’à metù a desplegiàrlo plan plan, entàn che tuti i vardava curiosi, e can che a la fìn è sautà fòr en par de oclài col poʓanas e le stangéte rote e ligiade con el spac, l’à sospirà e i àutri i à grignà. Zi’ Dima nó ‘l g’à nancia fat caso; el s’à netà i dédi prima de tociàr i oclài; el sé l’à ‘nforciàdi; po’ ‘l s’à metù a esaminar con tanta importanza ‘l pitàr tiràda en la córt. E l’à dit: ― La nirà ben. ― Sol col màstize però, ― dis el Zirafa per pato ― nó me fidi nò. Gé vòl dàrge ancia dói pónti. ― Alór me ‘n vón, ― ge rispònt sùbit el Zi’ Dima, e tiràndose su ‘n pè ‘l s’à metù le zésta drè le spale. Don Lollò el l’à brancà per en braz. ― Endó po’? Siór e pòrco, enzì tratào? Ma varda tì che che arie da Carlomagno! Paiàzzo de n’àsen che nó sés àuter, mì dént entel pitàr cògni méter l’òio, e l’òio ‘l stravina! En metro de spacadura, sol col màstize? Ge vòl i pónti. Màstize e pónti. Comàndi mì. Zi’ Dima l’à serà i òcli, l’à strucià i làuri e la scorlà la testa. Tuti ‘nzì! I ge negiava ‘l piazér de far en laóro fat bèn, fat con coscienza a regola d’arte, e de far véder na bòta che ‘l só màstize l’era pròpri ‘n màstize straordenari. Se ‘l pitàr ― el dis ― nó ‘l sòna de nòu come na ciampana… ― Nó sènti ‘ngót, ― i l’à fermà don Lollò. ― I pónti! Mì pagi màstize e pónti. Cant me togéo po’? ― Col màstize sol… ― Òs-cia, che testa da remenàt! ― dis el Zirafa. ― Pàrlite todes-c? v’ài dit che vòi i pónti. Po’ narén d’acòrdi can che ‘l laóro l’è ruà: nó g’ài temp da perder con voi. E ‘l se n’è nà a vardarge sóra ai só giarʓoni. Zi’ Dima ‘l s’è metù sóta a laoràr plén de rabia e oféso. E la rabia e l’ofésa le ge creseva a ogni bus che ‘l féva col tràpen entel pitàr e ‘ntel tòc destacià per fàrge passar el fil de fèr de la cosidura. El compagnava ‘l molinèl de la ponta del tràpen con grugni man a man sèmper pù forti e spessi; e ‘l muse l ge deventava pù vért da la rabia e i òcli pù struciàdi e pleni de ira. Finì ca prima operazión, l’à petà con rabia ‘l tràpen en la zésta; l’à tacià ‘l tòc destacià al pitàr per véder se i busi i l’èva fati ʓusti se i néva d’acòrdi tra de lori se i era a distanza compagna,, po’ con la tenàia l’à fat tanti tocéti de fil de fèr canti che era i pónti che ‘l geva da far, e l’à clamà per dàrge na man un de chei giarʓoni che bateva le olive. ― Coràʓo, Zi’ Dima! ― g’à dit sùbit el giarʓon, a véderlo con la fazza rabiósa. Zi’ Dima l’à auzzà la man con en ʓèst rabiós. L’à davèrt la s-ciàtola de banda endó che ‘l geva ént el màstize, e i l’à levà per aria, scorlàndol su, come per esebìrgel al Sioredio, visto che i òomni nó i voléva améter che l’era ‘l màstize pù bòn: po’ col dé l’à scomenzià a ónʓer en ʓiro tute l tòc destacià e po’ tuta la spacadura; l’à zapà la tenàia e i tocéti de fil de fèr che l’éva ʓà preparà, e ‘l s’è cazzà ént la panza del pitàr, ordinando al giarʓon de taciar su el tòc al pitàr, come che éva ʓusta fat él. Prima de scomenziàr a dar i pónti: ― Tira! ― ‘l dis da ént del pitàr al giarʓon. ― Tira con tuta la tó forza! Varda se ‘l tègn? Malegnàʓa a cì che nó ge crét! Bati, bati! Sònela, sì o no, come na ciampana, ancia con mì che son ént? Vai, vai a dìrgel al tó padrón! Cì che è sora ‘l comanda, caro Zi’ Dima, ― l’à sospirà ‘l giarʓon, ― e cì che è sóta ‘l se dana! Dege i pónti, dege i pónti. E Zi’ Dima ‘l s’è metù a far passar el fil de fèr a travèrs i doi busi vizìni, un de cà e l’àuter de là da la saldadura; e con la tenaia l’entortolava i dói ciavi. G’à volèst n’ora a passarli tuti. E dénter el pitàr el sugiava come na fontana. Entàn che ‘l laurava, el se lamentava de la só bruta sòrt. E ‘l giarʓon, de fòra, a consolarlo. ― Adès àideme a nir fòra, ― el dis ala fìn Zi’ Dima. Ma ‘l pitàr l’era làrc de panza cant che l’èra strént de col. Zi’ Dima, col nervóso che g’èra nù, nó ‘l geva fat caso. E adès, prova e prova, nó l’èra pù bòn de nir fòr. E ‘l giarʓon, envéze che dàrge na man, l’èra ìo che se storʓéva da le risade. Empresonà, empresonà dént ìo, entel pitàr che pròpri el éva ʓustà, e che adès ― nó g’èra àuter modo ― per farlo nir fòra, ge voleva róter n’àuter bòt e per sèmper. A sentìr le risade, i zigi, è ciapità don Lollò. Zi’ Dima, dénter entel pitàr, l’era come ‘n giat furiós. ― Féme nir fòra! ― l’urlava. ― Sacranón, vòi nir fòra! Sùbit! Déme na man! Don Lollò sùbit per sùbit l’è restà ìo come ‘nsemenì. Nó l’èra bòn de créderge. ― Ma come po’? Ìo dénter? el s’è così ìo dénter? el s’è svizinà al pitàr e l’à zigià: ― Aiùt? Che aiùt pòdite darve po’ mì? Brut veclàz redeicoióni come po’? nó géveo da tòr le misure prima? Déi, provà a petàr fòr en braz… enzì! E la testa… déi… no, plan!... Che po’! ʓó… aspetà! enzì no! ʓó, ʓó… Ma come éo fat po’? E ‘l pitàr adès? Calma! Calma! Calma! ― el seitàva raccomandar a chéi che g’èra ìo ‘ntórn, come se la calma i l’avés persa i àutri envéze che el. ― Me funa la testa! Calma! Chesto l’è ‘n caso nòu… La mula! L’à batù con le noséte dei dédi sul pitàr. El sonava pròpri come na ciampana. ― Bèla, però! Tant che nòva… Aspetàme! ― el g’à dit al presonér. ― vai a selàrme la mula! ― l’à ordinà al giarʓon; e gratàndose con tuti i dedi la testa, el seitàva a dirse entrà de él: «Ma varda tì chél che me tócia véder! Chésto nó l’è ‘n pitàr! Chésto l’è n’ordégn del diàol! Fermo! Stai fermo ìo!». E l’è córs a tègner el pitàr, con dént Zi’ Dima, che se aʓitava come na bestia ente na tràpola. ― Caso nòu, caro mio, i lo deve risòlver l’avocàt! Mì nó me fidi. La mula! la mula! Vón e vèni, abi pasiènza! L’è interès vòs… Entànt, plan, calma! Mì me vardi i mèi. E prima de tut, per far i mé afari, fón el mé dovér. Eco: mì vé pagi ‘l laóro, vé pagi la ʓornàda. Zinc lire. Èle assà? ― Mì nó vòi engota! ― Zigiava Zi’ Dima. ― Vòi sól nir fòra! ― Niréo fòra. Ma mì ‘ntant vé pagi. Vardà cì, zinc lire. I l’à tòte fòr da la s-ciarsèla del corpét e i l’à petàde entel pitàr. Po’ ‘l g’à domandà tut premurós: Eo fat colazión? Pan e companàdec, sùbit! Nó ‘n voléo no? Trégel ai ciagni! A mì mé basta de avérvel dat. L’à ordinà che i gé lo dés; l’è montà su la sèla, e via al galòp vèrs la zità. Cì che l’à vist, el credéva che ‘l nés a seràrse via ‘ntel manicòmio, tanto redìcol l’èra ‘l modo che ‘l sé sbrazava. Per fortuna, nó g’èra tocià de spetàr l’avocàt entel só studi; ma g’èra tocià de spetàr en bèl pèz, prima che chésto ‘l desmetés de grignar, cando che ‘l g’éva presentà ‘l só caso. De che grignade ‘l s’è oféso. ― El mé scùsia, ma che g’è po’ da grignar? A voi Ecelènza nó vé ‘nterèssa! El pitàr l’è mè! Ma l’avocàt el seitava a grignar e ‘l voleva che ‘l gé contàs ancora ‘l caso, come che l’èra nada, per fàrge sóra àutre risade. Ah dénter? El s’è così dént? E don Lollò, che pretendével po’? te… tegni… tegnìrlo dénter… ah ah ah… ohi ohi ohi… tegnìrlo dént ìo per nó ʓontàrge ‘l pitàr? ― Cògnite perderlo? ― l’à domandà ‘l Zirafa coi pugni seradi. ― El dan e la ‘mbroiada? ― Ma séo come che ‘l sé clama chésto? ― A la fin g’à dit l’avocàt. ― El se clama sequestro de persona! ― Sequestro? E cì èl po’ che l’à sequestrà? ― el zigiava ‘l Zirafa. ― L’è sta él a sequestràrse per só cónt. Che colpa giàite po’ mì? L’avocàt alór el g’à spiegià che l’èra dói casi. Da na banda, el, don Lollò, el géva da liberàr sùbit el presonér per nó rispondér de sequestro de persona; da l’àutra, ‘l parolòt el géva da risponder del dan che l’èva fat ciàusa ‘l só pòc de bòn o la só strambarìa. ― Ah! ― dis el Zirafa tiràndo ‘l flà. ― Pagiàndome ‘l pitàr! ― Plan! ― dis l’avocàt. ― Nó migia come la fus nova vè no! ― Perché? ― Oh bèla, perché l’èra ʓà róta! ― Róta? No vè no. adès la è sana. Meio che sana, i ló dis el stés! E se tórni a róterla, nó podrài pù farla ʓustar. Pitàr perdù, siór avocàt! L’avocàt el g’à assicurà che l’avròs tegù cónt, fasèndogela pagiàr per tant che la valéva ente le condizión che la èra adès. ― Anzi ― ‘l g’à consilià, ― féla stimar prima dal parolòt stés. ― Ve basi le man, ― el dis don Lollò, e l’è nà via de corsa. A la sera, de ritorno, la trovà tuti i giarʓoni che féva festa ‘ntórn al pitàr abità. A la festa g’èra ancia ‘l ciagn da guardia che ‘l sautàva e ‘l sbofava. Zi’ Dima ‘l s’èra calmà, anzi ‘l géva zapà gusto a pensar a lo só avventura e ancia él el grignava con l’alegrìa de cì che se divèrt per forza. El Zirafa l’à parà via tuti e l’à vardà ént entel pitàr. ― Ah! Stàs dént benón? ― Benón. Al frés-c, ― el g’à respondù. ― Mèio che a mé ciasa. ― Mé fa piazer. Entànt tè avèrti che sto pitàr el m’è costà càter onze, da nòva. Cant crédes che la pòdia valér po’ adès? ― Con dént mì? ― g’à domandà Zi’ Dima. E i giarʓoni che grignava. ― Tasé! ― A zigià ‘l Zirafa. ― De le dói una: o ‘l tó màstize ‘l serve a vergót, o nó ‘l serve a ‘ngóta: se nó ‘l serve a ‘ngót, sés n’ambroión; se ‘l serve a vergót. El pitàr, enzì come che l’è ‘l deve avér el só prèzi. Che prèzzi po’? Stìmel tì. Zi’ Dima ‘l g’à pensà su ‘n pezzòt, po’ l’à dit: ― Rispondi. Se mè l’avésseo fat conzàr sol col màstize, come che volevi mì, prima de tut nó saròssi cì presonér, e ‘l pitàr el giaròss su per ʓó el stés prèzzi de prima. Enzì repezàda con sti pontazzi, che ài cognèst farge per forza da ca énter, che prèzzi poròssela aver po’? en tèrzo de chél che la valéva, sì e no. ― En tèrzo? ― À domandà ‘l Zirafa. ― N’onza e trentatréi? ― Putòst de mén che de pù. ― Bòn, bòn, ― dis don Lollò. ― Stón su la tó parola, e dàme n’onza e trentatréi. ― Che? ― l’à dit Zi’ Dima, come se nó l’avés ciapì. ― Spachi ‘l pitàr per fàrte nir fòra, ― à respondù don Lollò, ― e tì, dis l’avocàt, mé la pàges per el tant che l’éo stimada voi: n’onza e trentatréi. ― Mì, pagiàr? ― dis el Zi’ Dima grignànt. ― Voi Ecelènza scherzào! Stón cà ént enfìn che mòri. E, togèndose fòr a stènto la pipéta ‘ngrostada, i l’à ‘mpizzada e ‘l s’à metù a fumar, petàndo fòr el fum dal còl del pitàr. Don Lollò l’è restà con tant de nas. Stó caso cì, che ‘l Zi’ Dima nó ‘l volès pù nir fòra dal pitàr, né él né l’avocàt i l’éva ‘mpensà. E adès come sé podeva farla fòra po’? L’èra ìo ìo per ordinar de nòu: «La mula!», ma l’à pensà che l’èra ʓà sera. ― Ah sì? ― ‘l dis. ― Ti voròstus abitàr entel mé pitàr? Tuti testimòni! L’è él che nó ‘l vòl nir fòra, per nó pagiàrlo; mì son pronto a róterlo! Entànt, sicome ‘l vòl star ìo, doman mì ‘l denónzi per distrurbà possès e perché ‘l mé ‘mpedìss de dopràr el pitàr. Zi’ Dima l’à petà fòr n’àutra sboconàda de fum, po’ l’à respondù, calmón: ― Siór no. Mì nó vòi empedìrge ‘ngota no. Sónte cì forse per mé gusto? Féme nir fòra, e mì mé ‘n vón volintéra. Pagiar… nancia per schèrz, ecelènza! Don Lollò, enten cólp de rabia, l’à levà ‘n pè per postàr na peada al pitàr; ma po’ ‘l s’è fermà; e ‘nveze i l’à brancà con tute dói le man e i l’à scorlà su, tremànt. ― Vedéo che màstize? ― g’à dit Zi’ Dima. ― Can da l’ùa! ― l’à rognà ‘l Zirafa. ― Cì èl po’ che à fate l mal, mì o tì? E cògnite pagiàrlo mì? Tè agóri de morìr dént ìo! Vederén cì che la vénz! E ‘l se n’è nà, nó pensando ale zinc lire che ‘l g’éva petà ént entel pitàr a la doman. Con chéle, per scomenziàr, Zi’ Dima l’à pensà de far festa ca sera ensema coi giarʓoni che, avendo fat tardi per chel’azidènt, i restava ‘n ciampagna, a l’avèrta, enla cort. Un l’è nà a far la spesa ente na tavèrna ìo vizìn. A farlo a pòsta, g’èra na luna che ‘mparéva dì. A na zèrt’ora don Lollò, che l’èra nà a dormìr, el s’è fat fòra da ‘n bacàn del diàol. L’è nà fòr sul solar de la ciasa, e la vist en la cort, sóta la luna, tanti diàoli: i giarʓoni ‘mbriàgi che, tegnèndose per man, i balava ‘ntorn al pitàr. Zi’ Dima, dent ìo, ‘l ciantava a fin a spacàrse la gola. Sto bòt don Lollò nó l’à podèst pù soportar: l’è nà ʓó ‘nla cort come ‘n tòr enfurià e, prima che i giavés el tèmp de schivàrlo, con en spintón la mandà a rodolàr el pitàr ʓó per la còsta. Entel rodolar, compagnada da le gran risade de chei embriàgi, el pitàr le nà a spacàrse contra n’olivo. E Zi’ Dima i l’à venzùda.